I funghi allucinogeni non fanno compiere gesti folli

E non fanno vedere cose che non ci sono, come suggeriscono spesso semplificazioni sui media e rappresentazioni in libri e film

paura e delirio a las vegas
Una scena del film del 1998 “Paura e delirio a Las Vegas”
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Negli ultimi giorni diversi siti e giornali si sono occupati della storia del pilota statunitense fuori servizio che domenica 22 ottobre è stato fermato e accusato di tentato omicidio e di condotta pericolosa dopo che aveva cercato di spegnere i motori di un aereo di Alaska Airlines in un volo da Seattle a San Francisco. Il pilota, che ha 44 anni e si chiama Joseph Emerson, ha poi attribuito il suo comportamento agli effetti dell’assunzione di funghi allucinogeni, ha detto che non dormiva da più di 40 ore e che soffre di depressione da circa sei anni.

La spiegazione fornita da Emerson ha suscitato diverse perplessità tra studiosi ed esperti di sostanze allucinogene. Prima di tutto perché, stando alle ricostruzioni, dal momento dell’assunzione dei funghi da parte di Emerson al suo tentativo di spegnere i motori in volo erano trascorse almeno 48 ore. Questo rende molto improbabile che l’effetto dei funghi, che non dura di solito più di 7 o 8 ore, fosse ancora presente. La sostanza contenuta nei funghi allucinogeni, la psilocibina, è peraltro in larga parte eliminata dal corpo entro circa un giorno dall’assunzione, hanno detto al New York Times Juliana Mercer, esperta di usi terapeutici degli psichedelici, e Bob Jesse, consulente degli istituti di ricerca sugli psichedelici della University of California Berkeley e della Johns Hopkins School of Medicine a Baltimora.

Oltre che essere incongruente sotto l’aspetto fisiologico, l’associazione tra l’assunzione dei funghi e il tentativo di provocare un incidente aereo mettendo a rischio la vita di decine di persone potrebbe contribuire a rafforzare in una parte dell’opinione pubblica una convinzione già abbastanza radicata secondo cui uno dei principali effetti collaterali dei funghi allucinogeni sarebbe compiere gesti pericolosi e dissennati. Questa idea, sostenuta perlopiù da informazioni aneddotiche, racconti sui media e rappresentazioni letterarie, non è però validata da un insieme altrettanto cospicuo di solide evidenze scientifiche.

In generale gli studi sugli allucinogeni, come vale in misura minore anche per altre sostanze illegali in diversi paesi del mondo, sono stati storicamente limitati da scarsi finanziamenti, da una prolungata stigmatizzazione sociale verso queste sostanze e dalle difficoltà a reperirle legalmente e ottenere di volta in volta le autorizzazioni necessarie per studiarne gli effetti in ambienti sperimentali e controllati. Le ricerche e gli studi più attendibili condotti nel corso degli ultimi vent’anni, inclusi i più recenti, indicano tuttavia che il rischio di procurare danni a sé stessi e alle altre persone non è affatto tipico dell’assunzione di allucinogeni. È anzi un effetto raro, in confronto alla frequenza di questo stesso effetto associata all’assunzione di altre sostanze, soprattutto l’alcol.

Il termine “funghi allucinogeni” è comunemente utilizzato per indicare determinate specie di funghi, perlopiù del genere Psilocybe (il più conosciuto e studiato), che contengono in concentrazioni variabili la psilocibina, una sostanza i cui effetti erano già noti centinaia di anni fa alle popolazioni indigene dell’America centrale e del Messico, che ne facevano uso in contesti rituali. Appartengono alla classe degli psichedelici, sostanze in grado di alterare temporaneamente la coscienza, i pensieri, l’umore e, attraverso particolari distorsioni ed effetti visivi, anche le percezioni di chi le assume. Il meccanismo d’azione della psilocibina è molto simile a quello dell’Lsd (l’altra sostanza psichedelica più famosa), ma meno duraturo e più facile da gestire in ambito clinico: caratteristica che negli ultimi anni ha notevolmente incentivato la ricerca scientifica per scopi terapeutici.

