Le difficoltà del governo sulla riforma europea del Patto di Stabilità

Vorrebbe più flessibilità fiscale ma fatica a trovare una sponda nei paesi che la pensano allo stesso modo, come Francia e Spagna

(ANSA/ANGELO CARCONI)
(ANSA/ANGELO CARCONI)
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Il 17 ottobre al prossimo “Ecofin”, la riunione dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27 paesi dell’Unione Europea, si discuterà anche della proposta di riforma del Patto di Stabilità, ossia l’insieme delle regole europee per la gestione coordinata dei conti pubblici da parte di tutti i paesi membri. È una questione che negli ultimi mesi è emersa spesso nel dibattito politico italiano, poiché un possibile allentamento delle regole fiscali sarebbe un grosso aiuto per il governo di Giorgia Meloni, che già da adesso è impegnato a reperire le risorse per finanziare la prossima legge di bilancio, da approvare entro la fine dell’anno. Al contrario, un ritorno a parametri stringenti sarebbe un ulteriore problema per i conti pubblici italiani.

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In linea generale, le regole previste dal Patto di Stabilità servono a far sì che ciascun paese tenga i conti pubblici in ordine e non faccia troppo ricorso al debito, in modo da evitare problemi che possano ricadere sul resto dell’Unione. Queste regole erano state sospese nella primavera del 2020 a causa della pandemia, per dare modo ai paesi di spendere miliardi di euro in aiuti ai propri cittadini senza troppi vincoli. A meno di una proroga della sospensione – uno scenario al momento considerato poco plausibile – le regole dovrebbero tornare in vigore a partire dal 2024. Da anni però si discute della necessità di riformarle al di là delle emergenze, perché molti paesi le considerano eccessivamente rigide.

Lo scorso aprile la Commissione Europea ha presentato una proposta per riformare il Patto di Stabilità, che ora dovrà essere discussa e approvata dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione Europea, l’organo in cui sono rappresentati i governi dei 27 paesi membri. In estrema sintesi la proposta prevede una semplificazione delle regole, trattamenti diversi a seconda della condizione economica “di partenza” dei paesi e un rafforzamento delle procedure di infrazione.

Al momento uno tra i vincoli più discussi del Patto prevede che il debito pubblico di un paese non debba mai superare il 60 per cento del suo PIL, il Prodotto Interno Lordo. In caso contrario il governo del paese in questione dovrebbe impegnarsi per ridurre il debito al ritmo di un ventesimo all’anno. Inoltre il Patto prevede che il deficit, ossia la differenza tra le uscite e le entrate dello Stato in un anno, non debba superare il 3 per cento del PIL. Finora però la procedura per deficit eccessivo non è mai stata applicata formalmente – nessun paese è mai stato sanzionato, insomma – e anche l’obbligo di riduzione del debito di un ventesimo all’anno non è mai stato preso davvero sul serio. L’Italia, per esempio, ha un debito pubblico che al 2022 era al 144,4 per cento del PIL: il secondo valore più alto dell’Unione Europea, dopo la Grecia.

La riforma presentata dalla Commissione darebbe maggiore flessibilità. Nel caso di un eccessivo rapporto tra debito pubblico e PIL, per esempio, viene eliminato il parametro fisso di un ventesimo all’anno per permettere a ogni paese di adattare il ritmo di riduzione del debito alle proprie condizioni economiche, mentre per quanto riguarda il rapporto tra deficit e PIL è previsto che gli stati riducano il debito pubblico di 0,5 punti percentuali all’anno fino al raggiungimento della soglia consentita.

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Durante l’estate i ministri dei paesi europei hanno continuato a confrontarsi e negoziare possibili modifiche alla proposta della Commissione, dividendosi sostanzialmente in due fronti. Il primo, di cui fanno parte la Germania e gli altri paesi cosiddetti “frugali”, come l’Austria e i Paesi Bassi, vorrebbe che fossero mantenuti parametri rigorosi e uguali per tutti i paesi, senza quindi fare troppe concessioni e contenendo i rischi economici legati a un indebitamento eccessivo. Il secondo gruppo invece, di cui fanno parte tra gli altri la Francia, la Spagna e l’Italia, chiede regole più flessibili, a fronte di una situazione fiscale ed economica profondamente influenzata da eventi imprevedibili, come la pandemia e la guerra in Ucraina.

La richiesta principale dell’Italia, ripetuta più volte negli ultimi mesi da vari esponenti  del governo, riguarda il metodo con cui calcolare il debito pubblico: il governo vorrebbe escludere dal calcolo le spese legate ad alcuni investimenti, come quelli per le spese militari e la transizione ecologica e digitale, in modo da poter continuare a spendere in questi settori senza che la spesa venga computata nel debito. Intervenendo al Forum di Cernobbio a inizio settembre, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha detto che l’Italia «condivide una politica di riduzione del debito pubblico», ma chiede anche che vengano considerate «in modo diverso» le spese per alcuni interventi, tra cui quelli legati alla transizione energetica o gli aiuti militari e umanitari all’Ucraina. «Sono cose ragionevoli», ha detto.

Al momento le ipotesi più probabili sono due: l’approvazione di una riforma entro la fine dell’anno o il ritorno alle vecchie regole. Entrambi questi scenari però potrebbero essere rischiosi per il governo italiano.

Come dicevamo, il ritorno alle norme in vigore fino al 2020 restringerebbe ulteriormente lo spazio di manovra per la prossima legge di bilancio: a fine agosto, il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto aveva detto infatti che la mancanza di un accordo sul nuovo Patto, e quindi il ritorno alle norme pre-pandemia, produrrebbe «un effetto molto complesso» sui conti pubblici del paese. Inoltre, al di là della specifica situazione italiana, c’è un consenso abbastanza trasversale sul fatto che le regole del Patto andrebbero superate. In un intervento sull’Economist di inizio settembre, l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi aveva infatti sostenuto che «tornare passivamente alle vecchie regole fiscali sarebbe l’esito peggiore possibile», e che «è arrivato il momento» di prendere in considerazione alcuni cambiamenti.

Anche nel caso in cui dovesse essere approvata una riforma entro i prossimi tre mesi, però, non è detto che vada nella direzione auspicata dal governo italiano, anche perché i rapporti con i paesi europei tradizionalmente più vicini alle richieste di maggiore flessibilità fiscale non sono ottimali.

Con il presidente francese Emmanuel Macron, Meloni non ha mai del tutto ingranato. A novembre del 2022 c’erano state alcune incomprensioni riguardo al porto in cui far sbarcare oltre 200 migranti, che avevano aperto una crisi diplomatica poi rientrata. Ma la relazione tra i due è rimasta tesa e solo di recente ci sono stati tentativi di allentare la tensione.

In Spagna, invece, il governo Meloni dovrebbe giustificare la collaborazione con il governo socialista di Pedro Sanchez, che tra l’altro è alle prese con i negoziati per la formazione di una nuova coalizione dopo le elezioni anticipate di fine luglio. Inoltre la ministra spagnola dell’Economia, Nadia Calviño, è candidata alla presidenza della Banca europea per gli investimenti (BEI) ed è quindi improbabile che voglia rischiare di contraddire alcuni paesi sostenendo politiche fiscali considerate eccessivamente permissive.