Come la ’ndrangheta ha spolpato le cave di porfido in Trentino

Il processo “Perfido” si è concluso con 8 condanne per 76 anni di carcere, e ha scoperto un sistema criminale esteso e radicato

di Isaia Invernizzi

cava di porfido
Una grande cava di porfido ad Albiano, in val di Cembra (foto Il Post)

La sentenza del processo “Perfido” è stata pronunciata nel primo pomeriggio di giovedì nell’aula più grande del tribunale di Trento. Otto persone sono state condannate in primo grado per associazione mafiosa e sfruttamento dei lavoratori. In totale dovranno scontare 76 anni di carcere, l’accusa ne aveva chiesti 88. Il processo “Perfido” è stato chiamato così prima che il nuovo regolamento approvato lo scorso anno dal governo vietasse alle procure di dare nomi accattivanti alle inchieste. L’aggettivo di per sé non racconta nulla. È soltanto un banale gioco di parole, un modo per dare un titolo alle infiltrazioni della ’ndrangheta nell’economia e nella politica di una valle a una quindicina di chilometri da Trento, la val di Cembra: qui si estrae una pietra rossa di un certo valore, chiamata anche “oro rosso”. Il porfido.

È difficile non averlo calpestato almeno una volta nella vita. Le grandi lastre di porfido estratte dalle cave vengono ridotte a cubetti utilizzati per la pavimentazione di strade e piazze nei centri storici delle città. Uno accanto all’altro, i cubetti formano estesi motivi geometrici, risultato di un paziente lavoro di posa. A Roma sono conosciuti come sanpietrini, fatti di leucitite, una pietra più chiara, mentre con il porfido si fanno i cosiddetti bolognini, di diverse sfumature tra il rosso e il marrone. La val di Cembra è dove se ne estrae di più in Italia – 639mila tonnellate all’anno, secondo gli ultimi dati – e circa il 40 per cento finisce all’estero: i piazzali dello stadio Khalifa, in Qatar, del Natural History Museum di Londra e del quartiere Les Halles di Parigi sono fatti con il porfido estratto in Trentino.

Una cava ad Albiano (foto Il Post)

La prima cava fu aperta ad Albiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nei decenni successivi, soprattutto dagli anni Sessanta, se ne aggiunsero molte altre a Lona Lases, San Mauro di Baselga di Pinè, Fornace, Cembra, Camparta, Capriana, Ceola e Lisignago. Sono comuni da poche centinaia di abitanti, dove tutti si conoscono. È difficile passare inosservati, eppure la ’ndrangheta è riuscita a insinuarsi nel tessuto economico, politico e sociale. Ci sono voluti almeno due decenni.

Le persone finite a processo si sono prese prima le aziende, poi le amministrazioni. Hanno gradualmente acquisito piccole attività artigianali, aziende di medie dimensioni, infine le cave. Hanno ottenuto concessioni molto costose pagandole un sacco di soldi arrivati dalla Calabria. Hanno fatto eleggere consiglieri e assessori conniventi con il sistema criminale.

La ’ndrangheta è riuscita a radicarsi anche grazie alla progressiva sottrazione dei diritti a cui sono stati sottoposti i lavoratori del porfido a partire dagli anni Novanta. Sono di fatto dipendenti, anche se sulla carta risultano come artigiani. Vengono pagati a cottimo a seconda di quanta pietra spaccano ogni giorno. È un lavoro pesante, logorante, con poche tutele.

I giovani che negli anni Sessanta e Settanta cominciarono a lavorare nel settore sono invecchiati nelle cave, sostituiti da persone arrivate inizialmente dal Marocco, poi da Tunisia, Albania, Macedonia e dalla Cina. Sfruttare i lavoratori stranieri era più semplice. Gli imprenditori avevano dalla loro un’arma in più: il posto di lavoro come unico modo per mantenere il permesso di soggiorno. Minacciati, non pagati, in alcuni casi picchiati violentemente per aver chiesto mesi di paghe arretrate, i lavoratori del porfido hanno sopportato condizioni di sfruttamento estremo.


