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  • Martedì 21 novembre 2023

Quando e perché parliamo di “femminicidio”

È una parola che si è diffusa da poco, e sta cambiando la nostra percezione del fenomeno della violenza maschile sulle donne

Sagome nere per ricordare le vittime di femminicidio in Italia, Napoli, 25 novembre 2022 (ANSA/CIRO FUSCO)
Sagome nere per ricordare le vittime di femminicidio in Italia, Napoli, 25 novembre 2022 (ANSA/CIRO FUSCO)

Negli ultimi dieci giorni il caso della scomparsa e poi del ritrovamento del cadavere della ventiduenne Giulia Cecchettin, per la cui morte è indagato l’ex fidanzato Filippo Turetta, ha ricevuto un’attenzione molto superiore a quella che viene riservata a molti altri casi di cronaca. Uno dei motivi è che, ancora prima che il corpo di Cecchettin venisse ritrovato, il caso è stato subito inquadrato da giornali, commentatori, attiviste e persone che usano i social network all’interno del più ampio fenomeno della violenza di genere, e cioè quella che viene in varie forme esercitata dagli uomini nei confronti delle donne come risultato delle aspettative e degli stereotipi legati ai ruoli di genere che vengono tradizionalmente veicolati dalla società.

È un fenomeno a cui, soprattutto a livello mediatico, si è cominciato a prestare attenzione particolare solo negli ultimi anni, soprattutto per via della diffusione di una parola: “femminicidio”.

Nei dizionari italiani questo termine (a volte anche nella variante meno usata “femmicidio”) esiste da poco più di una decina d’anni, ma ha cominciato a essere usato al di fuori di circoli e associazioni femministe più di recente, e solo da poco si è cominciato a leggerlo frequentemente sui giornali. Con “femminicidio” non ci si riferisce genericamente a tutti gli omicidi che abbiano come vittima una donna (anche se, almeno in Italia, questi sono nella maggior parte dei casi femminicidi), ma a quei casi di violenza alla cui origine ci sia una dinamica di sopraffazione, controllo o possesso derivata dal ruolo di subordinazione rispetto agli uomini cui le donne vengono tradizionalmente relegate all’interno della società e nelle famiglie.

– Ascolta anche: La storia della parola “femminicidio” raccontata dalla sociolinguista Vera Gheno

La parola femminicidio esiste da tempo ma è stata usata per la prima volta con un significato simile a quello che le diamo ora, in inglese (femicide), dalla sociologa statunitense Diana Russell in un articolo del 1992 per descrivere un omicidio compiuto da un uomo nei confronti una donna «in quanto donna». Dopo di lei l’antropologa messicana Marcela Lagarde, considerata la teorica del femminicidio, ha specificato che la parola non definisce solo la morte della donna, l’atto finale, ma anche tutte quelle forme di discriminazione e di violenza che lo sostengono e lo precedono.

Il termine “femminicidio” – che è poi stato ripreso da istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della sanità – dunque non indica una fattispecie di reato e non serve a distinguere le vittime per gravità: dice che è morta una donna e definisce il contesto e le ragioni per cui è stata uccisa.

Nei femminicidi vengono fatti rientrare gli atti di violenza contro le donne esercitati da partner o ex partner, ma anche da padri, fratelli, conoscenti. Per esempio l’omicidio di Saman Abbas, che secondo la procura fu uccisa perché rifiutava un matrimonio combinato e per cui sono imputati il padre, lo zio, i cugini e anche la madre, viene fatto rientrare nella definizione. Lo stesso vale per l’omicidio di Maria Paola Gaglione da parte del fratello, che non voleva che frequentasse un ragazzo trans. A volte le violenze sulle donne si estendono ad altre persone vicine: sono considerati femminicidi per esempio i casi in cui un uomo, per punire la compagna o ex compagna, uccide i figli, indipendentemente dal loro genere.

