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  • Giovedì 23 novembre 2023

Nelle scuole l’educazione affettiva c’è, ma non abbastanza

Non è obbligatoria per legge e gli istituti vanno in ordine sparso, concentrandosi più sull'ambito sessuale che su quello relazionale

(Ivan Romano/Getty Images)
(Ivan Romano/Getty Images)
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Da tempo si discute molto della necessità di migliorare le attività di educazione sessuale e affettiva nelle scuole italiane, soprattutto in seguito ad alcuni casi di violenze e femminicidi compiuti da uomini molti giovani, tra cui quello recentissimo della ventiduenne Giulia Cecchettin. Oggi moltissime scuole organizzano attività di educazione affettiva, ma le iniziative sono frammentate e in alcuni casi si scontrano con l’opposizione dei docenti, che non vogliono rinunciare alle proprie ore di lezione, o dei genitori, preoccupati per i temi che verranno trattati. Un modello migliore però esiste, e da qualche anno viene messo in pratica grazie a un programma finanziato dal ministero della Salute e curato da varie università, centri di ricerca e associazioni.

L’Italia è uno dei pochi paesi europei dove l’educazione sessuale nelle scuole non è obbligatoria per legge, insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. Quando ci sono, le attività formative adottano per lo più un approccio ormai considerato obsoleto dagli esperti, che tende a concentrarsi più sull’ambito sessuale che su quello affettivo e sentimentale: si fa molta prevenzione sulle malattie sessualmente trasmissibili e sulle gravidanze indesiderate, ma non si dedica altrettanta attenzione all’esplorazione della sfera emotiva, ai rapporti tra persone di genere diverso e all’importanza del consenso. «Spesso pensiamo all’educazione sessuale come qualcosa di legato all’anatomia, alla riproduzione e alla prevenzione delle malattie, ma in realtà la sessualità parte proprio dall’affettività, dalle emozioni e dal rapporto con l’altro», dice Alice Chinelli, ricercatrice dell’Università di Pisa che insieme a Lara Tavoschi coordina il progetto EduForIST sul tema dell’educazione alla sessualità, avviato nel 2019 e finanziato dal ministero della Salute.

Per questo le principali linee guida internazionali sul tema adottano da tempo il termine “educazione sessuale estensiva” (spesso indicata con l’acronimo CSE, comprehensive sexual education), un concetto che nel 2018 l’UNESCO, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa anche di istruzione, definì come «insegnamento e apprendimento sugli aspetti cognitivi, emotivi, fisici e sociali della sessualità».

In Italia questa interpretazione dell’educazione sessuale non ha ancora attecchito. Nell’ottobre del 2022 il progetto EduForIST ha diffuso uno studio in cui analizza le varie attività di educazione sessuale e affettiva portate avanti nelle scuole italiane tra il 2016 e il 2020: su 219 iniziative monitorate, solo 62 (meno del 30 per cento) sono state caratterizzate come CSE, mentre 75 si concentravano principalmente sulle malattie sessualmente trasmissibili.

Gran parte delle attività di educazione sessuale e affettiva nelle scuole viene svolta da associazioni che si occupano di sessualità. Dato che non sono obbligatorie, ogni istituto si organizza in modo diverso in base alle proprie risorse e disponibilità: quelli che sono interessati al tema, e che possono permetterselo, si mettono in contatto con le associazioni e organizzano gli incontri, mentre in altri casi si procede al contrario e sono le associazioni a presentarsi alle scuole. Può succedere anche che siano gli studenti a contattare direttamente le associazioni per invitarle a partecipare ad assemblee e incontri autogestiti.

I corsi possono avere durata variabile e trattare temi anche molti diversi, in base alle sensibilità degli studenti e degli insegnanti e alle conoscenze degli educatori. Di conseguenza è possibile che due scuole nella stessa città seguano percorsi completamente diversi: «Gli interventi che abbiamo rilevato sono fatti da persone o associazioni che hanno le migliori intenzioni, ma che non riescono ad adeguarsi a uno standard comune» e inclusivo, dice Chinelli.

Lo confermano Francesca Barbino e Alice Valenza, project manager al Centro studi e iniziative europeo (CESIE) di Palermo, una ong che da anni si occupa di progetti europei sul tema e organizza attività di educazione affettiva nelle scuole: «Non abbiamo un programma canonico che seguiamo ovunque, anche se ci piacerebbe», dice Valenza. «In assenza di una regolamentazione generale [il programma] è sempre il risultato di una negoziazione con la scuola, con i dirigenti e in alcuni casi con i singoli insegnanti». Anche le professionalità coinvolte in ogni incontro possono essere diverse: psicologi, sessuologi, sociologici o medici.

