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  • Venerdì 22 settembre 2023

L’acqua del Po va gestita insieme, da Vercelli alla Romagna

Lo spiega bene Giulio Boccaletti, direttore scientifico del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, nel suo nuovo libro

Risaie a Rovasenda, in provincia di Vercelli, il 9 settembre 2022 (ANSA/JESSICA PASQUALON)
Risaie a Rovasenda, in provincia di Vercelli, il 9 settembre 2022 (ANSA/JESSICA PASQUALON)
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La siccità che tra la fine del 2021 e l’inizio del 2023 ha interessato la Pianura Padana ha mostrato che le attuali infrastrutture e regole per la gestione dell’acqua non sono adeguate in caso di condizioni estreme. La prolungata carenza d’acqua ha infatti causato conflitti tra diversi territori uniti dall’uso delle acque del bacino del Po, come ad esempio il vercellese e la Lomellina, in provincia di Pavia, tra cui ci sono state discussioni riguardo alla distribuzione dell’acqua per le risaie. Il problema è che i fiumi, e il Po in particolare, non rientrano nell’amministrazione di una sola regione e quindi devono essere gestiti in modo coordinato da tanti diversi enti e tenendo conto di molte esigenze diverse: ambientali, agricole, industriali e non solo.

Lo spiega bene Siccità. Un paese alla frontiera del clima, il nuovo saggio di Giulio Boccaletti, direttore scientifico del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. Il libro, di cui pubblichiamo un estratto, chiarisce in che modo dovrebbe cambiare la gestione dell’acqua in Italia per risolvere i problemi attuali e quelli che potrebbero crearsi in futuro, anche per quanto riguarda le alluvioni. Domenica 24 settembre alle 16:15 Boccaletti ne parlerà anche a Faenza durante Talk, le giornate di incontri per parlare di come vanno le cose intorno a noi organizzate dal Post; con lui ci sarà Ludovica Lugli.

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Già dal 1951, anno della grande alluvione del Polesine, in Italia ci si è resi conto che la struttura territoriale delle amministrazioni non permette di coordinare l’uso dei bacini idrici in maniera ottimale per gestire le emergenze. Negli anni Sessanta si cominciò a discutere di gestione integrata di bacino. Formalmente, le autorità di bacino vennero create nel 1989, con la legge 183 che riformava la difesa del suolo. Alcuni fiumi, come il Po, furono definiti di rilevanza nazionale. Altri, per esempio il Reno, di rilevanza interregionale, oppure di rilevanza regionale, come i bacini romagnoli. Questa struttura istituzionale rifletteva la consapevolezza che l’acqua si muove attraverso confini, tra utenti che vanno coordinati.

Il Po, il principale fiume italiano, è particolarmente complesso. La sua autorità di bacino include nove regioni: Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Marche. Nel suo bacino si realizza oltre il 40 per cento del prodotto interno lordo del paese. Oltre un terzo delle industrie italiane e un terzo della produzione agricola nazionale dipendono dal suo territorio. Dal 2015, l’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po ha accorpato altre autorità, tra cui quelle del bacino del Reno e dei bacini romagnoli. Questa scelta riflette il fatto che, dopo un secolo di investimenti idraulici, i sistemi idrografici raramente sono indipendenti.

Per esempio, il Reno, che nasce nei pressi di Pistoia, in Toscana, attraversa la provincia di Bologna e sfocia nell’Adriatico vicino a Ravenna, è un fiume torrentizio stagionale: da solo non accumula abbastanza acqua per sostenere l’agricoltura della bassa Emilia-Romagna. Inoltre, la Romagna tende a essere arida, con precipitazioni sotto la media per l’Italia settentrionale. Fin dal dopoguerra, però, l’agricoltura di questa zona sfrutta il Po grazie al Canale emiliano romagnolo (CER), una delle infrastrutture idrauliche più importanti d’Italia, che sposta verso Ravenna circa duecentocinquanta milioni di metri cubi d’acqua all’anno, prelevati a Salvatonica, frazione del comune di Bondeno.

L’Autorità di bacino cerca di trovare una sintesi tecnica alle aspirazioni politiche di tutte queste regioni, mediando con le agenzie e i ministeri coinvolti nelle politiche del territorio, dalle infrastrutture alla protezione civile. Un lavoro difficilissimo, anche perché, nonostante il nome, non ha alcuna autorità strategica. È un ente pubblico ma non economico, né ha potestà legislativa. Ha un ruolo di coordinamento e assistenza tecnica, ed è responsabile della definizione del piano di bacino, ma non della sua pianificazione economica. Peraltro, l’autorità non è l’unica istituzione a cercare di coordinare le attività lungo il fiume. Esiste anche un’Agenzia interregionale per il fiume Po, istituita dalle regioni Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto per gestire interventi infrastrutturali e di sorveglianza, assorbendo alcuni dei poteri che erano stati del magistrato per il Po.