«Trauma, politrauma dapertutt, el ga tutti i denti batudi dentro, la testa disente tuta batuda come en per [un modo di dire: ammaccata come una pera quando cade dall’albero, ndr], le gambe storte». Era il 2 dicembre 2014, poco dopo le 20:00. Sergio Lona, un volontario dell’associazione di pronto soccorso Stella bianca, descrisse a un’operatrice del 118 le condizioni di un lavoratore cinese chiamato Hu Xupai. Era quasi incosciente. Perdeva sangue dalla bocca. Si trovava dentro la caserma dei carabinieri di Albiano, rischiava di essere denunciato per aver danneggiato un macchinario in una cava. I due lavoratori che avevano chiamato i carabinieri dissero che forse era caduto. In realtà le ferite mostravano tutt’altro: Xupai era stato picchiato con ferocia.

La sua storia è molto simile a quella di altri lavoratori, sfruttati per lavorare il porfido e pagati quando capita, giusto lo stretto necessario per sopravvivere. Xupai insisteva e pretendeva quanto gli spettava (12mila euro, anche se il tribunale ne calcolerà 34mila), e per questo venne picchiato. Il 2 dicembre aveva un appuntamento con il suo datore di lavoro, che conosce solo come “Padu”. In realtà si chiama Durmishi Bardul, è originario della Macedonia. Xupai entrò nel piazzale della “Balkan Porfidi e Costruzioni Srl”, a Lona Lases. Non trovò nessuno. Era arrabbiato perché contava di avere i soldi che gli spettavano, così tranciò il cavo di un macchinario per la lavorazione del porfido. Pochi secondi dopo scoprì di essere caduto in un agguato.

Due uomini lo raggiunsero nel piazzale. Gli chiesero cosa aveva fatto e prima di ottenere una risposta si accanirono su di lui. Uno lo minacciò con una pistola e lo colpì più volte sulla faccia con una torcia, l’altro lo teneva per i capelli. Gli trafissero il polpaccio con uno strumento metallico appuntito. Lo colpirono sulla schiena, sulle gambe, sulle braccia. Xupai svenne. Si risvegliò tramortito dopo aver ricevuto una secchiata di acqua gelida sulla testa. Era per terra, legato. Il pestaggio non era finito. Ricevette un calcio in bocca, altri pugni e un colpo finale con una sbarra di ferro. Sputò tutti gli incisivi. Xupai sapeva chi erano i suoi aggressori: li conosceva con due nomignoli, Alfà e Ceman. Erano Mustafà Arafat e Hasani Selman, titolari di due aziende che lavorano il porfido.

Furono loro stessi a chiamare i carabinieri. Accusarono Xupai di aver tentato un furto, poi di aver danneggiato i macchinari. I carabinieri non fecero molte domande e caricarono Xupai in auto. Invece di portarlo in ospedale andarono alla caserma di Albiano. Lì si resero conto che non potevano mandarlo a casa, stava troppo male. Il comandante Roberto Dandrea chiamò il volontario della Stella Alpina, Sergio Lona, che a sua volta avvertì il 118. L’operatrice si mise in contatto con i carabinieri e cercò di capire come mai non avevano chiamato subito i soccorsi quando avevano trovato l’uomo nella cava.

(foto Il Post)

Nel 2019 Durmishi Bardul, Mustafa Arafat e Hasani Selman sono stati condannati a 2 anni e 8 mesi di carcere per sequestro di persona e lesioni gravi. Il comandante e i due carabinieri sono indagati per omissione di soccorso e omessa denuncia per non aver segnalato all’autorità giudiziaria i responsabili del pestaggio, con l’aggravante di aver agevolato l’attività criminale della ’ndrangheta.

L’aggressione di Xupai attivò la procura di Trento che iniziò a collegare le denunce e le segnalazioni ricevute negli anni precedenti. È stato un lavoro lungo, meticoloso. I magistrati Maria Colpani, Davide Ognibene e Licia Scagliarini puntarono ai soldi, ai passaggi di società, ai legami strettissimi tra i cavatori e le amministrazioni. Vennero organizzate intercettazioni telefoniche e ambientali con microspie negli uffici, nelle abitazioni e nelle automobili. Controllarono diversi imputati nei loro frequenti viaggi in Calabria, ascoltarono e trascrissero tutto in migliaia di pagine.