Essendo una definizione piuttosto ampia e molto legata al contesto, in Italia non esistono statistiche sui femminicidi che usino questo specifico termine. I dati sugli omicidi vengono però raccolti in modo che possano essere scorporati in base al rapporto tra autore e vittima, dando un’idea del fenomeno. Dall’inizio del 2023 al 13 novembre, secondo i dati del ministero dell’Interno, in Italia sono state uccise 102 donne, di cui 82 in ambito familiare e affettivo (in media una ogni quattro giorni) e 53, più della metà, dal partner o dall’ex partner.

Un’osservazione che viene fatta spesso quando si parla di dati sui femminicidi è che il numero di uomini uccisi in Italia sia più alto di quello delle donne, e che quindi bisognerebbe introdurre anche il termine “maschicidio”, per dare rilevanza anche a queste vittime, o parlare più in generale di omicidio (addirittura è stata proposta la parola “umanicidio”), senza fare distinzioni di genere.

È vero che il numero di uomini uccisi in Italia ogni anno è storicamente più alto di quello delle donne uccise, ma gli autori di questi delitti rientrano solitamente all’interno di fenomeni, come quello della criminalità organizzata, ampiamente studiati e combattuti a livello istituzionale. È più raro invece che un uomo venga ucciso da qualcuno che lo conosce, per esempio dalla sua partner. Secondo un rapporto di Istat, tra il 2002 e il 2021, questi casi per gli omicidi di uomini sono stati tra l’1,9 e il 4,9 per cento, mentre per gli omicidi di donne vanno dal 28,5 al 51,7 per cento (a cui si potrebbero aggiungere quelli commessi dagli ex partner, che per esempio nel 2021 sono stati il 13 per cento).

Inoltre, se si guardano i dati degli ultimi trent’anni in Italia, si vede che i casi di omicidi di uomini sono calati di 6 volte, mentre quelli di donne non si sono neanche dimezzati. È un segno del fatto che gli interventi che sono stati fatti per ridurre la criminalità negli ultimi decenni hanno avuto un impatto molto minore sui femminicidi.

Le associazioni femministe e che si occupano di violenza di genere insistono da tempo sull’importanza di usare la parola “femminicidio” per porre l’attenzione sul fatto che molti casi di omicidio che apparentemente sembrerebbero slegati tra loro e imprevedibili siano in realtà riconducibili a un unico problema diffuso e ben noto, e siano la conseguenza di comportamenti riconoscibili e molto spesso considerati accettabili dalla società. Tra questi ci sono maltrattamenti e violenze domestiche, ma anche forme di controllo (per esempio su quando, come e con chi la donna in questione debba uscire di casa), scenate di gelosia e stalking. La dinamica tipica di un femminicidio è quella in cui una donna costretta in un contesto di oppressione e subordinazione di qualsiasi tipo prova a liberarsi (chiedendo il divorzio al marito, per esempio, o non rispettando le regole imposte dal padre) e allora l’uomo in questione, sentendo di averne perso il controllo, la punisce aggredendola e a volte uccidendola.

L’insistenza di molti sull’uso della parola “femminicidio” deriva quindi dalla convinzione che distinguere e riconoscere questo tipo di violenze permetta di accrescere la consapevolezza su un fenomeno sociale che ha caratteristiche molto precise, e che è stato a lungo trascurato, allo scopo di portare ad azioni politiche mirate che lo prevengano. È un tipo di pressione che è stata fatta soprattutto nei confronti dei media, il cui approccio a questo tipo di crimini è da sempre molto condizionato, oltre che dalla stessa cultura patriarcale all’interno della quale queste violenze nascono, anche da una tendenza alla spettacolarizzazione di queste storie e a una – consapevole o inconsapevole – legittimazione delle motivazioni di chi commette le violenze.

Nel 2017 la firma da parte della Federazione Nazionale Stampa Italiana e del sindacato dei giornalisti della Rai, tra gli altri, del Manifesto per il rispetto e la parità di genere nell’informazione è stato un primo passo in questa direzione, anche se concretamente ha avuto un impatto assai limitato. Le cose nel mondo dell’informazione hanno cominciato a cambiare da poco e molto lentamente.

