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  • Martedì 12 dicembre 2023

La vita difficile dei vicepresidenti degli Stati Uniti

Il ruolo è considerato uno dei più ingrati e sopravvalutati della politica americana: poca influenza e poteri limitati, con qualche eccezione

Joe Biden e Kamala Harris (AP Photo/Andrew Harnik)
Joe Biden e Kamala Harris (AP Photo/Andrew Harnik)
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Il primo fu John Adams e commentò la sua elezione a vicepresidente degli Stati Uniti in una lettera del 1793 indirizzata alla moglie Abigail: «Mi è stato riservato l’incarico più insignificante mai inventato dall’uomo o concepito dalla sua immaginazione». Qualche tempo dopo, in un discorso al Senato, disse: «In questo ruolo non sono nulla, ma potrei essere tutto».

In più di duecento anni di storia le cose sono cambiate (anche per Adams, che divenne poi presidente). Il 6 gennaio del 2021, quando i sostenitori di Donald Trump assaltarono il Congresso, la folla entrò ripetendo il coro: «Impiccate Mike Pence». Era una minaccia esplicita rivolta al vicepresidente che per quattro anni aveva avuto un ruolo pressoché irrilevante nell’amministrazione, limitandosi ad approvare ogni decisione e intemperanza verbale del suo presidente. Dopo le elezioni del 2020, però, Pence decise di non violare la legge e ratificò la vittoria elettorale di Joe Biden, mentre Trump denunciava presunti brogli senza portare prove. L’esercizio di uno dei pochi e limitati poteri previsti dalla Costituzione per il vicepresidente trasformò Pence in un “traditore”, secondo i rivoltosi sostenitori di Trump.

Il ruolo del vicepresidente è considerato tra i più ingrati e sopravvalutati della politica statunitense. Il vicepresidente è a tutti gli effetti la seconda carica del governo, nonché la persona designata a sostituire il presidente in caso di morte o dimissioni, ma in situazioni non emergenziali le sue prerogative e competenze non sono definite da nessuna legge: semplicemente non esistono. «Il lavoro del vicepresidente prende la forma che il presidente vuole che abbia», disse Dan Quayle, vicepresidente del Repubblicano George H. W. Bush tra il 1989 e il 1993, che accettò presto la quasi totale irrilevanza attribuita alla sua figura.

L’unico potere ufficiale del vicepresidente è quello di presiedere il Senato, e se necessario votare in quella sede per sbloccare situazioni di pareggio. Per il resto supervisiona eventuali processi di impeachment (la procedura prevista dalla Costituzione americana per rimuovere un presidente in carica colpevole di alcuni gravi reati) e ratifica i risultati dei Collegi elettorali durante le elezioni presidenziali: compiti tutto sommato di routine, 2021 escluso.

I poteri reali del vicepresidente sono quelli che il presidente decide di delegargli, e in oltre due secoli di storia sono quasi sempre stati pochissimi. Quando nel 1960 chiesero al presidente Repubblicano Dwight Eisenhower quando uno dei pareri del suo vice Richard Nixon fosse stato adottato per una decisione, lui non trovò subito un esempio concreto e provò a cavarsela con una battuta maldestra: «Se mi date una settimana, cercherò di farmi venire in mente qualcosa». Quella risposta fu poi molto utilizzata nella campagna presidenziale di Kennedy contro Nixon, per sottolineare la presunta irrilevanza di quest’ultimo nell’amministrazione Eisenhower.

I vice possono essere esclusi da tutte le riunioni importanti. È successo per esempio a Harry Truman, che nel gennaio del 1945 divenne il vicepresidente del Democratico Franklin Delano Roosevelt, già al quarto mandato e in tempi di guerra. Truman restò in quel ruolo per 82 giorni, durante i quali fu tenuto all’oscuro praticamente di tutto cioè che succedeva ai livelli più alti del governo. Poi Roosevelt morì e lui si ritrovò di colpo al comando, perlopiù impreparato a gestire la situazione: «Mi sentivo come se la luna, le stelle e tutti i pianeti mi fossero caduti in testa». Scoprì solo allora che gli Stati Uniti stavano preparando la prima bomba atomica con il progetto Manhattan, guidato dallo scienziato J. Robert Oppenheimer.