Da tale descrizione si comincia a intravedere la complessità della gestione strategica di un bacino come questo. Una complessità che si manifesta a fronte delle scelte che la siccità impone. Prendiamo il caso della produzione del riso. L’Italia produce circa la metà del riso europeo: un milione e mezzo di tonnellate annue, di cui oltre la metà è esportata. La grande maggioranza viene da circa duecentoventimila ettari di risaie concentrate in Lombardia e Piemonte, tra Novara, Vercelli e Pavia. Il riso ha bisogno di tanta acqua: per ogni ettaro ne servono circa quindici-ventimila metri cubi. Per questo le risaie rappresentano quasi il 40 per cento dell’uso irriguo italiano.

Può sembrare un’enormità, ma i dettagli sono importanti. Nel caso del riso, l’acqua serve non solo per far crescere la pianta, ma pure per mantenere costanti le condizioni di crescita. Anche il riso inizialmente seminato «in asciutta», cioè senza inondare il campo di acqua alla semina, deve essere poi sommerso. Il risultato è che gran parte di quest’acqua non finisce nella pianta, ma percola in falda, diventando la risorsa di qualcun altro.

Torniamo a esaminare la siccità del 2022. Nell’inverno precedente, sulle Alpi occidentali era caduta meno neve del solito: a fine inverno, vi era un deficit di quasi il 70 per cento. In aprile, gli agricoltori già parlavano di sacrificare circa tremila ettari di risaie. Intanto, trecento chilometri più a est lungo il fiume, a Bondeno, i tecnici dell’impianto idrovoro che alimenta il CER stavano osservando con apprensione il livello dell’acqua, che si stava progressivamente avvicinando alla soglia minima di tre metri sopra il livello del mare, poco dopo la quale l’impianto idrovoro si blocca. La situazione è poi peggiorata. A luglio, quando il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, molte risaie si aspettavano di perdere la maggior parte del raccolto, mentre il CER si è ritrovato a livello di blocco, e la regione è dovuta intervenire con ordinanze draconiane sull’uso di acqua non potabile per cercare di salvare il salvabile.
Ma questa crisi localizzata ha colpito in maniera sostanzialmente indipendente le due comunità. A fronte di una scarsità che avrebbe impedito a entrambe di operare normalmente, non c’erano meccanismi immediati per scegliere o per mutualizzare i costi, né per decidere quale combinazione potesse minimizzare le perdite economiche. L’unico intervento, eccezionale, erano sussidi statali per sostenere le aziende. Una specie di lotteria meteorologica.

Alla fine, le risaie hanno perso oltre venticinquemila ettari, con una produzione complessiva di almeno il 15 per cento sotto le aspettative. In alcuni casi, gli agricoltori hanno dovuto sostituire il riso con piante meno redditizie ma anche meno idrovore come la soia, con impatti sull’economia locale. In Romagna, nonostante il CER sia riuscito a mantenere l’apporto di acqua, ci sono state riduzioni nei profitti e piante in stress idrico. Il fiume non poteva soddisfare entrambi.

Rispondere ai bisogni idrici impone scelte che vanno oltre il territorio in cui si accusa la sofferenza maggiore. Certo, in parte si tratta di compiere scelte varietali. In parte si tratta di scegliere cos’altro sacrificare. E, in parte, si deve anche decidere quali infrastrutture potrebbero aumentare la resilienza. Alcuni studi suggeriscono che sostituire lo scioglimento stagionale dei ghiacciai con stoccaggio artificiale richiederebbe invasi per circa un miliardo di metri cubi su tutte le Alpi. Il problema non è tanto il costo delle infrastrutture, probabilmente attorno al miliardo di euro, quanto il fatto che si dovrebbero occupare territori di comuni e province che non partecipano direttamente del destino delle risaie di Vercelli e Novara o dell’agricoltura della Romagna.

In tutto questo, la radice del problema non è solo dell’architettura istituzionale, ma è politica. La gestione del Po è esistenziale per le risaie del Vercellese, importante per la gestione delle industrie tessili del Veneto, e marginale per un cittadino di Bologna, che può contare sullo stoccaggio a monte del bacino di Suviana. Eppure, tutti questi soggetti, e altri ancora, devono contribuire a una soluzione con le loro tasse e le loro scelte. Le prospettive locali, per definizione, divergono. Il cuore del problema, che la siccità evidenzia chiaramente, è la mancanza di una visione comune che guidi i nostri sforzi. Ciò che manca, negli eventi di scarsità, non è necessariamente l’acqua. È una collaborazione responsabile.

© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano

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