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  • Giovedì 14 settembre 2023

Come venne l’idea di “Fitzcarraldo” a Werner Herzog

Nell'autobiografia "Ognuno per sé e Dio contro tutti" il regista tedesco racconta come pensò di trascinare un piroscafo oltre una collina

Klaus Kinski in "Fitzcarraldo" di Werner Herzog (1982)
Klaus Kinski in "Fitzcarraldo" di Werner Herzog (1982)
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Fitzcarraldo, il film di Werner Herzog del 1982, racconta di un uomo irlandese che a cavallo tra Ottocento e Novecento cerca di raggiungere una zona impervia della Foresta Amazzonica peruviana trascinando un piroscafo a vapore oltre una collina. Nella parte centrale del film il protagonista Brian Sweeney Fitzgerald, detto “Fitzcarraldo”, convince un gruppo di indios della foresta a disboscare il fianco della collina per costruire una rampa e un sistema di argani che permettano di trascinare la nave da un fiume a un altro, raggiungendo in questo modo un tratto inaccessibile per via di alcune pericolose rapide. Le scene dedicate a quest’impresa visionaria, che in più momenti sembra impossibile, sono tra le più memorabili del cinema di Herzog, che spesso ha raccontato le lotte degli esseri umani contro le forze della natura. La storia delle riprese del film è raccontata nel documentario Burden of Dreams.

Nella sua autobiografia appena pubblicata da Feltrinelli, Ognuno per sé e Dio contro tutti, il regista tedesco racconta, tra le altre cose, com’è che gli venne l’idea per la storia di Fitzcarraldo e delle sue scene più grandiose. Un po’ dipese da una storia vera che gli raccontò José Koechlin von Stein, un imprenditore peruviano che dagli anni Settanta si occupa di “eco-turismo” in Amazzonia, un po’ da una fissazione di Herzog per i menhir. Pubblichiamo un estratto del libro in cui se ne parla. Lunedì 18 settembre dalle 19 Herzog sarà al Piccolo Teatro Strehler di Milano dove parlerà del suo libro con Luca Sofri e Concita De Gregorio in un incontro organizzato dal Post con Feltrinelli.

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Due sono stati gli spunti che hanno dato vita a Fitzcarraldo, nonostante una persona che ha lavorato alla costruzione degli accampamenti nella giungla vada ancora raccontando in giro di essere stato lui a farmi conoscere – nel corso di lunghe chiacchierate notturne – tutti i dettagli della vita del barone del caucciù, che in realtà nel film sono una mia invenzione. Sempre la stessa persona sostiene, tra l’altro, di aver fatto parte di un gruppo di liberazione peruviano che aveva contatti con Che Guevara in Bolivia. Quando una cosa ha successo, tutti ne rivendicano la paternità. Una delle esperienze chiave fu un episodio del tutto fortuito che mi accadde quando, per l’ambientazione di una sequenza onirica in Kaspar Hauser, ero alla ricerca di una costa battuta dal vento. I luoghi che più mi sembravano idonei erano le isole Lofoten e la costa settentrionale della Norvegia ma, data la loro distanza, iniziai a guidare lungo la costa della Bretagna. Dopo pochi giorni – era ormai notte – mi fermai in un parcheggio a Carnac e, davanti a me, illuminato dai fari della macchina, vidi qualcosa di sorprendente. Come eserciti usciti dal nulla, pietre neolitiche erano allineate in lunghe file parallele, su e giù per le colline, a migliaia. Camminai a lungo nel buio, appoggiandomi ai menhir e poi dormii in macchina. Il mio stupore era simile a quello che avevo provato a Creta, di fronte ai mulini a vento. Il mattino seguente camminai di nuovo tra quegli enormi massi di pietre. A Carnac ci sono circa quattromila menhir, il più pesante dei quali supera le cento tonnellate. Al chiosco dove vendevano i biglietti, comprai una guida turistica dove a un certo punto si diceva che gli uomini di diverse migliaia di anni fa non avrebbero mai potuto trasportare menhir simili, che quindi dovevano essere stati eretti da extraterrestri provenienti da una galassia lontana. Una scemenza assoluta. Infastidito da quanto avevo letto, decisi che non avrei lasciato quel posto finché non avessi escogitato un metodo per trasportare quei blocchi di pietra e metterli in posizione verticale.

