Perché i femminicidi non si contano

«Approfondire i dati sulla violenza sulle donne mi ha sconcertato non solo per quel che dicono i dati, ma anche di più per la loro scarsità. L’istituto europeo per l’uguaglianza di genere compila un indice omonimo per ogni paese sull'educazione, la partecipazione al mondo del lavoro, il reddito, eccetera. Come immaginate i paesi nordici sono più egalitari, i meridionali meno. Ma in quell’indice, la violenza non viene presa in considerazione perché, testuale: “Non esistono dati sulla violenza di genere comparabili a livello europeo”»

Washington, 25 giugno 2022 (Anna Moneymaker/Getty Images)
Washington, 25 giugno 2022 (Anna Moneymaker/Getty Images)
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In ogni comunicato stampa dell’Istat sul mercato del lavoro si legge il dato sulla disoccupazione: nel più recente viene riportata al 7,8 per cento, in leggera salita (+0,1 per cento). Ma questo dato, come i precedenti, è una media tra la disoccupazione maschile del 6,9 e quella femminile del 9 per cento. In altre parole: la disoccupazione per le donne è di un terzo più grave di quella degli uomini, ma anche solo saperlo è un fatto da specialisti, bisogna cliccare. È un problema grave, ma se non si vede e non se ne parla mai, non esiste.

Di palo in frasca, cito uno studio del 2020: «Le donne hanno un rischio quasi doppio rispetto agli uomini di manifestare reazioni avverse ai farmaci di tutte le classi». Gli autori analizzano 5 mila studi su 86 farmaci e concludono che il sesso altera il modo in cui i farmaci vengono metabolizzati, e dunque probabilmente le donne prendono spesso dosi eccessive. Inoltre, la maggior parte dei farmaci in commercio è stato testato solo su uomini, e per i farmaci nuovi – ora testati anche sulle donne – il sesso non rientra comunque come fattore nei dosaggi.

– Leggi anche: Gli stereotipi di genere alterano la ricerca scientifica

Provate a leggere il bugiardino di un farmaco banale che avete in casa: le donne sono menzionate solo per la gravidanza, per tutto il resto le dosi indicate sono per bambini e adulti, che però di fatto sono gli uomini. Anche in questo caso: se non c’è scritto non sarà un problema, non se ne parla, non esiste. (Immaginiamo che venga scoperto un farmaco che dia il 50% in più di reazioni avverse agli uomini rispetto alle donne, io dubito perfino che un tale farmaco riuscirebbe a arrivare sul mercato).

La scarsità di dati e il poco peso che gli viene dato mostra le priorità, le scelte di dove indirizzare soldi e attenzione. Approfondire i dati sulla violenza sulle donne mi ha sconcertato non solo per quel che dicono i dati, ma anche di più per la loro scarsità. L’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) compila un indice omonimo per ogni paese che riguarda le differenze tra uomini e donne nell’educazione, nella partecipazione al mondo del lavoro, nel reddito, eccetera. Come immaginate i paesi nordici sono più egalitari, i meridionali meno. Ma in quell’indice, la violenza non viene presa in considerazione perché, testuale:

«Non esistono dati sulla violenza di genere comparabili a livello europeo. I dati sulla violenza sono scarsi».

Chiunque, come me, abbia un po’ di dimestichezza con i dati, converrà che è un fatto di volontà, non di possibilità. Non voglio dire che c’è qualcuno in qualche stanza che decide esplicitamente di non raccogliere quei dati o di non investire risorse per conoscere bene, nel dettaglio, la diffusione della violenza sulle donne così da poter pensare politiche migliori e più efficaci. Semplicemente ci sono altre priorità, come se la violenza (e la minaccia di violenza e la potenzialità di violenza) non fosse una tra le principali, se non la principale, radici della disuguaglianza tra uomini e donne.

Allo stesso modo non esistono dati comparabili decenti sui femminicidi. L’Istat su questo tema fa un lavoro relativamente buono, quindi per quanto riguarda l’Italia sappiamo due cose: la prima è che negli anni recenti le donne uccise da un partner o ex, oppure da un familiare o conoscente, sono le stesse di circa vent’anni fa, oltre cento l’anno, e che c’era stata una salita e poi ridiscesa attorno al 2010; la seconda è che negli stessi vent’anni gli omicidi in generale (ovvero di uomini o di donne che non conoscevano l’assassino) sono calati moltissimo: i femminicidi dunque appaiono immuni ai cambiamenti sociali (culturali, economici, psicologici) che hanno determinato il calo generalizzato della violenza. Tutto lascia supporre quindi che, in assenza di misure specifiche e nuove, i femminicidi continueranno così come ora.

Considerando uno studio su larga scala pubblicato dal Lancet troviamo dati parziali sulla violenza, che offrono qualche strumento in più. Sono stime statistiche, relative solo al 2018, ma su quasi tutti i paesi del mondo (non la Germania, però) che riportano quante donne tra i 15 e i 49 anni hanno subito violenza dal partner. Colpisce che la differenza tra i paesi, con poche eccezioni, sia relativamente bassa anche tra paesi molto diversi tra loro, e questo indirettamente conferma la conclusione sull’Italia, ossia che la violenza sulle donne è costante.

