L’attivismo di Michela Murgia

Negli ultimi dieci anni aveva portato avanti battaglie femministe e antifasciste attraverso libri, televisione, radio, social network e monologhi, raggiungendo un po' tutti

(ANSA)
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Giovedì sera è morta Michela Murgia, scrittrice e intellettuale italiana molto nota, soprattutto negli ultimi anni, per il suo attivismo antifascista e femminista. A partire dal 2011, con la scrittura dei suoi primi saggi, Murgia è stata in Italia una delle persone che più si sono esposte su questioni come i diritti e la rappresentazione femminile, la violenza di genere, la pervasività del pensiero patriarcale, il sessismo del linguaggio e i rischi dell’affermazione di ideologie e movimenti di matrice neofascista nella politica e nella società.

Di questi e molti altri temi parlò, oltre che nei suoi libri, anche in radio, in televisione, sui social network, sui giornali, in monologhi teatrali e in un podcast, riuscendo a portare il femminismo in contesti in cui non era mai arrivato e a rendere comprensibili e familiari a un grande pubblico anche argomenti che prima di lei non lo erano.

Murgia pubblicò il suo primo libro Il mondo deve sapere nel 2006, ma impiegò alcuni anni prima di dedicarsi espressamente alla questione femminista con il saggio Ave Mary del 2011. Aveva 39 anni, aveva studiato teologia, insegnato religione nelle scuole e si era sempre detta cattolica: quel libro fu un primo tentativo di indagare le contraddizioni tra femminismo e fede, passando dalla sua formazione ed esperienza religiosa e reinterpretando con approccio femminista la figura di Maria, madre di Gesù. La stessa cosa l’avrebbe rifatta anni dopo, nel 2022, con il saggio God save the queer – Catechismo femminista, tornando a chiedersi se si potesse essere persone femministe e cattoliche nello stesso tempo, con nuove consapevolezze allargate anche a tematiche legate all’esperienza delle persone LGBTQ+.

Nel 2013 uscì il saggio breve L’ho uccisa perché l’amavo (falso!), che Murgia aveva scritto insieme alla giornalista Loredana Lipperini e che trattava il tema delle scelte giornalistiche dietro alle notizie di femminicidi. Il libro sottolineava come il linguaggio, il punto di vista e la selezione delle informazioni sui giornali avessero un’impronta sistematicamente assolutoria – ma allo stesso tempo non percepita come tale – nei confronti degli uomini responsabili di violenze di genere.

La critica al giornalismo e ai giornali italiani è stata uno degli impegni più lunghi e continuativi di Murgia. Nel 2018 cominciò a pubblicare su Twitter le prime pagine dei due principali quotidiani italiani, la Repubblica e il Corriere della Sera, evidenziando in modo diverso le firme femminili e quelle maschili per rendere immediatamente visibile la sproporzione tra le due. Commentando l’esperimento fece notare come i pezzi fossero «quasi tutti scritti da uomini, con percentuali del 100% in quelli di opinionismo politico» e come «l’impressione che si ha osservando questi due quotidiani è che le donne non abbiano alcuna autorevolezza nello spiegare la complessità del nostro tempo e che per questo il posto della saggezza debba essere sempre occupato da un uomo».

Portò avanti il lavoro sulle prime pagine dei giornali usando l’hashtag #tuttimaschi, che sarebbe poi stato ampiamente ripreso all’interno di molti altri discorsi sulla rappresentazione femminile, non solo sui giornali. Murgia si espose in molte occasioni anche sulla questione della scarsa presenza femminile a incontri ed eventi pubblici, invitando a un certo punto le donne a smettere di partecipare a iniziative e dibattiti in cui sarebbero state le uniche invitate. A settembre del 2020, in risposta alla pubblicazione del programma del Festival della Bellezza di Verona che includeva quasi esclusivamente ospiti uomini, aveva partecipato attivamente all’organizzazione del “controfestival” EROSive insieme al movimento Non Una di Meno e a colleghe note come Chiara Valerio, Giulia Blasi e Vera Gheno.

Più di recente il suo lavoro sui giornali si era spostato su Instagram, dove con la «rassegna sessista domenicale» sottolineava ogni settimana il sessismo intrinseco di molti automatismi del linguaggio dei giornali e delle riviste: oltre alle questioni già citate sul racconto dei femminicidi, faceva notare l’abitudine di usare i soli nomi propri per le donne in ruoli istituzionali o di rilievo (dove per gli uomini si usava invece anche il cognome) o quella di nascondere totalmente i nomi femminili definendo le donne per il loro ruolo di “moglie di” o “figlia di”.