Il 15 ottobre 2020 vennero arrestate 18 persone. Nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice per le indagini preliminari Marco La Ganga parlò di intimidazione, assoggettamento e di omertà, diede conto dei reati commessi per acquisire la gestione di attività economiche, di concessioni, di appalti e servizi. Tra le altre cose, le indagini accertarono lo sfruttamento di lavoratori del porfido, la detenzione di armi da guerra, scoprirono diversi reati contro il fisco e ricostruirono come erano state influenzate le elezioni nel comune di Lona Lases.

Secondo l’accusa il capo della “locale” della ’ndrangheta, come viene chiamata la cosca trentina, è Innocenzio Macheda. Originario di Cardeto, uno dei primi paesi calabresi nell’Aspromonte, Macheda arrivò in Trentino nel 1987 e avrebbe rapporti con la cosca Serraino. Antonio Serraino, detto Nino, a capo dell’omonima cosca egemone a Cardeto, venne intercettato in auto mentre andava in vacanza a Merano. «Lì [in Trentino] c’è mezza Cardeto», disse. «Ceggio [Macheda] e altri sono saliti a Trento, una città bianca senza malizia, i calabresi maliziosi quando hanno visto che non girava droga e cose…hanno fatto soldi della Madonna. Dice che i trentini non potevano immaginare che un cristiano potesse fare imbrogli come quelli lì».

Mario Giuseppe Nania, scrisse la procura, è il «braccio armato della cosca proponendosi per l’esecuzione di atti intimidatori». Lo stesso vale per Domenico Morello, Demetrio Costantino, Saverio Arfuso, Antonino Quattrone, Domenico Ambrogio, Pietro Denise, Vincenzo Vozzo, Giovanni Alampi e Mustafà Arafat: quello dell’aggressione a Hu Xupai.

Due delle persone più coinvolte nell’intreccio tra crimine e istituzioni sono i fratelli Giuseppe e Pietro Battaglia. Sono anche loro di Cardeto. Si trasferirono in val di Cembra all’inizio degli anni Ottanta e da allora, acquisizione dopo acquisizione, Battaglia è diventato un cognome importante a Lona Lases.

Nel 1989 aprirono una piccola ditta artigiana, la Battaglia Giuseppe & C. s.n.c., nel 1992 una di autotrasporti. Tra il 1998 e il 2000 comprarono una delle cave più grandi e importanti della zona, la cava Camparta. La pagarono 12 miliardi di lire anche se ne valeva 6, e la provenienza di quei soldi venne scoperta in un’intercettazione in cui Pietro Battaglia raccontava dell’acquisizione. Parlò di una persona non identificata che «arrivò con una valigetta piena di soldi, li mise sul tavolo, si sedette invitando i presenti a controllare se fossero giusti». Battaglia e gli altri presenti «si sedettero e si misero a contare pazientemente il denaro nella valigetta impiegando mezza mattinata». Durante il processo gli avvocati della difesa, invece, hanno dichiarato che Battaglia pagò la cava aprendo dei mutui.

(foto Il Post)

L’affare della cava Camparta è significativo anche perché fatto in collaborazione con i cugini Carlo e Tiziano Odorizzi, all’epoca titolari di una delle aziende più importanti della valle. Tiziano Odorizzi, inoltre, era il referente politico della valle e consigliere provinciale della Margherita, un partito centrista attivo nei primi anni Duemila che avrebbe contribuito a fondare il Partito Democratico. Non è imputato nel processo, né indagato.

Ma i fratelli Battaglia non si limitarono a cercare appoggi. Entrarono direttamente in politica. Nel 2001 Giuseppe Battaglia venne eletto consigliere comunale a Lona Lases, mentre dal 2005 al 2010 fu assessore esterno alle cave dello stesso comune. Il fratello Pietro nel 2011 divenne consigliere comunale. Giuseppe e Pietro Battaglia, secondo l’accusa, hanno sfruttato i lavoratori e falsificato fatture per vendere il porfido in nero.

Tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Duemila nel settore del porfido successero tante cose. Si iniziarono a vedere gli effetti dell’enorme conflitto di interessi tra amministratori e concessionari, evidente anche oggi. Le cave sono pubbliche, vengono date in concessione ai cavatori che pagano canoni di locazione ai comuni. Ma in quasi tutte le amministrazioni della valle i cavatori sono anche sindaci, assessori o consiglieri comunali. I controlli erano sporadici, prevedibili, i canoni irrisori e i guadagni alti.

I dieci anni tra il 1985 e il 1995 furono gli unici in cui a Lona Lases ci fu un’amministrazione non controllata dai cavatori, che infatti alzò i canoni di concessione. Nell’aprile del 1986 l’auto dell’allora assessore alle cave, un’Alfetta, venne bruciata nella piazza del municipio durante un consiglio comunale. Un mese dopo 12 chili di tritolo vennero fatti esplodere vicino alla casa dello stesso assessore.


Walter Ferrari ha 62 anni e una folta barba ormai bianca. Abita a Sevignano in una casa che si è costruito da solo. Qualcuno lo chiama “el pegoraro” perché fa l’allevatore: è stato quasi costretto a diventarlo dopo anni di lavoro nelle cave, dove ha fatto un po’ di tutto. Qui tutti lo conoscono perché è tra i fondatori del Coordinamento lavoro porfido, un comitato di lavoratori nato nel 2014 per raccogliere le segnalazioni di sfruttamento e irregolarità. È difficile che una pietra si muova senza che il comitato lo venga a sapere. Quando sono state pubblicate le intercettazioni e i risultati delle indagini, Ferrari non si è sorpreso più di tanto: erano la conferma di un piano che lui e i suoi compagni avevano scoperto da tempo.

Walter Ferrari del Coordinamento lavoro porfido (foto Il Post)

Ai cavatori, spiega Ferrari, andava bene che in zona ci fossero persone e organizzazioni che tenevano sotto controllo le amministrazioni e i lavoratori. La situazione è peggiorata e per certi versi è arrivata a essere fuori controllo dal 1993, quando il lavoro cominciò a essere esternalizzato e i diritti dei lavoratori compressi.

Fu l’anno di una durissima vertenza chiamata delle “trancette”, il macchinario utilizzato per ricavare cubetti di porfido dalle lastre più grandi. Nelle trancette un grande maglio cadeva continuamente sulla lastra di porfido e la batteva contro una superficie tagliente. I lavoratori dovevano spostare la pietra a mano. Era molto facile farsi male, il macchinario era rumoroso e produceva una grande quantità di polvere di silice che veniva respirata e poteva causare una malattia chiamata silicosi. Nel 1993 la magistratura ordinò il sequestro di tutti i macchinari. Sul mercato c’erano già trance a pressione idraulica, meno pericolose, ma i cavatori non le compravano sostenendo che avrebbero rallentato la produzione.

Esponenti locali della Lega Nord sfruttarono il malcontento degli imprenditori e dei lavoratori. Poco dopo il sequestro dei macchinari, il senatore Erminio Boso si presentò in una cava di Albiano e tagliò i sigilli. Cavatori e operai uniti manifestarono sotto il palazzo della provincia di Trento per chiedere la revoca del fermo. Volevano tornare a lavorare. Ne nacque un compromesso che portò alla trasformazione di parte dei dipendenti in artigiani e false partite IVA.

Le aziende si alleggerirono dei costi, gli addetti del settore formalmente diminuirono, ma la produzione totale crebbe da 1,2 a 1,7 milioni di tonnellate all’anno. Gli operai pagavano l’affitto per postazioni e macchinari, compravano il materiale grezzo con l’obbligo di rivendere i cubetti o le lastre al cavatore.

L’organizzazione del lavoro si basa sul cottimo individuale: oltre i 28 quintali di porfido prodotto si viene pagati a cottimo, cioè in base ai risultati ottenuti. Un operaio può arrivare a lavorarne 100 quintali in un giorno, ma molto dipende dalla qualità del materiale che riceve dall’imprenditore. Con questo sistema si assicurarono i guadagni per i lavoratori, tenendoli a bada. Ma, dice Ferrari, «in questa ampia zona grigia è stato semplice mascherare illeciti: false fatturazioni, evasione fiscale, anche traffico di droga. Non c’erano controlli e per gestire i lavoratori – per lo più stranieri – serviva un potenziale di violenza, spesso solo minacciato attraverso intimidazioni, ma molto convincente».

