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  • Domenica 8 ottobre 2023

Gli Stati Uniti hanno il DNA di centinaia di migliaia di migranti

Hanno iniziato a raccoglierlo nel 2020 sotto Trump, e secondo molti è una violazione dei diritti delle persone

Migranti e forze dell'ordine dopo un attraversamento irregolare, al confine tra Stati Uniti e Messico (AP Photo/Christian Chavez)
Migranti e forze dell'ordine dopo un attraversamento irregolare, al confine tra Stati Uniti e Messico (AP Photo/Christian Chavez)

Dal 2020 in poi gli Stati Uniti hanno iniziato a raccogliere campioni di DNA dai migranti irregolari trattenuti dalle autorità federali, cioè le persone detenute in modo simile a quanto avviene in Italia con la detenzione amministrativa, per esempio nei Centri di permanenza per il rimpatrio, i CPR. L’FBI ha cominciato a raccogliere campioni su impulso dell’amministrazione di Donald Trump, estendendo una pratica fino a quel momento riservata soprattutto a detenuti accusati di reati gravi, come omicidi o stupri.

I campioni di DNA vengono inseriti in un database gestito dall’FBI, che per questo motivo si sta espandendo come non era mai successo finora: il personale e i mezzi non bastano e lo scorso aprile l’FBI ha chiesto 53 milioni di dollari di fondi aggiuntivi per poter continuare a catalogare e conservare i campioni.

Negli Stati Uniti la raccolta del DNA delle persone arrestate è possibile grazie a una legge del 2005, il Fingerprint Act. Fu introdotta durante il mandato del presidente George W. Bush e autorizzò il prelievo del DNA di persone sia statunitensi che straniere arrestate soprattutto con accuse di reati gravi (e di alcuni tipi di reati minori), sia in custodia cautelare che detenute dopo una sentenza di condanna. L’obiettivo era identificare più facilmente i colpevoli in caso di recidiva.

Già allora la norma fu molto contestata da associazioni per i diritti civili come l’American Civil Liberties Union (ACLU), che la consideravano una violazione della privacy delle persone arrestate oltre che del Quarto emendamento, che afferma il diritto a non subire perquisizioni immotivate, come secondo l’ACLU è un prelievo di liquidi e tessuti biologici.

Nel 2009, durante il mandato presidenziale di Barack Obama, furono introdotte norme più precise sulla raccolta del DNA delle persone arrestate, le cui procedure variano da stato a stato: tra le altre cose furono esonerate dal prelievo di DNA le persone straniere in detenzione amministrativa, cioè trattenute senza aver compiuto reati (per esempio i migranti in attesa di essere espulsi) e in generale le persone fermate durante «migrazioni di massa».

Le cose cambiarono con Trump, che nel 2019 propose di includere nella raccolta del DNA anche i migranti irregolari che si trovano nei centri di accoglienza del governo. Il Department of Justice, il ministero della Giustizia statunitense, si appigliò al fatto che l’ingresso illegale negli Stati Uniti è un reato minore (“misdemeanor”, per cui sono previste pene alternative alla prigione) per dire che la distinzione tra persone arrestate per reati e quelle trattenute per motivi di immigrazione era «in gran parte artificiale».

Alla modifica della legge contribuirono anche alcune accuse rivolte al Department for Homeland Security (DHS), il ministero che si occupa di sicurezza delle frontiere. Il dipartimento finì in un piccolo scandalo dopo alcuni reati gravi, come omicidi e violenze sessuali, compiuti da migranti irregolari a cui non era stato prelevato il DNA. Le accuse furono rese pubbliche da alcuni funzionari dello stesso DHS in una lettera rivolta al presidente degli Stati Uniti.

Finora l’attuale presidente Joe Biden non ha mai revocato l’estensione della raccolta di DNA dai migranti irregolari decisa da Trump. E nel frattempo il database dell’FBI (il Combined DNA Index System, il CODIS) ha continuato a crescere moltissimo: l’Electronic Frontier Foundation, organizzazione che si occupa di diritti digitali, ha scritto che la raccolta di DNA dei migranti ha raggiunto «proporzioni paurose, astronomiche».

Nella sua richiesta di fondi aggiuntivi dello scorso aprile l’FBI ha scritto che, a seguito del provvedimento di Trump, nei 12 mesi precedenti aveva ricevuto una media di 92mila campioni di DNA al mese, più di dieci volte quanto riceveva prima. L’FBI ha parlato di «enormi carenze di budget e di personale» e ha aggiunto che si era già creato un arretrato di circa 650mila campioni non registrati.

– Leggi anche: Le critiche a Biden da destra e da sinistra, sull’immigrazione

Dal 2020 in poi il DNA è stato prelevato anche a richiedenti asilo, quindi persone ancora in attesa di una decisione da parte delle autorità competenti riguardo al riconoscimento di una forma di protezione internazionale. In questo caso la raccolta del DNA è ancora più contestata, dato che si parla di persone che potrebbero aver attraversato il confine per fuggire a persecuzioni politiche, etniche, religiose o legate al loro orientamento sessuale.

Il prelievo avviene in genere con tamponi effettuati nell’interno delle guance. Spesso i migranti non sono nemmeno informati sulla finalità di questa procedura e sul tipo di database in cui verrà inserito il campione: il sito BuzzFeed ha raccontato di prelievi effettuati a richiedenti asilo al confine col Texas in cui le forze dell’ordine si limitavano a dire che «nel caso in cui avessero fatto qualcosa di male, il governo sarebbe stato in grado di trovarli». In questo caso il prelievo del DNA è problematico anche per la mancanza di un consenso, o quantomeno di un consenso informato, a consegnare a un’autorità straniera informazioni così sensibili.

Secondo il direttore dell’FBI, Christopher Wray, la raccolta del DNA dei migranti irregolari è destinata ad aumentare, soprattutto per via della scadenza lo scorso maggio del “Titolo 42”, la misura con cui durante la pandemia da coronavirus Trump aveva permesso il respingimento di decine di migliaia di persone migranti al confine con gli Stati Uniti. Wray ha stimato una raccolta di 1,4 milioni di campioni di DNA ogni anno.