A gennaio del 2022 il progetto EduForIST ha avviato un “progetto pilota” per provare a fare educazione sessuale e affettiva in modo più inclusivo. La prima fase del progetto ha riguardato 1.223 studenti e studentesse delle scuole medie e superiori in quattro regioni (Lombardia, Toscana, Lazio e Puglia), che hanno partecipato a cinque incontri di due ore ciascuno tenuti da educatori ed esperti che lavorano per varie associazioni, come la Lega italiana per la lotta contro l’AIDS (LILA), il Circolo di cultura omosessuale “Mario Mieli” e i comitati locali della Croce Rossa.

Gli esperti sono d’accordo sul fatto che l’approccio migliore per questo tipo di incontri sia quello partecipativo, con il quale non si fa una lezione frontale ma si cerca di stimolare il dialogo tra gli studenti, sotto la guida degli educatori. «I ragazzi vengono fatti sedere in cerchio e spostiamo i banchi per dare la possibilità di guardarsi direttamente e di parlarsi», racconta Sabrina Penon, educatrice per la sezione di Milano di LILA. Vengono usate anche slide sul computer, principalmente per avere un filo conduttore nel discorso e introdurre aspetti che non necessariamente emergerebbero in modo spontaneo, come gli stereotipi di genere. Penon dice che durante gli incontri è possibile anche fare domande o commenti anonimi, per esempio lasciando un bigliettino in una scatola, un espediente pensato per dare modo a tutti di partecipare e sentirsi a proprio agio.

«Nei primi moduli lavoriamo più sulla parte relazionale, parlando per esempio di cos’è e come si costruisce una buona relazione. Da lì passiamo all’identità sessuale e di genere, e agli stereotipi sui ruoli di genere», dice Chinelli. Se gli studenti sono d’accordo, agli incontri può essere presente anche un docente, altrimenti si svolgono solo con gli alunni e uno o più educatori.

Prima di iniziare il percorso con gli studenti, le associazioni organizzano sempre incontri con gli insegnanti e con i genitori per chiarire quali argomenti verranno trattati e con quali modalità. Secondo Chinelli, il coinvolgimento dei genitori è importante non solo per ottenere il loro consenso allo svolgimento delle attività (necessario dato che la maggior parte degli studenti è minorenne), ma anche per coinvolgerli e dare loro alcuni strumenti per affrontare i temi della sessualità, dell’affettività e del consenso: «L’educazione alla sessualità deve partire dalle famiglie e i genitori sono i primi a dare spunti sull’argomento, anche in modo informale», dice Chinelli.

Penon sostiene che i cinque incontri previsti dal progetto EduForIST consentano «di lavorare con i ragazzi e creare un minimo di relazione, ma occupano comunque solo dieci ore della loro vita». Per dare risultati migliori le attività di educazione all’affettività «dovrebbero esistere per tutto l’anno, in modo da poter creare una relazione di fiducia e confidenza con gli studenti e far emergere in modo spontaneo e naturale» le situazioni e i comportamenti percepiti come problematici. Questo non succede, per varie ragioni.

Un primo ostacolo sta nella disparità tra le risorse economiche a disposizione delle scuole: a meno di eccezioni, i corsi offerti dalle associazioni devono essere retribuiti. Di conseguenza gli istituti in difficoltà saranno più propensi a organizzare cicli di incontri molto brevi, o a non organizzarli proprio. «Bisogna pensare a un sistema che permetta a ogni scuola di attivare almeno una volta all’anno un modulo su questi temi», dice Massimo Farinella, responsabile dell’area salute per il Circolo di cultura omosessuale “Mario Mieli”. «Non dico che questo risolverà il problema del bullismo o dei femminicidi, ma è un primo tassello molto importante che avvicina i ragazzi ai temi del consenso e della violenza».

Un secondo motivo che rallenta la diffusione delle iniziative di formazione è rappresentato dai tanti pregiudizi che circolano su queste attività. Secondo un rapporto di EduForIST del 2022, in Italia l’educazione sessuale e affettiva è ancora un tema «controverso», e non viene rese obbligatoria nelle scuole italiane per motivi «sociali, culturali, religiosi e politici». Si crede ancora, per esempio, che gli incontri incoraggino comportamenti promiscui, che promuovano tendenze omosessuali o indeboliscano il ruolo formativo dei genitori. «Portare la sessualità nelle scuole è ancora molto difficile: è un tema delicato, e spesso è facile trovare opposizione o paura riguardo a quali temi trattare e a come farlo», dice Penon di LILA Milano.

Il progetto EduForIST sta andando bene ed è stato confermato in via sperimentale per l’anno scolastico 2023/2024, coinvolgendo anche il Friuli Venezia Giulia. Mercoledì il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha presentato un piano del governo per migliorare l’educazione affettiva nelle scuole, con l’obiettivo di contrastare la violenza di genere partendo dalla cultura. Il piano, chiamato “Educare alle relazioni”, non introduce obblighi per le scuole ma prevede solo che queste possano dedicare su base volontaria un certo numero di ore, in aggiunta a quelle normalmente previste per la didattica, a «gruppi di discussione» per parlare di temi affettivi e relazioni, con la moderazione di un insegnante e dopo aver ottenuto il consenso degli studenti e dei loro genitori.