Jimmy Carter, a destra, e il vicepresidente Walter Mondale nel 1976 (AP Photo/John Duricka, William A. Smith and Charles Tasnadi)

In altre occasioni, soprattutto in tempi più recenti, la collaborazione fra il presidente in carica e il suo vice è stata più assidua e proficua. Walter Mondale, vicepresidente del Democratico Jimmy Carter fra il 1977 e il 1981, fu il primo ad avere un proprio ufficio nella stessa ala della Casa Bianca, a ottenere l’accesso alle riunioni di più alto livello e agli stessi dossier che l’intelligence sottoponeva al presidente. Al tempo quel ruolo di consigliere e collaboratore era inedito per il vicepresidente, ma negli anni seguenti sarebbe stato replicato altre volte a partire da Bill Clinton e Al Gore, tra il 1992 e il 2000.

Quando entrò in carica nel 2008 anche Barack Obama attribuì ampie deleghe al suo vice, Joe Biden: fu incaricato di gestire i rapporti con il Congresso, per i quali Biden poteva sfruttare la sua lunga esperienza parlamentare, e gli fu affidata la supervisione di dossier molto delicati. Tra questi c’era quello sulla guerra in Iraq, iniziata nel 2003 quando gli Stati Uniti governati dal Repubblicano George W. Bush invasero il paese con l’obiettivo di rimuovere il presidente Saddam Hussein, accusato di essere in possesso di armi chimiche, biologiche e forse nucleari (che però non vennero mai trovate), e terminata nel 2011. Biden seguì anche il Recovery Act, un enorme piano di sostegno all’economia che fu approvato in seguito alla grande crisi finanziaria innescata dal crollo dei mutui alla fine del 2006.

Kamala Harris, Joe Biden e Barack Obama nel 2022 (AP Photo/Carolyn Kaster)

Il più potente, discusso e autonomo dei vicepresidenti fu però Dick Cheney, vice del Repubblicano George W. Bush tra il 2001 e il 2009. Soprattutto durante il primo mandato, fino al 2004, e in parte sfruttando le opportunità concesse dall’inesperienza di Bush, Cheney ebbe un ruolo centrale nel definire la politica interna ed estera degli Stati Uniti dopo l’11 settembre e i contorni di quella che fu definita la “guerra al terrore”. Cheney creò una catena di comando parallela e prese alcune importanti decisioni senza riferire direttamente al presidente: fu decisivo nel convincerlo della necessità di invadere l’Iraq nel 2003, nel promuovere l’uso delle “tecniche d’interrogatorio potenziato” (quelle adottate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 dall’intelligence statunitense sui presunti estremisti islamici detenuti, di fatto torture) e nel definire politiche di tassazione favorevoli per i più ricchi. La sua influenza sull’azione di governo diminuì parzialmente nel secondo mandato di Bush.

Il segretario di Stato Colin Powell, George W. Bush, Dick Cheney e il generale capo di stato maggiore Henry Shelton il 12 settembre 2001 (AP Photo/Doug Mills, File)

Cheney era arrivato alla vicepresidenza al termine di una lunga carriera, e non aveva ambizioni personali relative alla presidenza. Altri politici hanno invece vissuto la vicepresidenza come un possibile passaggio intermedio per poi candidarsi alla presidenza. Su 49 vicepresidenti, in quindici sono diventati presidenti. Otto lo hanno fatto per la morte del predecessore, Gerald Ford subentrando al dimissionario Richard Nixon, e solo sei attraverso elezioni. Prima di Joe Biden l’ultimo era stato George H. W. Bush, già vice di Ronald Reagan, nel 1989.

George H. W. Bush e Ronald Regan con Mikhail Gorbaciov nel 1988 (AP Photo/Scott Applewhite)

Da anni il vicepresidente è indicato personalmente dal candidato presidente di ogni partito: durante la campagna elettorale i due corrono in “ticket”, ossia in coppia, e se il presidente viene eletto entra in carica anche il vice. Non è sempre stato così. All’inizio del Diciannovesimo secolo, i primi presidenti vennero eletti per via parlamentare e si trovarono automaticamente come vice il secondo candidato più votato. Negli anni però questo sistema creò combinazioni di persone che la pensavano in modo opposto su molti argomenti, rendendo necessario il cambio di regolamento che portò alla selezione autonoma dei vice da parte dei candidati presidenziali.