– Leggi anche: Quando e perché parliamo di “femminicidio”

Da quella tabella alcuni noteranno che i paesi del nord Europa, che sono più egalitari per la classifica dell’EIGE citata sopra, hanno un tasso di violenza di genere mediamente più alta dei paesi del sud Europa, il che è di per sé una cosa che lascia perplessi: qualcosa ci sfugge e io tenderei a dubitarne, sia per il margine d’errore significativo che hanno queste misure, sia perché l’esperienza di violenza – anche indiretta, come fatto che riguarda una parente o amica – è soggettiva. Per l’esperienza soggettiva di una donna, quanto è diverso un paese in cui il 16% (Italia) anziché il 23 (Danimarca) delle donne ha subito violenza dal suo partner? E il 16% è sufficiente perché tutte le donne la conoscano bene, e ne siano condizionate.

Rimane il fatto che paesi che ci sembrano più attenti all’educazione sessuale, più rispettosi dei generi sul posto di lavoro e meno propensi ad accettare atteggiamenti maschilistici, non mostrano un tasso di violenza di genere inferiore alla nostra, anzi. Per capire meglio avremmo bisogno di dati annuali, precisi, con maggiori informazioni sui contesti in cui questa violenza avviene. E questo vale per ogni tipo di violenza.

Sembra che i dati sui femminicidi siano, per quanto parziali e scarsi, genericamente coerenti con l’indicazione di una maggiore violenza al nord rispetto al sud Europa. Il problema è che in ogni tabella ci si imbatte in singole contraddizioni: per esempio, Wikipedia riporta un dato del 2017 che dai miei calcoli per quanto riguarda l’Italia è incoerente con i dati Istat. Statista (una grande casa di dati) riporta un solo dato, per il 2020, dove la Polonia appare prima per numero di femminicidi, mentre la Polonia stessa risulta tra i paesi meno violenti sia dallo studio del Lancet che da altri dati riportati dall’Eurostat. La Grecia invece risulta tra i paesi meno violenti nei dati del Lancet e tra i più violenti nei dati Eurostat.

Queste incongruenze sono inevitabili in assenza di qualcuno che su questo tema faccia stabilmente un lavoro di documentazione. Quella che occorre è un’indagine campionaria su tutti i paesi, aggiornata ogni anno e con il mandato di risolvere i problemi di misurazione tipici in qualsiasi esercizio del genere, cioè di fare il lavoro migliore possibile: scoprire dove e come e se i trend sono in calo, se davvero il sud Europa sia meno violento, paragonare zone del sud a quelle del nord, in sintesi: offrire maggiori strumenti per iniziative nuove che abbiano lo scopo di eradicare la violenza sulle donne. Evidentemente si pensa che ci siano problemi più gravi su cui investire risorse.

La conclusione che si trae da questa mancanza di strumenti di base è che la violenza sulle donne sia un enorme tema politico che però viene invece trattato come qualcosa che può mettere tutti d’accordo. Purtroppo per conoscere bene il fenomeno e contrastarlo in maniera efficace c’è bisogno di moltissime risorse, che andrebbero tolte ad altre cose.

E così il dibattito oscilla tra le due posizioni che hanno condotto alla attuale ventennale mancanza di risultati. Infatti, sia la negazione del problema con annessa risposta securitaria residuale, che gli appelli alla conversione dei maschi, approcciano la questione come un indistinto neutro, su cui siamo tutti d’accordo, con l’unico effetto di allontanare la soluzione. Nessun fenomeno sociale è mai cambiato per conversioni collettive: i fenomeni sociali, specialmente quelli di questa ampiezza e profondità – e direi con questa resistenza al cambiamento – mutano solo quando esistono progetti politici che hanno l’obiettivo di mutarli. Al momento nessuno sembra avere intenzione di portarli avanti, al di là di frasi di circostanza. Probabilmente i prezzi da pagare sono considerati troppo alti. Oggi persino rifiutarsi di parlare a un manel, cioè a un panel di soli maschi (e lo dico per esperienza diretta) comporta un costo in termini di reputazione e ostracismo che molti non sono disposti a pagare. Nessun obiettivo di cambiamento si raggiunge senza pagare costi personali e collettivi.

Chi ha qualcosa da perdere da un’ampia serie di misure con l’obiettivo di eradicare la violenza sulle donne e arrivare a zero femminicidi l’anno – a partire dalla necessità di saperne molto di più – non si trova nel campo degli ineducati, dei cosiddetti trogloditi che fischiano per strada. Se abbiamo imparato qualcosa dalla letteratura sulle questioni di genere, è che gli ineducati avrebbero solo da guadagnare da un mondo più egalitario, perché sarebbero più liberi. I costi e i prezzi da pagare sono nel campo degli educati – tra cui ci sono i contriti a ogni episodio di femminicidio – che dovrebbero vedere progressivamente ridisegnate le priorità, cambiate le abitudini e le carriere, ridistribuiti i soldi e il potere rispetto all’equilibrio in cui si sono assestati dopo i grandi cambiamenti di emancipazione femminile del Novecento. Che non avvennero per concessioni o conversioni, avvennero grazie a ampi e costosi (per chi ne fa parte) movimenti politici.

Marco Simoni
Marco Simoni

Vive a Roma, è un economista politico con esperienze accademiche, di management e di governo. Autore di saggi di economia politica e collaboratore di diversi giornali, ha curato (con Chiara Albanese) il podcast Politics del Post.

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