Lo stesso giorno avevo già trovato il modo. Prima di tutto, alla stregua di un uomo della preistoria, avrei usato soltanto utensili primitivi: pale, corde, asce di pietra, grasso animale per ungere, fuoco. Poi, per semplicità, mi prefissai il seguente compito: trasportare per un chilometro un gigantesco masso adagiato su una delle numerose rocce della costa e poi metterlo in posizione verticale. Se avessi a disposizione mille uomini disciplinati mi ci vorrebbe un anno. Il lavoro principale consisterebbe nella costruzione di una rampa di un chilometro leggermente inclinata. Con una pendenza dello 0,5% la rampa raggiungerebbe un’altezza di cinque metri. Alla sua estremità, scaverei un tumulo artificiale, con un cratere nel mezzo che si restringe verso il basso. Prima del trasporto, bisognerebbe scavare sotto questo gigantesco masso una serie di trincee attraverso le quali spingere dei tronchi di quercia induriti nel fuoco. Scavando via il resto della terra, i menhir verrebbero appoggiati sui tronchi, e in questo modo sarebbe molto facile trainarli. Alla fine, il menhir verrebbe rovesciato nella fossa del cratere e sarebbe sufficiente rimuovere la terra, lasciandone quel tanto che basta perché la pietra rimanga in piedi.

Con un terreno in salita, come a Carnac, è più difficile ma anche in questo caso il principio di una rampa fissa e di un cratere sarebbe ugualmente valido, con l’unica differenza che si dovrebbe esercitare una forza molto maggiore per trascinare il menhir verso l’alto. Per questo utilizzerei degli argani che avvolgono una corda su un tronco saldamente ancorato. Molti di questi argani messi insieme sarebbero sufficienti per sollevare un oggetto di almeno cento tonnellate su per un pendio. Questo è il principio che è poi stato utilizzato in Fitzcarraldo. Gruppi di Machiguenga fanno forza contro le grandi braccia degli argani, mentre a livello del suolo una corda si avvolge intorno al palo di sostegno.

Molti anni dopo, nel 1999, per la regia del Flauto magico a Catania, feci realizzare da Maurizio Balò, uno scenografo meraviglioso che ha collaborato in molte delle mie produzioni, una scenografia in cui gli schiavi egizi erigono sullo sfondo un obelisco. L’opera è ambientata in un immaginario Egitto faraonico, a cui ho voluto fare riferimento con una stilizzazione visiva. Nella mia produzione, l’obelisco viene sollevato con rulli e argani. Qualche anno fa mi sono imbattuto per caso in alcune incisioni riguardanti l’erezione dell’obelisco sul grande sagrato di San Pietro a Roma nel 1586. Ne sono rimasto folgorato. Anche in quel caso venivano usati una rampa e numerosi argani, con l’unica differenza che venivano spostati in cerchio dai cavalli e che, per la grande quantità di corde, si utilizzavano carrucole e pulegge deviatrici. Ero così affascinato da questa scoperta che l’arcivescovo responsabile non solo fu contagiato dal mio entusiasmo, ma mi permise di consultare, nella Biblioteca Vaticana, l’intera documentazione relativa all’innalzamento dell’obelisco. Nei fascicoli si possono trovare tutti gli inventari delle attrezzature utilizzate, gli elenchi dei cavalli e dei lavoratori a giornata, gli incidenti e le malattie, ma la cosa più interessante sono le diverse proposte avanzate da tecnici e architetti dell’epoca per l’erezione dell’obelisco. Alla fine, prevalse la soluzione con gli argani, e l’obelisco si può vedere ancora oggi. A volte, per il divertimento dei miei ascoltatori, sostengo, quasi si trattasse di una freccia del tempo cronologicamente invertita, che l’idea mi sia stata rubata. In Fitzcarraldo, tuttavia, la maggior parte della forza non veniva né dagli indios locali né dai cavalli, ma dal nostro Caterpillar, che aveva precedentemente ridotto la pendenza dal sessanta al quaranta per cento. (…)

