Come i rastafariani si spiegano la morte del loro messia

Per molti credenti del movimento fu «una crisi esistenziale» quando nel 1975 morì l'imperatore d'Etiopia Hailé Selassié

Hailé Selassié fotografato durante una visita in Scozia nel 1936
Hailé Selassié fotografato durante una visita in Scozia nel giugno del 1936 (AP Photo)
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A fine luglio migliaia di rastafariani si sono radunati in Giamaica per celebrare l’anniversario della nascita di Hailé Selassié, l’ultimo imperatore d’Etiopia, nonché la figura più importante del loro movimento religioso. La gran parte dei seguaci del rastafarianesimo ritiene Hailé Selassié l’incarnazione di Dio, e secondo molti di loro in quanto tale non sarebbe mai potuto morire: come ha scritto l’esperto di antropologia e studi sociali Charles A. Price in un articolo su The Conversation, nel 1975 la sua morte «diede inizio a una crisi esistenziale per i rastafariani», che ancora oggi attribuiscono all’evento significati diversi.

Il rastafarianesimo (o rastafari) è un movimento religioso nato nella Giamaica orientale intorno al 1930 e diffusosi anche in altre parti del mondo soprattutto grazie all’influenza del cantante giamaicano Bob Marley e della musica reggae. Si ispira ampiamente alla Bibbia, ma la sua teologia si sviluppa attorno all’idea che la società occidentale dei bianchi (Babylon) abbia oppresso e costretto alla diaspora i popoli africani, dei quali auspica la riunificazione in una terra promessa (chiamata Zion). Tra gli elementi per cui è conosciuto ci sono la vita a contatto con la natura, la capigliatura con i tipici dreadlock e il consumo di marijuana, che assume spesso un significato religioso e rituale.

Le prime comunità di rastafari radunavano poche decine di persone ed erano composte perlopiù da emigrati africani di seconda e terza generazione. A poco a poco il movimento però crebbe e si espanse anche all’estero: è stato stimato che negli anni Novanta raccogliesse decine di migliaia di seguaci solo in Giamaica e che attualmente ce ne siano tra i 700mila e un milione in tutto il mondo.

A differenza di altre religioni il movimento rastafari non ha un’autorità centrale. I suoi seguaci credono in un solo Dio, chiamato Jah, che spesso è identificato come Ras Tafari: appunto l’ex imperatore d’Etiopia Hailé Selassié I, il cui nome alla nascita era Tafari Makonnen. Secondo la stragrande maggioranza dei rastafari Hailé Selassié sarebbe la manifestazione in forma umana di Dio, il messia, e loro, in quanto suoi seguaci, il popolo da Dio prescelto; altri invece, per quanto lo venerino, lo ritengono semplicemente un profeta.

Hailé Selassié e la regina Elisabetta II del Regno Unito durante una visita di stato a Londra nel 1954

Hailé Selassié assieme alla regina Elisabetta II del Regno Unito durante una visita di stato a Londra nel 1954 (AP Photo, File)

Nato il 23 luglio del 1892, Hailé Selassié fu l’imperatore d’Etiopia tra il 1930 e il 1974 e fu centrale per la modernizzazione del paese: tra le altre cose promulgò la prima Costituzione, abolì la schiavitù e fece aderire l’Etiopia alle Nazioni Unite. Deposto con un colpo di stato a causa dell’ampio malcontento legato anche a una gravissima carestia, morì il 27 agosto del 1975 in quello che alcuni ritengono un probabile assassinio. Il motivo per cui finì al centro di un movimento religioso a migliaia di chilometri di distanza dall’Africa occidentale è che si credeva che discendesse da Menelik I, il primo leggendario imperatore d’Etiopia, nato dall’unione tra re Salomone e la regina di Saba.

Secondo i rastafari la sua incoronazione a imperatore nel 1930 indicava il compimento della profezia che nell’ultimo libro del Nuovo Testamento (l’Apocalisse) preannunciava il ritorno di Gesù Cristo sulla Terra: il nome Hailé Selassié si può tradurre come “potere della trinità”, mentre “Ras” vuol dire capo.

Per decenni in Giamaica i rastafariani furono messi in ridicolo e perseguitati per le loro credenze. Le cose cambiarono quando l’imperatore etiope visitò il paese nel 1966 e incontrò le comunità rastafariane, contribuendo a legittimare la religione e ad accrescere il numero di seguaci, anche se lui stesso si definiva un cristiano devoto.

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Price, che è professore associato alla Temple University di Philadelphia ed è a sua volta rastafariano, spiega che fin dal decennio successivo tuttavia si diffusero interpretazioni diverse sul suo “ruolo” come divinità, anche e soprattutto per via della sua morte.

Alcuni rastafariani sono convinti che Hailé Selassié non sia morto davvero, in parte perché ritengono che Dio non possa morire, e in parte perché il corpo dell’ex imperatore non era stato trovato immediatamente dopo la morte, nel 1975: i suoi resti furono rinvenuti solo nel 1992 in una tomba segreta sotto a quello che era stato il palazzo imperiale ad Addis Abeba. Ma c’è chi dubita che fossero realmente i suoi, visto che non vennero mai svolti test del DNA. Anche per questi motivi la sua morte non è data per certa da alcuni rastafariani, che parlano solo di una sua “scomparsa” e continuano a credere in lui come a Dio.

Altri sostengono che solo con il tempo si potranno capire i motivi della sua dipartita, visto che secondo il loro modo di vedere Dio comunica attraverso gesti che per gli esseri umani spesso sono misteriosi. Secondo un’altra visione ancora, continua Price, la “scomparsa” di Hailé Selassié mostrerebbe che Jah aveva occupato il suo corpo solo in via temporanea, e indicherebbe l’inizio di una nuova era in cui spetterebbe ai seguaci della religione continuare a diffonderne i principi.

In ogni caso Price ricorda che non tutti i rastafariani sono convinti che Hailé Selassié fosse Dio, così come molti seguaci africani e i membri delle Dodici tribù di Israele, una setta rastafari diffusa in Giamaica. Questo a suo dire dipende in particolare dal fatto che nel tempo la comunità di seguaci del movimento si è estesa moltissimo, assorbendo culture, credenze e interpretazioni diverse.

Nel 1967, commentando il fatto che molti lo ritenessero l’incarnazione di Gesù Cristo, Hailé Selassié disse: «Ho sentito parlare di questa idea. Ho anche incontrato alcuni rastafariani. Ho spiegato loro chiaramente che io sono un uomo, che sono mortale […] e che non dovrebbero mai incorrere nell’errore di supporre o pretendere che un essere umano sia l’emanazione di una divinità».

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