Il Coordinamento lavoro porfido ha denunciato in più occasioni anche il comportamento dei sindacati confederali, che negli ultimi trent’anni hanno tollerato il fatto che non venissero rispettati i diritti. Anzi, il Coordinamento sostiene che i sindacati abbiano avuto un ruolo nel mantenimento del sistema di potere perché dal 2010 hanno convinto i lavoratori a firmare accordi di conciliazione con le aziende per i pagamenti arretrati. In questo modo hanno consentito ai cavatori di tenere le concessioni, da revocare per legge in caso di irregolarità nei pagamenti. I sindacati si sono presentati al processo come parte civile, ma non hanno portato lavoratori. Tre lavoratori cinesi ammessi come parte civile e per cui il giudice ha stabilito un risarcimento di 10mila euro a testa sono stati convinti e assistiti dal Coordinamento lavoro porfido.

(foto Il Post)


Marco Galvagni è il segretario comunale di Lona Lases. Il suo ufficio è molto grande, la voce rimbomba. D’altronde nel municipio non c’è quasi nessuno perché il comune è commissariato e quasi tutte le stanze sono vuote. Ai bandi pubblicati per trovare tecnici e personale rispondono in pochi: è complicato trovare qualcuno disposto a prendersi in carico i guai dell’amministrazione. Galvagni ci ha già provato. Nel 2010 iniziò a ricostruire il complesso schema delle proprietà delle cave, i legami tra oltre 400 società, molte delle quali fittizie o con sede in paradisi fiscali. Quando stampò il file con i collegamenti tra le aziende si rese conto che le pagine, una accanto all’altra, formavano un grafico lungo 11 metri.

Secondo Galvagni sono due i segnali evidenti che hanno trasformato i suoi sospetti in certezze. All’inizio di maggio del 2014 la polizia doganale spagnola fermò un carico di porfido spedito da Puerto Madryn, una città della Patagonia, in Argentina. Era destinato in val di Cembra: molti imprenditori trentini avevano comprato terreni in quelle zone per sfruttare le cave argentine. Oltre al porfido, la polizia doganale trovò 200 chili di cocaina pura. La notizia suscitò un certo clamore in Argentina e in Spagna. In Italia, invece, le indagini non proseguirono e nonostante tutti gli indizi portassero alla val di Cembra non si riuscì a ricostruire la destinazione del carico di droga.

Il secondo segnale riguardava Giuseppe Battaglia. «Mi sono ritrovato una persona che era stato assessore nel mio comune coinvolto nel caso di un’azienda spolpata dalla ’ndrangheta»: Galvagni fa riferimento alla Marmirolo Porfidi Srl, una cava in provincia di Mantova. Nel 2005 Battaglia, nel periodo in cui era assessore, ne acquistò il 25 per cento delle quote. Nel 2009 nella società entrarono Antonio e Cesare Muto, per soli tre mesi. Antonio Muto è un esponente della ’ndrangheta attiva in Emilia-Romagna, storicamente legata alla cosca di Cutro. Nel dicembre dello stesso anno Battaglia si dimise da amministratore unico poco prima del fallimento dell’azienda. Il 7 maggio del 2022 Antonio Muto venne condannato in via definitiva a 10 anni e 8 mesi di carcere nell’ambito del processo Aemilia, il più grande processo per associazione mafiosa al Nord.

A Lona Lases nessuno vuole parlare del processo. Molti sono convinti che sia un’esagerazione dei magistrati, che tutto sommato quel sistema garantisse soldi e stipendi. «Qui tutti vivono direttamente o indirettamente nel settore del porfido», dice Galvagni. «Quando ci sono stati gli arrestati c’è stato più che altro imbarazzo, non sorpresa».