La maggior parte dei funghi che contengono psilocibina ha un aspetto simile a funghi che contengono potenti tossine, e il consumo di funghi identificati erroneamente può causare gravi reazioni avverse, inclusa la morte, come ricordato in un articolo sulle specie che contengono psilocibina pubblicato nel 2022 sulla rivista scientifica Fungal Biology. Per questo motivo, prosegue lo studio, l’identificazione attenta dei funghi richiede spesso il sequenziamento del DNA, oltre alla valutazione delle caratteristiche micro e macromorfologiche da parte degli esperti.

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Negli ultimi anni un numero crescente di studi clinici ha esplorato il potenziale delle sostanze psichedeliche e in particolare della psilocibina nella cura di diversi disturbi mentali, in particolare la depressione, riscontrando un’efficacia molto significativa, se confrontata con quella di altri approcci farmacologici. Gli stessi studi, descrivendo una certa variabilità degli effetti degli psichedelici a seconda dei pazienti che le assumono, ribadiscono quanto sia rilevante per l’efficacia delle cure che le sostanze siano assunte all’interno di un percorso psicoterapeutico.

Gli effetti noti della psilocibina, come di altre sostanze psichedeliche, dipendono da molti fattori: la dose, l’età di chi la assume, l’umore, se si è mangiato o meno, la personalità e l’eventuale storia di dipendenze. E un altro fattore rilevante è il contesto e l’ambiente circostante, a volte definiti setting. Possibili effetti collaterali fisici a breve termine, come nausea, mal di testa, mal di stomaco e battito cardiaco accelerato, sono di solito lievi, e molte persone comunque non li segnalano.

Riguardo ai comportamenti pericolosi e folli spesso associati nell’opinione pubblica agli effetti dell’assunzione di funghi allucinogeni un articolo pubblicato sulla rivista Journal of Psychopharmacology suggerisce che l’aneddotica e la disinformazione abbiano contribuito per lungo tempo a sovrastimare notevolmente questo rischio specifico. Nella ricerca sugli psichedelici è ampiamente nota l’influenza delle aspettative, delle storie cliniche e delle esperienze personali passate di chi assume queste sostanze sugli effetti dell’assunzione e anche sul rischio di comportamenti potenzialmente pericolosi. Come è noto che, proprio in considerazione dei rischi, persone molto giovani non dovrebbero assumere queste sostanze.

Sebbene le segnalazioni di comportamenti autolesivi dopo l’assunzione di psilocibina siano molto rare, il fatto che siano ampiamente riportate dai media contribuisce notevolmente alla percezione pubblica dei rischi di questi comportamenti. Ma le morti che coinvolgono i funghi allucinogeni non sono una situazione clinica comune nella medicina forense quotidiana. E in ambito clinico la psilocibina ha una reputazione di sostanza generalmente sicura, molto meno dannosa – sia per chi ne fa uso che per la società – rispetto all’alcol e a quasi tutte le altre sostanze oggetto di studi. Il National Institute on Drug Abuse, l’istituto che si occupa di droghe e dipendenze negli Stati Uniti (dove la psilocibina è legale in alcuni stati), segnala comunque la necessità di ulteriori ricerche per comprendere meglio l’impatto degli psichedelici sulla guida e sull’esecuzione di attività che potrebbero essere compromesse: impatto peraltro noto e considerato nel caso dell’alcol e di molte altre sostanze legali, in Italia e in altri paesi del mondo.

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Un citato studio comparativo sui danni da sostanze, pubblicato sulla rivista Lancet nel 2010 e condotto dal ricercatore inglese in neuropsicofarmacologia David Nutt e da altri ricercatori dell’Imperial College di Londra, colloca le sostanze psichedeliche tra quelle con i punteggi più bassi in termini di dannosità per l’individuo e per la società, soprattutto la psilocibina. Gli stessi risultati sono emersi anche da altri studi pubblicati negli ultimi 15 anni su Lancet e sulla rivista Journal of Psychopharmacology, e condotti su gruppi di persone nei Paesi Bassi, in Europa e in Australia.