La storia di Fitzcarraldo mi fu proposta da Joe Koechlin. Era venuto a trovarmi a Monaco, esortandomi a tornare in Perù. Tutti si aspettavano e speravano che, dopo Aguirre, girassi un altro film nella giungla. Mi disse di avere una storia che avrei certamente trovato molto avvincente, quella del barone del caucciù Carlos Fermín Fitzcarrald, che alla fine del xix secolo era diventato l’imprenditore più ricco di tutta la regione. Fitzcarrald dava lavoro a più di tremila boscaioli e a un piccolo esercito privato adibito alla loro sorveglianza. Morì in un incidente con una canoa quando non aveva ancora trentacinque anni. A dire il vero, non mi sembrava un soggetto particolarmente interessante per un film, era solo la storia di uno squallido sfruttatore e io e Joe trascorremmo il resto della serata parlando d’altro. Se ne era appena andato e aveva chiuso la porta dietro di sé, quando tornò ad affacciarsi dicendo che aveva dimenticato un dettaglio. Una volta, Fitzcarrald aveva trasportato una barca a vapore di circa una trentina di tonnellate su un braccio di terra tra due fiumi.

Per far ciò, i suoi aiutanti l’avevano smontata e ne avevano trasportato i pezzi sull’affluente parallelo dove erano stati riassemblati. Dissi a Joe di rientrare in casa. Improvvisamente, nella mia testa, la storia aveva già preso forma: deliri nella giungla, un piroscafo di almeno trecento tonnellate su una montagna, issato con gli argani dagli indios come nell’età della pietra, la voce di Caruso, la grande opera lirica nella giungla. Poco tempo dopo, quando atterrai all’aeroporto rovente di Iquitos, con gli avvoltoi che volteggiavano nel cielo, i maiali che sguazzavano nel fango proprio accanto alla pista – una delle scrofe, investita da un aereo, stava marcendo sul cemento – indietreggiai di scatto. Per l’amor di Dio, no, non un altro film del genere! Ma il progetto, come tutti gli altri, mi era piombato addosso con una straordinaria veemenza. Non avevo scelta. Ci tengo a sottolinearlo perché spesso molti pensano che io sia ossessivo. Ma non è vero. Così come non è vero che avevo raccolto abbastanza denaro per iniziare il film. In realtà, anche solo per far partire il progetto, rischiai tutti i soldi che avevo. Avevamo iniziato a costruire gli accampamenti nella giungla e il piroscafo, ma nel giro di pochissimo tempo mi ero ridotto a vivere in un pollaio il cui tetto di cartapesta era appena più alto della mia testa. Di notte, i topi mi camminavano addosso. Alla fine, non avevo più niente da mangiare. Per fortuna, quando lavoravo nella giungla, avevo l’abitudine di portare con me uno shampoo particolarmente buono e il sapone migliore, perché lavarsi in un fiume e avere un buon profumo addosso aiuta, proprio in un posto del genere, ad accrescere il senso di autostima. Barattai quindi shampoo e sapone al mercato di Iquitos per tre chili di riso, con cui tirai avanti per le tre settimane successive. Semplicemente, ho sempre riconosciuto le mie necessità e sviluppato un senso di dovere nei loro confronti, quando si tratta di seguire una grande visione.

Traduzione di Nicoletta Giacon
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