Joshua De Gennaro, giornalista del mensile Questotrentino e autore insieme a diversi colleghi di un lungo e meritorio lavoro di inchiesta che ha contribuito a svelare molti dei legami criminali, sostiene che tra gli abitanti della valle non ci sia la consapevolezza di quanto siano state pervasive le infiltrazioni della ’ndrangheta nell’economia e nella società. «Forse perché gli accusati non sono andati in giro con le pistole: è stata un’infiltrazione silente», dice. «E poi perché gli episodi di violenza sono stati fatti quasi solo contro lavoratori stranieri. I cinesi per primi non hanno capito la differenza tra essere sfruttati ed essere sfruttati dalla ’ndrangheta. Nei primi anni del loro insediamento sono mancati procuratori e forze dell’ordine abituate a individuare questo tipo di fenomeno attraverso il collegamento dei singoli episodi».

Questa lacuna c’è stata nonostante alcuni esponenti del sistema criminale fossero noti e agissero in piena vista. Giulio Carini, imprenditore calabrese, è accusato di essere il punto di raccordo tra Innocenzio Macheda e istituzioni politiche, economiche, oltre che con la magistratura. Organizzava cene a base di capra calabrese a cui partecipavano esponenti di spicco delle istituzioni trentine.

(foto Il Post)

L’ascolto delle conversazioni di Carini, spiegano i magistrati nei documenti allegati al processo, ha documentato gli innumerevoli contatti e la sua frequentazione con soggetti istituzionali: un ex prefetto di Trento, un vicequestore della polizia, un capitano dei carabinieri, giudici del tribunale, personalità della politica, un primario dell’ospedale Santa Chiara e altri ancora.

Nelle ultime quattro elezioni a Lona Lases non è stato eletto il sindaco e il comune è stato commissariato. O non si è presentato nessuno oppure non è stato raggiunto il quorum, come lo scorso maggio quando la lista di Pasquale Borgomeo, ex poliziotto, è stata votata dal 31,9 per cento degli aventi diritto. Nessuno si fida più. Il comune è stato commissariato ancora per un anno.

Nel frattempo l’economia del porfido è entrata in una fase di declino. Nel 2000 le cave di porfido attive in tutta la provincia di Trento erano 93: venivano estratti 1,4 milioni di tonnellate all’anno per un valore complessivo di 80,1 milioni di euro. All’epoca gli addetti erano 1.253. Gli ultimi dati aggiornati al 2021 dicono che i lavoratori sono 489, le cave sono 61: estraggono 639mila tonnellate all’anno per un valore di 37,3 milioni di euro.

I sindacati hanno proclamato uno sciopero per chiedere il rinnovo del contratto, fermo da circa 6 anni, e un aumento di 200 euro in busta paga. Le aziende sono disposte a concederne 80. Nella mensa dei lavoratori di Albiano si mangia in silenzio, qualcuno borbotta. Gli unici giovani sono stranieri. Hanno tutti la faccia e le mani segnate dalla fatica. Con il processo “Perfido” nelle fasi finali nessuno vuole parlare.

La mensa dei lavoratori del porfido ad Albiano (foto Il Post)

Innocenzio Macheda ha scelto il rito ordinario, le accuse nei suoi confronti saranno discusse nei prossimi mesi. Nel febbraio del 2022 Saverio Arfuso è stato condannato a 10 anni e 10 mesi di carcere, pena diminuita in appello a 8 anni, 10 mesi e 20 giorni. Mustafà Arafat ha patteggiato la pena di 2 anni così come Giuseppe Paviglianiti, di un anno e sei mesi. Lo scorso dicembre Domenico Morello e Pietro Denise sono stati condannati rispettivamente a 10 e 8 anni di carcere con rito abbreviato.

Giovedì alle 15:30 il giudice ha condannato Giuseppe Battaglia a 12 anni di carcere, la moglie Giovanna Casagranda a 9 anni e 4 mesi, il fratello Pietro Battaglia a 9 anni e 8 mesi, Mario Giuseppe Nania a 11 anni e 8 mesi, Domenico Ambrogio a 8 anni, Antonino Quattrone a 8 anni e 8 mesi, Demetrio Costantino a 10 anni, Federico Cipolloni a 6 anni e 8 mesi.