Per tutto l’Ottocento la scelta si basò soprattutto su ragioni geografiche: un candidato del nord sceglieva un vice del sud, e viceversa, nell’intento di rappresentare il più possibile un paese unito e ottenere consensi diffusi. Oggi invece la nomina viene dettata da due fattori principali. Il primo è compensativo: il presidente sceglie qualcuno che possa bilanciare i suoi punti deboli. È il motivo per cui nel 2016 un outsider dalla retorica fiammeggiante e una movimentata vita coniugale come Donald Trump scelse Mike Pence, il più ortodosso devoto tra i governatori del Partito Repubblicano, ma anche per cui nel 2008 il giovane, afroamericano e inesperto Obama scelse un influente e rassicurante esponente del Congresso come Biden.

L’altro approccio possibile è quello confermativo: scegliere qualcuno che possa rafforzare e consolidare quelli che il candidato alla presidenza ritiene siano i suoi punti di forza, o comunque la sua identità. Per questo nel 1992 Bill Clinton, un quarantenne emergente del Sud, scelse come suo vice Al Gore, un altro quarantenne emergente del Sud; anche nel 2016 l’esperta e moderata Hillary Clinton scelse l’esperto e moderato Tim Kaine.

Altri fattori sono invece considerati secondari: scegliere con un criterio geografico, magari puntando su un candidato di uno stato in bilico, risulta spesso poco influente, così come dare priorità alla compatibilità di caratteri o di visione politica. In generale, il vicepresidente deve risultare credibile come “comandante in capo” in caso di estrema necessità e soprattutto non deve avere scheletri nell’armadio che possano diventare un problema per il candidato presidente.

La scelta può dare spazio mediatico per alcuni giorni, dare una spinta temporanea nei sondaggi e nelle raccolte fondi, ma in termini assoluti non è considerata decisiva per un’elezione. Con la sola esclusione di Lyndon Johnson, che nel 1960 permise a John Fitzgerald Kennedy di vincere in Texas, nella politica americana moderna non esistono candidati alla vicepresidenza che siano effettivamente stati risolutivi nella vittoria di un candidato alla presidenza: e quelli che possono dire anche solo di aver portato autonomamente dei voti sono pochi.

Al contrario, alcuni hanno condizionato in negativo le campagne elettorali. Nel 1972 il Democratico George McGovern scelse il senatore del Missouri Thomas Eagleton, ma solo diciotto giorni dopo gli chiese di rinunciare, perché la stampa aveva scoperto che Eagleton era stato in cura per depressione e sottoposto a elettroshock. George H. W. Bush fu eletto presidente nonostante i problemi di popolarità del vice Quayle, troppo presto etichettato come “Kennedy Repubblicano” ma dimostratosi per nulla incisivo nei confronti elettorali e negli appuntamenti pubblici, mentre Nixon puntò sullo sconosciuto Spiro Agnew per paura che personaggi più noti potessero fargli ombra: finì che Agnew divenne il primo vicepresidente a doversi dimettere per le accuse di evasione fiscale.

Nel 2008 il candidato Repubblicano John McCain, esperto senatore, ex veterano di guerra e conservatore moderato, indicò come vice la governatrice dell’Alaska Sarah Palin, pur conoscendola a malapena. Era giovane, era donna, ed era apprezzata dalla parte più radicale del partito: la scelta seguiva pienamente il criterio compensativo, ma Palin si dimostrò ampiamente inadeguata e si rivelò essere più un problema che un aiuto per McCain, che perse l’elezione contro Obama.

Sarah Palin e John McCain nel 2009 (AP Photo/Ross D. Franklin)

Palin fu la seconda donna candidata alla carica di vicepresidente nella storia degli Stati Uniti, dopo Geraldine Ferraro, scelta dal Democratico Walter Mondale nel 1984 (non vennero eletti). Nel 2020 Kamala Harris fu la terza donna candidata e la prima a essere eletta. È anche la prima vicepresidente appartenente a una minoranza etnica, dato che ha origini asiatiche e afroamericane. Per tutte queste prime volte e per un passato di successo come procuratrice e senatrice in California, la sua candidatura al fianco di Joe Biden aveva suscitato forti attese e qualche entusiasmo in campo Democratico.

Anche il suo mandato è stato finora poco degno di nota: Harris è rimasta schiacciata in un ruolo complesso, complicato anche da molti cambi nel suo staff personale, e si è dimostrata inefficace nelle poche occasioni in cui avrebbe potuto ottenere attenzioni e visibilità. Anche per lei è applicabile la definizione che Thomas Riley Marshall, vicepresidente di Woodrow Wilson dal 1913 al 1921, diede del vicepresidente: «È una persona in perenne catalessi, perché è perfettamente consapevole che intorno a lui tutto si muove, ma anche che quello che si muove non lo riguarda».