I mezzi di informazione raccontano ancora spesso i femminicidi come «tragedie familiari», con fotografie che mostrano l’autore e la vittima del reato in pose che evocano un immaginario romantico e che veicolano il messaggio che amore e violenza siano in qualche modo naturalmente inscindibili, e quindi che la violenza sia una sorta di male inevitabile. Secondo la scrittrice Michela Murgia, il peggiore dei titoli su un femminicidio è «quello che mette in relazione amore e morte […] che conferma in chi legge l’associazione automatica tra sentimento e possesso».

È stata a lungo anche abitudine dei giornali quella di dare molto spazio nei titoli alle “ragioni” dell’assassino: la gelosia, la disperazione dopo un tradimento o l’incapacità di accettare una separazione, facendo passare l’idea che questi stati d’animo – tutto sommato comuni a molti – spieghino un assassinio senza inquadrarli nel loro contesto di violenza di genere.

In molti casi poi viene tralasciato il fatto che l’omicidio era stato preceduto da altre forme di violenza e abusi, o dall’esercizio di un controllo e un rapporto di subordinazione psicologica o economica sulla vittima. Al contrario è frequente che i femminicidi vengano raccontati come l’esito di un raptus improvviso con riferimenti a devianze, deliri o stati emotivi eccezionali dell’aggressore, che suggeriscono in maniera implicita che le circostanze siano imprevedibili, incompatibili con la premeditazione e che ci sia una straordinarietà, quando invece i dati ci dicono che è un crimine molto ricorrente e spesso anticipato da altri comportamenti violenti.

Naturalmente l’introduzione della parola “femminicidio” nei titoli, negli articoli, nei servizi televisivi e nelle conversazioni non è la soluzione al problema, ma il fatto che si sia imposta ha contribuito ad aumentare la consapevolezza sul tema, come si è visto con il caso mediatico nato attorno all’omicidio di Cecchettin. Chiamare i femminicidi “femminicidi” nei mezzi di informazione è anche un modo per sottolinearne la frequenza, che è mediamente di uno ogni quattro giorni.

Che la violenza degli uomini sulle donne in Italia sia stata a lungo culturalmente accettata e a volte anche giustificata si vede nella storia del nostro ordinamento. Fino al 1981 i femminicidi venivano considerati dalla legge come omicidi in qualche modo diversi dagli altri: infatti gli uomini che uccidevano le proprie mogli, figlie o sorelle per difendere «il proprio onore o quello della famiglia» venivano puniti con pene minori, perché l’oltraggio subito dagli uomini veniva considerato sufficientemente grave da giustificare almeno in parte il delitto.

Oggi nel diritto penale italiano la parola “femminicidio” non esiste e non indica un reato a sé. I femminicidi vengono considerati al pari di qualsiasi altro omicidio. Esistono delle aggravanti, come per esempio alcuni tipi di parentela della vittima con l’autore del reato, o la concomitanza di altri reati come maltrattamento o violenza sessuale. Sebbene il concetto di violenza di genere non compaia da nessuna parte nella giurisprudenza italiana, negli ultimi anni è anche qui aumentata la consapevolezza di questo tipo di fenomeno e sono state fatte diverse leggi (come il cosiddetto “Codice rosso”) su maltrattamenti e violenze domestiche e sessuali, che tengono conto della specificità di questi reati e introducono discipline più attente alle vittime.

Inoltre nel 2013 l’Italia ha ratificato la convenzione di Istanbul, che riconosce tra le altre cose un diretto collegamento tra le violenze di genere e la cultura maschilista radicata nella società, presentando quest’ultimo come un dato oggettivo di cui i paesi che l’hanno ratificata non possono non tenere conto. Dice nello specifico che la violenza di genere «è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi», che ha «natura strutturale» ed è «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata».