Ci sono nuovi dubbi sul rapporto tra serotonina e depressione

Un'analisi degli studi pubblicati negli ultimi anni mostra quanto siano ancora poco chiari i meccanismi della malattia e dei farmaci per trattarla

(Heather Stone/Chicago Tribune/TNS via ANSA)
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Una nuova analisi da poco pubblicata sulla rivista scientifica Molecular Psychiatry ha messo nuovamente in discussione il rapporto tra depressione e serotonina. La questione è dibattuta da anni e si unisce alla difficoltà nel comprendere nel dettaglio i meccanismi di azione di alcuni farmaci, che intervengono proprio sui livelli di serotonina, molto conosciuti con il loro nome commerciale come il Prozac. Per molti di questi farmaci sono conosciuti gli effetti positivi sui pazienti con problemi di depressione, ma non sono invece completamente noti i meccanismi attraverso cui agiscono.

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono ampiamente utilizzati nel trattamento della depressione: vari studi pubblicati negli ultimi decenni avevano segnalato la loro capacità di fare aumentare i livelli corporei di questa sostanza, che all’interno del cervello è coinvolta nella regolazione dell’umore, dell’appetito e del sonno, insieme a molti altri neurotrasmettitori. Partendo da questi presupposti, Joanna Moncrieff dell’University College, London ha analizzato insieme ai propri colleghi una grande mole di ricerche in tema pubblicate negli ultimi anni, concludendo che le evidenze scientifiche siano meno solide del previsto sul ruolo della serotonina.

L’analisi si è occupata di diversi ambiti di ricerca legati al rapporto tra serotonina e depressione. Moncrieff ha per esempio confrontato gli studi che si erano occupati di rilevare la concentrazione di sostanze presenti nel sangue e nel midollo spinale che derivano dalla presenza della serotonina (la cui concentrazione nel cervello non può essere misurata direttamente a causa della rischiosità della pratica). Dai dati è emerso che non c’è una differenza nella concentrazione di queste sostanze tra le persone sane e quelle con una diagnosi di depressione.

Il gruppo di ricerca ha poi preso in considerazione gli studi dedicati ai recettori che rispondono alla presenza della serotonina e ai meccanismi che si attivano per riassorbirla, tramite i neuroni, quando ha terminato la propria funzione. È emerso che in varie occasioni le persone depresse avevano comunque alti livelli di serotonina e non quantità inferiori, come ci si attenderebbe visti gli effetti attribuiti alla sostanza. Gli SSRI hanno la funzione di bloccare i meccanismi di riassorbimento della serotonina, quindi la nuova analisi non esclude che la maggiore presenza della sostanza fosse determinata dalla loro assunzione, non sempre documentata correttamente negli studi presi in considerazione.

La produzione di serotonina dipende dal triptofano, un amminoacido che non può essere sintetizzato dal nostro organismo, ma è presente in numerosi alimenti. Vari studi in passato avevano quindi provato su volontari sani diete che portassero a un’assunzione molto bassa di triptofano, in modo da ridurre la produzione di serotonina. La nuova analisi segnala come questi esperimenti non avessero portato centinaia di volontari a manifestare i segni della depressione, mettendo ulteriormente in dubbio il ruolo della serotonina.

L’analisi ha anche riguardato gli studi che avevano cercato eventuali fattori genetici nello sviluppo della depressione, legati a capacità più o meno spiccate nel mantenere un certo livello di serotonina nell’organismo. Non sono state riscontrate differenze significative nemmeno in questo ambito tra le persone cui viene diagnosticata la depressione e le altre.

Il lavoro di Moncrieff e colleghi sta facendo discutere perché suggerisce conclusioni molto diverse da quelle cui era arrivata una precedente analisi sulla serotonina pubblicata sulla rivista medica Lancet nei primi mesi del 2018. In quel caso gli autori avevano messo a confronto i dati di oltre 500 studi, concludendo che i 21 farmaci antidepressivi più diffusi fossero efficaci più dei placebo (sostanze che non fanno nulla) nel trattare la depressione. Anche quella pubblicazione aveva fatto molto discutere, perché si inseriva nell’annoso dibattito sul tema.

La nuova analisi segnala la necessità di approfondire i meccanismi di azione della serotonina e di alcuni farmaci. L’assunzione degli SSRI porta evidenti benefici per alcuni pazienti, mentre non sembra avere grandi effetti su altri, come del resto avviene per molti farmaci impiegati per trattare altri disturbi. Valutarne l’efficacia al di fuori dei test clinici è però difficile, considerato che si stima che circa l’80 per cento delle persone cui sono prescritti farmaci antidepressivi smetta di assumerli dopo un mese, nella maggior parte dei casi troppo presto perché possano avere effetti tangibili.

Capire meglio utilità ed efficacia degli SSRI è molto importante, perché come tutti i farmaci possono comportare vari effetti avversi, come perdita della libido. Ci sono ancora molte cose che gli psichiatri non sanno sul trattamento della depressione e sullo sbilanciamento di alcuni composti chimici nel cervello.