Uno dei giornali che misero in giro la bufala che Paul McCartney fosse morto si è scusato

«Era un po' una macchia sulla nostra reputazione», ha detto una caporedattrice della testata universitaria Northern Star

 Paul McCartney nel 1977 (AP Photo)
Paul McCartney nel 1977 (AP Photo)

Esistono diverse teorie del complotto che parlano di personaggi famosi morti e sostituiti da un sosia: lo si diceva di Charlie Chaplin, Frank Sinatra e Michael Jackson, lo si dice ancora (in certi angoli di internet, soprattutto per scherzare) della cantante Avril Lavigne. Una delle più vecchie e note leggende metropolitane di questo genere ebbe un momento di grande popolarità negli anni Sessanta, e sosteneva che dopo essere morto in un incidente stradale Paul McCartney dei Beatles fosse stato segretamente sostituito da un sosia, grazie all’aiuto dei servizi segreti britannici.

Ovviamente non è vero. McCartney è vivo e vegeto, e recentemente ha peraltro fatto un tour in Australia. Ma la leggenda metropolitana, che si diffuse a partire dal 1966, ottenne una certa notorietà in particolare quando nel 1969 alcuni giornali studenteschi statunitensi pubblicarono degli articoli che ne davano conto. A distanza di 54 anni, alcune settimane fa una di quelle testate studentesche – il Northern Star, gestito dagli studenti dell’Università del Northern Illinois – si è formalmente scusata del proprio articolo dell’epoca, titolato “Clues Hint At Possible Beatle Death” (“Alcuni indizi indicano la possibile morte di uno dei Beatles”).

L’articolo, ha ammesso il giornale studentesco, era peraltro stato copiato da un’altra testata, a cui sono arrivate a sua volte delle scuse, anche se un po’ ironiche: «Al Times-Delphic, ci scusiamo per aver plagiato il vostro lavoro giornalistico».

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Quello che ai tempi era un responsabile delle relazioni con la stampa dei Beatles, Tony Barrow, ha raccontato che fin dalla fine del 1966 cominciò a ricevere delle telefonate di persone che volevano genericamente sapere se McCartney stava bene. All’epoca i Beatles erano la band più famosa e idolatrata del mondo, e le attenzioni sui quattro membri erano enormi, mai viste prima nella storia della cultura popolare. McCartney era effettivamente stato coinvolto in un incidente d’auto, ma vari testimoni avevano confermato che ne era uscito indenne: ciononostante, le illazioni cominciarono a circolare.

Nel 1967 alle prime voci se ne aggiunse un’altra, più circostanziata, secondo cui McCartney era morto in un incidente stradale sulla M1, l’autostrada che collega Londra a Leeds. Secondo la teoria, i Beatles avrebbero poi deciso di nascondere la verità per proteggere i fan dal dolore della perdita, sostituendo McCartney con il vincitore di un concorso per sosia. Negli anni successivi all’incidente, tormentati dal senso di colpa, avrebbero però lasciato indizi e messaggi nella loro musica e sulle copertine dei loro album per comunicare la verità ai fan. Lo stesso McCartney citò quella voce in una conferenza stampa, dopo che era stata pubblicata su una rivista per fan dei Beatles.

Due anni dopo, nel settembre del 1969, il Times-Delphic (testata studentesca della Drake University di Des Moines, nell’Iowa), pubblicò un articolo in cui dava nuovamente conto della teoria della morte di McCartney. Pochi giorni prima che uscisse il disco Abbey Road, il caporedattore del Times-Delphic Tim Harper decise di pubblicare un pezzo intitolato “Il Beatle Paul McCartney è morto?”. L’articolo riportava alcune voci che giravano nel campus dell’università, basate su alcuni indizi piuttosto astrusi che risalivano ad alcuni anni prima.

Storicamente, negli Stati Uniti le testate studentesche universitarie sono guardate con un certo riguardo, sia perché spesso formano gente che diventa famosa nel giornalismo, sia perché in genere svolgono il ruolo di affidabili testate locali. Nel caso della “morte” di McCartney, la storia del Times-Delphic venne prima riportata da altre testate studentesche – tra cui, appunto, il Northern Star, che non cambiò granché – e da lì cominciò a circolare finché un uomo chiamò la radio del Kentucky WNKR per spiegare la teoria. Nelle settimane seguenti, diverse altre stazioni radio nell’area di New York iniziarono a discutere del tema, fino a quando il 21 ottobre 1969 se ne parlò su WABC, una grossa radio ascoltata in 38 stati. Da lì, la teoria si diffuse a livello internazionale.

In un contesto di ossessione da parte di alcuni fan, qualunque cosa pubblicassero i Beatles veniva ascoltata, letta e osservata nei minimi dettagli, non solo da chi cercava conferme alla strampalata teoria sulla sostituzione di McCartney. Gli indizi individuati per sostenere la teoria, comunque, erano piuttosto deboli.

