Cosa si sa della proposta delle opposizioni sul salario minimo

Dovrebbe prevedere una retribuzione minima di 9 euro l'ora, e la discussione sta coinvolgendo anche sindacati, datori di lavoro e governo

Il presidente del M5S Giuseppe Conte con la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein durante una manifestazione organizzata dal Movimento 5 Stelle contro il lavoro precario 
(Ansa/Fabio Frustaci)
Il presidente del M5S Giuseppe Conte con la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein durante una manifestazione organizzata dal Movimento 5 Stelle contro il lavoro precario (Ansa/Fabio Frustaci)
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I principali partiti di opposizione – Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Azione, +Europa, Alleanza Verdi e Sinistra Italiana, ma non Italia Viva – hanno fatto un accordo su un salario minimo legale e si sono impegnati a presentare presto una proposta di legge condivisa in parlamento. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non avere un salario minimo stabilito dalla legge: se ne ritorna a parlare ciclicamente e nel tempo ci sono state anche varie proposte di legge per introdurlo. In linea di principio gran parte della sinistra e dei sindacati è favorevole, mentre la destra è storicamente più scettica. Anche quando c’erano i presupposti politici per l’approvazione di una legge però non se n’è mai fatto niente, perché la discussione si complica e si arena nel momento in cui si arriva a discutere dei dettagli pratici.

E i dettagli pratici sono molto importanti, a partire dalla cifra a cui sarà fissato: il salario minimo consiste proprio in una soglia minima decisa su base oraria o mensile che deve essere garantita ai lavoratori e alle lavoratrici. Non può essere ridotta attraverso un accordo collettivo o privato, quindi consiste di fatto in un limite di retribuzione sotto al quale il datore di lavoro non può scendere senza violare la legge.

Quello che si sa finora sulla proposta di salario minimo da parte delle opposizioni è ancora molto generico, perché deve ancora essere presentata in Parlamento. La soglia minima dovrebbe essere fissata a 9 euro lordi all’ora, che andrà applicata non solo ai lavoratori dipendenti ma anche a quelli con contratti meno stabili, come i lavoratori subordinati, e agli autonomi. Il minimo orario sarà poi aggiornato periodicamente da una commissione costituita appositamente. Uno degli aspetti che vanno chiariti in merito alla proposta, però, è quali siano le quote comprese nei 9 euro all’ora: infatti se in questa soglia rientrassero anche la tredicesima e il TFR, il trattamento di fine rapporto, il rischio sarebbe addirittura di un peggioramento delle condizioni attuali.

Il salario minimo proposto sarà una tutela aggiuntiva e non sostituirà i contratti collettivi nazionali, ossia contratti standard diffusissimi in Italia e negoziati a livello nazionale per le varie categorie dai sindacati, le organizzazioni che rappresentano i lavoratori, e dalle associazioni datoriali, che rappresentano le aziende. Questi contratti stabiliscono le condizioni di base del rapporto di lavoro, come gli orari, le ferie e anche la retribuzione minima per ogni livello contrattuale, che normalmente varia a seconda del ruolo e dell’esperienza richiesta, e lo fanno per i vari settori: il commercio, l’industria e via così. La proposta di legge delle opposizioni non dovrebbe intaccare il ruolo di questi contratti nel caso prevedano condizioni retributive migliori del salario minimo.

La proposta prevede anche che per un primo periodo lo stato eroghi delle somme a compensazione per le aziende che sosterranno dei costi aggiuntivi per adeguare gli stipendi.

Da questo accordo per una proposta di legge condivisa è rimasta fuori Italia Viva, uno dei vari partiti di opposizione che per una serie di motivi legati ai dettagli tecnici, ma anche per questioni politiche, ha preferito non aderire: come ha spiegato in un lungo tweet il deputato Luigi Marattin, Italia Viva non è d’accordo sull’importo di 9 euro e avrebbe altre proposte da portare avanti in materia; in più il partito non vorrebbe condividere una posizione comune con alcuni dei partiti dell’opposizione, per via delle divergenze su altri temi: in particolare, dice Marattin, con PD, Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana.

Il governo ha già detto di essere contrario alla proposta. In un’intervista data lunedì al Corriere della Sera la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto di non essere «convinta che al salario minimo si possa arrivare per legge» e che il governo preferisce lavorare nel «favorire una contrattazione collettiva sempre più virtuosa, investire sul welfare aziendale, agire su agevolazioni fiscali e contributive, stimolare i rinnovi contrattuali». Già nel fine settimana la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone aveva commentato la proposta proprio in questi termini.

Confindustria, la principale associazione italiana dei datori di lavoro, è storicamente contraria a un salario minimo fissato per legge, ma da alcune dichiarazioni dei suoi dirigenti sembra che potrebbe essere favorevole a parlarne. «I nostri contratti sono tutti superiori. Se prendiamo ad esempio i metalmeccanici di terzo livello il prezzo è di undici euro. L’industria non è vero che paga poco ma paga il giusto» ha detto Carlo Bonomi, presidente di Confindustria.

Dall’altra parte i sindacati non hanno una posizione univoca e sul salario minimo i due più grandi – CGIL e CISL – divergono storicamente. La CISL è un sindacato di area cattolica che da sempre preferisce puntare sulla contrattazione collettiva. La CGIL ha invece un approccio più politico, anche se comunque ha avuto storicamente un approccio piuttosto prudente su un salario minimo.