Nel 2020, insieme alle persone dedicate ai social network di Repubblica, Murgia aveva scritto per la redazione un elenco di espressioni da non usare più nel racconto dei femminicidi, proponendone altre, e più corrette, con cui sostituirli. L’iniziativa, pensata insieme a Repubblica, aveva fatto molto parlare ma aveva attratto anche molte critiche per via della sua impostazione giudicata da alcuni eccessivamente prescrittiva. Nel 2021 aveva cominciato a scrivere L’Antitaliana, la storica rubrica di chiusura dell’Espresso precedentemente curata da Giorgio Bocca e poi Roberto Saviano, di cui cambiò anche il nome dandole la desinenza femminile.

Murgia si fece portavoce di battaglie collettive: da quelle per i diritti delle persone migranti a quelle contro le discriminazioni delle persone LGBTQ+, ma dedicò il proprio lavoro di autrice anche al racconto di molte storie singole. Dell’importanza della dimensione collettiva parlava spesso nei suoi interventi pubblici (dove diceva che It di Stephen King fosse tra i suoi libri preferiti perché il primo a superare la formula dell’eroe singolo per proporre un eroismo di gruppo) e ne scrisse nel libro illustrato Noi siamo tempesta, dedicato a «sedici avventure collettive famosissime o del tutto sconosciute». Nel podcast Morgana, invece, che cominciò a uscire nel 2019 e fu tra i più ascoltati in Italia soprattutto nei primi anni, raccontò decine di storie singole di donne che si erano distinte, più precisamente «storie di ragazze che tua madre non approverebbe».

Nutrì da sempre un grosso interesse per le donne che facevano politica, esprimendosi spesso a favore del sistema delle quote rosa: lei stessa si dedicò alla politica istituzionale per un breve periodo e nel 2014 si candidò alla presidenza della Regione Sardegna raccogliendo il 10 per cento dei voti. Negli ultimi mesi prima di morire si era espressa a favore della nomina di Elly Schlein come segretaria del Partito Democratico.

La cosa per cui però Murgia riusciva a distinguersi maggiormente era la sua capacità di fare discorsi radicali che fossero allo stesso tempo incisivi e popolari: molte delle questioni su cui si espresse negli anni non erano nuove, ma per la prima volta arrivarono in spazi e su canali dove non erano mai comparsi prima, o almeno non con quella efficacia e risonanza. Questa visibilità rese Murgia molto esposta a critiche, che si tradussero spesso in attacchi personali molto violenti sui social network e sui giornali, anche da parte di politici e politiche soprattutto di destra.

Nel 2020 divenne virale il video in cui durante un’intervista radiofonica condotta da lei lo psicoterapeuta Raffaele Morelli cominciò a gridarle di stare zitta e di non interromperlo. Quell’episodio fu poi ripreso nel primo capitolo del breve saggio Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, che raccoglieva in dieci capitoli molti dei discorsi sul femminismo fatti da Murgia negli anni.

Pur essendo sostanzialmente un libro sul linguaggio, per Murgia Stai zitta era una specie di sintesi di tutte le battaglie di cui si era occupata. Nell’ultima pagina del libro spiegava come questioni della lotta femminista molto concrete come la violenza fisica, la differenza di salario, la medicina di genere, il carico del lavoro domestico e la discriminazione professionale fossero strettamente legati al problema del linguaggio sessista e anzi passassero necessariamente da quello: «La politica del linguaggio in questo scenario non sembra la cosa più importante da perseguire, ma è invece quella da cui prendono le mosse tutte le altre, perché il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo per abitarla».

Da quando lo scorso maggio disse pubblicamente in un’intervista al Corriere di essere malata di un cancro al rene al quarto stadio, Murgia si dedicò in particolar modo alla questione politica del riconoscimento delle famiglie non tradizionali in Italia. In diverse interviste raccontò di far parte di una “famiglia queer”, che nella sua accezione del termine è un gruppo di persone che non sono legate necessariamente da vincoli di parentela e in cui non è presente una coppia monogama, né gli altri tipi di legami tradizionali, ma che è comunque a tutti gli effetti una famiglia.

La famiglia queer rappresentava per Murgia una scelta di vita personale che però era anche un atto politico e il tema della maternità non biologica era stato in vari modi centrale nel suo lavoro letterario (nel romanzo Chirù), nei saggi e nella sua vita privata, avendo sostenuto quattro figli non biologici che lei definiva “figli d’anima” ed essendosi sposata solo per altri motivi, definendo allo stesso tempo il matrimonio uno strumento patriarcale e limitato. «Se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione, uno in più per chi nella vita ha dovuto combattere sentendosi sempre qualcosa in meno».

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