I Beatles erano noti per incidere, di tanto in tanto, frasi che si potevano ascoltare al contrario nei propri dischi, una pratica nota come “backmasking” utilizzata tra gli altri anche dai Pink Floyd e da Franco Battiato. Una delle prime canzoni in cui fu segnalato un presunto messaggio inserito in backmasking fu la canzone “Revolution 9”, la penultima del White Album dei Beatles. Qualcuno si convinse che si potessero sentire le parole «Turn me on, dead man», «Eccitami, uomo morto», un’espressione di per sé senza un vero senso. Alla fine di “I’m so tired”, sempre nel White Album, altri dissero che ascoltando al contrario si potessero sentire le parole «Paul is dead, man, miss him, miss him» («Paul è morto, mi manca, mi manca»). Alcuni si convinsero invece che alla fine di “Strawberry fields forever”, celebre canzone uscita come singolo nel 1967, John Lennon dicesse «I Buried Paul» con una voce un po’ distorta.

Per un certo periodo, alcuni fan si convinsero anche del fatto che il “walrus” (che in inglese vuol dire “tricheco”) della canzone “I am the walrus”, dal testo particolarmente enigmatico, fosse in realtà una parola greca che vuol dire “cadavere”, e che quindi il testo di “Glass onion” in cui Lennon cantava «Ecco un altro indizio per tutti voi / The Walrus era Paul» fosse un enorme indizio a conferma della teoria. Inoltre il fatto che sulla copertina dell’album Magical Mystery Tour, che ritrae la band vestita con costumi da animali, il tricheco fosse vestito di nero (un colore storicamente associato al lutto) mentre tutti gli altri erano in bianco, fu visto come un ulteriore indizio.

Sulla copertina di Abbey Road, con la famosa foto dei Beatles che attraversano le strisce pedonali, qualcuno vide poi un corteo funebre, in cui Lennon rappresentava il prete (dato che era vestito di bianco), Ringo Starr il responsabile delle pompe funebri vestito di nero, McCartney il cadavere, e George Harrison il becchino. Alcuni sbagliarono anche a leggere una spilletta che McCartney indossava sulla copertina dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, su cui c’era scritto OPP (era della polizia provinciale dell’Ontario, che il musicista aveva comprato mentre la band faceva un tour del Canada), e pensarono che ci fosse scritto OPD (“Officially pronounced dead”, la sigla che nel Regno Unito si utilizza per dichiarare ufficialmente morto qualcuno). Secondo la teoria, poi, McCartney era morto alle 5 del pomeriggio, motivo per cui Harrison, sulla copertina di Sgt. Pepper’s, aveva l’orologio puntato su quell’ora.

Spesso con intenti satirici, varie testate e radio americane alimentarono quella teoria, intervistando presunti esperti e raccogliendo gli indizi. Più tardi, il caporedattore del Times-Delphic spiegò di aver deciso di prendere sul serio le voci perché nel contesto degli Stati Uniti degli anni Sessanta, in cui i giovani non sapevano più a chi credere su grandi temi tra cui la guerra in Vietnam, «eravamo pronti, disposti e capaci di credere a qualsiasi tipo di teoria del complotto».

Il fatto che in quel momento McCartney si trovasse in semi-isolamento in una fattoria scozzese per seguire i primi mesi di vita della figlia neonata, senza la minima voglia di smentire la teoria pubblicamente, non aiutò a limitare la diffusione della bufala. Intervistato da Rolling Stone sul tema tempo dopo, disse che aveva consigliato a tutti di lasciar parlare la gente di quel che voleva: «probabilmente sarà la migliore pubblicità che abbiamo mai avuto e non dovrò fare altro che restare in vita». Nel frattempo però allo staff dei Beatles continuavano a arrivare molte richieste di spiegazioni e chiarimenti, e più volte l’ufficio stampa della band dovette smentire la bufala.

La voce cominciò a perdere popolarità soltanto nel 1969, quando la rivista Life pubblicò una lunga intervista a McCartney intitolata “Paul è ancora tra noi”, e il musicista nel 1993 ci scherzò pure su, titolando un proprio album di canzoni dal vivo Paul is Live (“Paul è vivo”).

Il Northern Star, che oggi è una testata soltanto online e che si concentra principalmente su piccole notizie relative al proprio campus, aveva già ammesso di avere pubblicato una bufala riguardo a McCartney, ma questo settembre, dopo 54 anni, ha deciso di pubblicare delle scuse ufficiali. La notizia è stata recentemente ripresa dalla sezione dell’Illinois della radio statunitense NPR, che ha chiesto all’attuale caporedattrice del Northern Star, Bridgette Fox, come mai avessero deciso di scusarsi dopo così tanto tempo.

Fox ha raccontato a NPR che la decisione è stata presa soprattutto perché non voleva che la notizia fosse attribuita a loro da teorici del complotto che ancora vogliono credere che McCartney siamo morto. «È un po’ una macchia sulla nostra reputazione», ha detto. «Ma se Paul McCartney volesse farsi vivo con la nostra redazione, penso che potrei morire… al contrario di lui. Paul, spero che tu sia in ottima salute!»

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