Finora le discussioni sui possibili effetti del salario minimo in Italia sono state approfondite in modo parziale. Ma la diminuzione dei salari registrata negli ultimi anni, il precariato e i problemi di accesso al lavoro di alcune fasce della popolazione, come i giovani e le donne, hanno portato diversi politici ed economisti a sostenere l’esigenza di cambiare o rafforzare il sistema attuale di tutele contrattuali. L’inflazione ha poi peggiorato ulteriormente le cose per chi ha un reddito fisso, erodendone il potere d’acquisto.

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Il fatto che in Italia non ci sia un salario minimo legale non significa che non ci siano sostanzialmente dei minimi retributivi, anzi. La maggior parte dei rapporti di lavoro tra aziende e dipendenti è regolata tramite l’uso dei contratti collettivi nazionali, che sono appunto quelli che vengono concordati e firmati tra i rappresentanti dei lavoratori e i datori di lavoro. Tipicamente ogni settore ha un suo contratto, che, tra le altre cose, stabilisce un minimo salariale. In Italia sono quasi mille e di fatto regolano la quasi totalità dei rapporti regolari di lavoro dipendente. Un’indagine della fondazione Adapt ha stimato che, escludendo chi lavora nell’agricoltura e nel lavoro domestico, i lavoratori coperti dai contratti collettivi sono il 97 per cento del totale: gli esclusi sarebbero tra 700 e 800mila.

Questo sistema però ha diversi problemi: per esempio consente ai datori di lavoro di applicare contratti chiamati “pirata”, negoziati da sindacati poco rappresentativi, con l’obiettivo di pagare di meno lavoratrici e lavoratori, un metodo molto diffuso per esempio nella logistica. Questi piccoli sindacati fanno concorrenza ai sindacati maggiori e nel tempo hanno negoziato contratti al ribasso. Secondo una ricerca della Fondazione Di Vittorio, nel 2022 solo 207 su 894 contratti del settore privato depositati sono firmati da CGIL, CISL e UIL, i sindacati di gran lunga più rappresentativi.

Un numero così alto di contratti collettivi nazionali causa confusione e molte possibilità di equivoco: i lavoratori difficilmente riescono a sapere a quale compenso minimo hanno diritto e i giudici fanno fatica a capire qual è il salario equo da far valere in caso di contenzioso.

I sostenitori del salario minimo pensano che sia una misura utile per garantire più certezze per i lavoratori e meno disuguaglianze, oltre che una retribuzione dignitosa senza più differenze tra settori o posizioni.

Ma negli ultimi anni il salario minimo ha spesso trovato numerose resistenze sia da parte degli imprenditori sia da parte dei sindacati. I primi temono che l’aumento del costo del lavoro (cioè l’ammontare complessivo delle spese sostenute da un’azienda per i suoi lavoratori, che comprende salari, imposte e altre spese) metta le loro aziende fuori mercato nei confronti di quelle estere. Secondo uno studio del 2019 citato dal Sole 24 Ore, con un salario minimo di 9 euro lordi l’ora il costo medio del lavoro aumenterebbe del 20 per cento. I sindacati, invece, temono che possa comportare una riduzione del loro coinvolgimento nelle contrattazioni tra lavoratori e aziende, con conseguenze negative per i dipendenti.

Uno degli effetti più concreti dell’introduzione della soglia sarebbe un aumento della retribuzione per milioni di lavoratori. Secondo i dati diffusi dal presidente dell’INPS Pasquale Tridico, in Italia sono 4,5 milioni i lavoratori e le lavoratrici che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora. Questi lavoratori si concentrano in settori come la logistica, la ristorazione, il turismo, i beni culturali e l’assistenza alle persone. Al di sotto della soglia di 9 euro si trova il 38 per cento dei giovani, il 16 per cento degli over 35 anni, il 21 per cento degli uomini e il 26 per cento delle donne.

Come detto, la proposta di introdurre un salario minimo riemerge periodicamente nel dibattito politico italiano. L’aveva avanzata Matteo Renzi nel 2018, quando era segretario del Partito Democratico, poi il suo successore Nicola Zingaretti l’anno successivo, e in entrambi i casi non se n’era fatto nulla. La proposta era stata ripresa nel 2021 dal segretario della CGIL Maurizio Landini. Da tempo in Parlamento sono depositate numerose proposte di legge per introdurre un salario minimo, che di fatto provengono da tutto lo spettro politico. Sulla carta, quindi, esiste un’ampia parte dei partiti politici favorevole all’introduzione del salario minimo, ma poi sui dettagli la discussione diventa complicata.

Al dibattito aveva dato un nuovo impulso la direttiva europea sul salario minimo, entrata in vigore nell’autunno del 2022. La legge europea non stabiliva l’obbligo per tutti i paesi di dotarsi di un salario minimo legale, ma semplicemente una serie di criteri e procedure che i paesi dovrebbero seguire per garantire salari adeguati. La direttiva si poggia su due insiemi di regole: il primo serve a garantire salari minimi adeguati e si rivolge ai paesi che hanno un salario minimo per legge, quindi non all’Italia; l’altra promuove la contrattazione collettiva in materia salariale, in particolare in quei paesi in cui la percentuale di lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva è inferiore all’80 per cento.

La direttiva europea ha quindi scarse conseguenze pratiche, ma secondo molti ha rappresentato un segnale dal punto di vista politico, perché fino a pochi anni fa in ambiente europeo i principi cardine della discussione erano flessibilità salariale e decentralizzazione delle contrattazioni. Oltre all’Italia, il salario minimo non c’è in altri quattro paesi – Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia – sui 27 dell’Unione Europea. Le differenze tra i diversi paesi che lo prevedono sono notevoli, così come lo è il costo della vita: si passa dai 332 euro mensili previsti in Bulgaria ai 2.257 del Lussemburgo.

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