In un sondaggio online per uno studio condotto nel 2016 da un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine, a Baltimora, sulle esperienze impegnative e difficili dopo l’assunzione di funghi allucinogeni (comunemente definite bad trip), l’11 per cento della popolazione intervistata ha riferito di essersi esposto o aver esposto altre persone a un rischio di danno fisico. Questi casi erano correlati perlopiù a dosi molto alte e all’assenza di un ambiente confortevole sul piano fisico e sociale (tutti aspetti che possono essere controllati in condizioni cliniche).

Anche la definizione di esperienza negativa dopo l’assunzione di funghi, considerata una reazione avversa possibile ma facilmente limitabile in ambito clinico, è controversa e spesso molto romanzata. In termini generali il bad trip indica un disagio più o meno intenso durante l’azione della sostanza, e può implicare sentimenti di paura, ansia e paranoia. Per questa ragione, nell’ambito degli usi terapeutici degli psichedelici, quindi rivolti a persone che soffrono di particolari disturbi, è importante che l’esperienza sia preparata, seguita e supervisionata. Generalmente la più completa e comune misura di riduzione di questo rischio in ambito clinico è l’esclusione di soggetti con storia personale o familiare di disturbi psicotici o altri disturbi psichiatrici gravi, anche latenti.

Un’altra idea molto radicata ma inesatta, influenzata in parte dalle rappresentazioni in film e libri e in parte da una scarsa familiarità con concetti e fenomeni della psichiatria, è che l’assunzione dei funghi allucinogeni induca a vedere cose che non ci sono. Le allucinazioni causate dall’assunzione di funghi, cioè le percezioni di immagini e suoni che non esistono nella realtà, sono molto rare e comunque associate a dosi molto elevate. Più che vedere cose che non ci sono, durante un trip in cui si è assunta una dose considerevole di psichedelici si tendono a vedere distorsioni di quello che invece c’è.

La stessa parola “allucinogeni” infatti è scientificamente imprecisa e poco utilizzata in ambito accademico: perché include classi diversissime di sostanze, tra cui gli psichedelici propriamente detti (Lsd e psilocibina, appunto, ma anche mescalina e Dmt) e sostanze dissociative come ketamina e Pcp (la cosiddetta “polvere d’angelo”). Gli effetti dissociativi si chiamano così perché le sostanze che hanno questi effetti possono indurre la sensazione di uno scollegamento tra sé e l’ambiente fisico circostante. È una fase nota e ampiamente descritta nella letteratura scientifica sull’esperienza del trip psichedelico.

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Gli studi neurobiologici sugli effetti dissociativi li attribuiscono alla temporanea disattivazione di cellule nervose in alcune aree cerebrali specifiche, il cui compito in condizioni normali è di filtrare la grande quantità di stimoli che raggiunge il cervello. In assenza della normale elaborazione di quegli stimoli visivi, uditivi, olfattivi e sensoriali, il cervello riceve molte più sollecitazioni, e questo può determinare un cambiamento più o meno marcato nell’elaborazione delle informazioni portando ad alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo.

Le allucinazioni, in alcuni studi descritte come una sorta di «eccessiva interpretazione» delle informazioni visive, sono rare e segnalate in caso di dosi molto elevate. E definirle come la visione di cose che non esistono è una semplificazione. Come scritto dal neuroscienziato inglese Daniel Glaser, «qualunque cosa possa dirti un hippy fatto su un prato alle 3 del mattino, l’allucinazione non è un modo completamente diverso di vedere: è soltanto un diverso equilibrio tra ciò che stai immaginando e ciò che ti passa davanti agli occhi».

Anche in assenza degli effetti di sostanze ciò che vediamo è sempre determinato da aspettative e pregiudizi, da ciò che abbiamo visto in passato e da ciò a cui stiamo pensando in quel momento. Vediamo continuamente forme che ricordano oggetti che non esistono realmente, secondo Glaser, ma di solito osserviamo quelle forme con maggiore attenzione quando non siamo sotto l’effetto di sostanze: «gli allucinogeni possono mettere in pausa questo meccanismo interiore di verifica dei fatti, e indurci a proiettare i nostri ricordi e le nostre riflessioni nel mondo reale».

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