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  • Giovedì 2 novembre 2023

Cosa sono i campi profughi palestinesi

Esistono da oltre 70 anni e al contrario di quello che dice la parola assomigliano più che altro a città

La via del mercato nel campo di Jabalia (AP Photo/Abed Khaled)
La via del mercato nel campo di Jabalia (AP Photo/Abed Khaled)

All’inizio di novembre Israele ha bombardato per due giorni il campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, causando un alto numero di morti e di feriti. Jabalia è il più grande degli otto campi profughi presenti della Striscia e ospita almeno 116mila persone. Al contrario di quello che potrebbe far pensare la parola, però, il campo profughi di Jabalia non ha tende e baracche ma assomiglia piuttosto a una città con strade ed edifici, anche se sono spesso fatiscenti, mancano molte infrastrutture di base e le condizioni di vita sono estremamente precarie.

Questo perché i campi profughi palestinesi esistono da decenni e, pur essendo nati come strutture temporanee, nel tempo sono diventati insediamenti permanenti. La realtà dei campi profughi peraltro non riguarda soltanto la Striscia di Gaza: nel complesso i palestinesi che vivono in un campo profughi sono oltre un milione e mezzo e i campi sono 58, fra Striscia di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria.

I campi profughi palestinesi sono stati istituiti per lo più dopo la guerra che Israele combatté nel 1948 con diversi paesi arabi, quando circa 700mila palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case. Un gruppo più piccolo di campi è stato creato dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967. In entrambi i casi i campi pensati per essere temporanei sono diventati città, costruite con strutture in muratura in modo disordinato nel corso dei decenni. Le Nazioni Unite le definiscono «masse ipercongestionate di edifici a più piani con vicoli stretti, fra gli ambienti urbani più densamente popolati al mondo»

I campi profughi sono gestiti dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), che iniziò a operare nel 1950 per rispondere alle esigenze di circa 750mila persone costrette ad andarsene dalle proprie case dopo quella che i palestinesi chiamano la “nakba”, cioè il grande esodo a cui furono costretti dopo la guerra del 1948. Oggi invece i palestinesi che accedono ai suoi servizi sono 5,9 milioni e negli anni la stessa definizione di “profughi palestinesi” è stata oggetto di discussioni e dispute politiche, perché continuano a essere definite “profughi” persone che sono nate e vivono in insediamenti che nei fatti sono permanenti.

L’agenzia delle Nazioni Unite riconosce questo status a «tutte le persone la cui residenza abituale fosse in Palestina fra il 1° giugno 1946 e il 15 maggio 1948», nonché ai loro figli, nipoti e discendenti per linea paterna. L’UNRWA si è quindi occupata di varie generazioni di profughi palestinesi, che oggi in larga parte sono nati proprio in quei campi profughi.

Il campo profughi di Jabalia nel 1957 (AP Photo)

Anche prima dello scoppio dell’ultima guerra, le condizioni di vita nei campi profughi palestinesi erano molto difficili: le infrastrutture come strade e fognature sono assenti o carenti, gli impianti elettrici sono soggetti a ricorrenti blackout, l’acqua corrente è per lo più non potabile o contaminata, la sovrappopolazione rende le condizioni di vita complesse, la carenza di materiali di costruzione spesso non permette di costruire nuove abitazioni o di riparare quelle esistenti, strutturalmente incomplete o deboli. Quando piove, strade e vicoli si inondano con una certa frequenza e spesso le stesse case hanno gravi infiltrazioni d’acqua.

I campi sorgono inoltre su terreni concessi in uso dagli stati ai profughi, che quindi hanno diritto a utilizzarli, ma non hanno la proprietà delle case in cui vivono, in alcuni casi da generazioni.

Il campo profughi di Bureij dopo i bombardamenti di mercoledì (AP Photo/Hatem Moussa)

La situazione è ulteriormente peggiore nei campi profughi all’interno della Striscia di Gaza, in ragione dell’isolamento completo dell’area che Israele porta avanti da anni. Nella Striscia esistono città vere e proprie, alcune anche di antica fondazione come Gaza (abitata sin dal 1500 A.C.) a cui si sono aggiunti dagli anni Cinquanta i campi profughi, anche se oggi la distinzione fra le une e gli altri non è più così netta. Negli otto campi (oltre a Jabalia ci sono quelli di Rafah, Khan Yunis, Deir al-Balah, Maghazi, Bureij, Nuseirat e Shati) la disoccupazione – alta ovunque – tocca il 46 per cento e l’UNRWA stima che oltre l’80 per cento della popolazione viva sotto la soglia di povertà e dipenda dagli aiuti dell’agenzia per sopravvivere e accedere ai servizi di base. Nei campi della Striscia il 90 per cento dell’acqua a disposizione non è potabile, l’accesso a cibo non è sufficiente e le infrastrutture di base carenti. Nella Striscia ci sono 1,7 milioni di palestinesi registrati come profughi e il 40 per cento della popolazione ha meno di 15 anni.

Il campo profughi di Jabalia nel 1994 (AP Photo/Adel Hana)

All’interno dei campi sono presenti 183 scuole gestite dall’agenzia delle Nazioni Unite: sono troppo poche per il numero di potenziali studenti, le strutture sono spesso in pessime condizioni e la cronica carenza di elettricità condiziona anche l’insegnamento. Spesso sono costrette a operare su due turni, limitando quindi le ore che bambini e ragazzi possono passare a scuola.

Il campo profughi di Khan Yunis (AP Photo/Hatem Moussa)

Prima dei bombardamenti israeliani operavano all’interno degli otto campi venti fra ospedali e strutture mediche, che anche in tempi “normali” devono fare i conti con una cronica carenza di medicine e di materiale medico. Le pessime condizioni di vita, la carenza di igiene e la malnutrizione causano un’alta incidenza di malattie croniche.

– Leggi anche: Breve storia della “nakba”