È un anno interessante e complicato per la Biennale di Venezia

La sua mostra di architettura propone idee per un futuro equo e sostenibile, ma per i critici manca proprio l'architettura e una contestazione viene fatta anche da un suo padiglione

di Pietro Cabrio

All'interno del padiglione austriaco alla Biennale di Venezia (Il Post)
All'interno del padiglione austriaco alla Biennale di Venezia (Il Post)
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Il 20 maggio si è aperta a Venezia la 18ma Mostra Internazionale di Architettura organizzata dalla Biennale, la fondazione che comunemente dà il suo nome alle esposizioni. La mostra si divide come al solito grossomodo tra le due sede principali, i Giardini di Castello e l’Arsenale, e poi negli altri spazi espositivi tra Venezia, le isole della laguna e la terraferma. Rimarrà aperta fino al 26 novembre.

L’esposizione principale di quest’anno è curata dall’architetta e docente scozzese di origini ghanesi Lesley Lokko e si intitola The Laboratory of the Future. È stata allestita con lo scopo di «proporre idee ambiziose e creative che ci aiutino a immaginare un futuro in comune più equo e ottimistico» ed espone prevalentemente opere della produzione architettonica africana e della cosiddetta diaspora africana, cioè legata alla secolare migrazione dei popoli africani verso altri continenti.

Più della metà degli 89 partecipanti alla mostra The Laboratory of the Future viene dall’Africa o ha origine africane, e nel complesso le opere esposte sono state realizzate prevalentemente da studi individuali o da gruppi di lavoro di piccole dimensioni. La mostra si divide tra il padiglione centrale ai Giardini, dove sono esposti modelli concreti di architettura africana, e l’Arsenale, dove le opere sono più concettuali e inerenti alla decolonizzazione e alla decarbonizzazione, i due temi proposti più di frequente.

La mostra The Laboratory of the Future è affiancata come da tradizione dalle partecipazioni nazionali, che quest’anno sono 64 e si dividono tra i padiglioni distribuiti tra i Giardini, l’Arsenale e il centro storico di Venezia. I tanti luoghi della Biennale permettono di vivere la mostra in modo personale, anche per i non esperti del settore, fra esperienze diverse ma tutte collegate tra di loro, in qualche modo. Trattandosi poi di un’esposizione di architettura, quest’anno gli stessi padiglioni sono al centro dei lavori.

(AP Photo/Antonio Calanni)

I curatori del padiglione svizzero, per esempio, non espongono nulla che provenga dall’esterno. Hanno infatti pensato di aprire e collegare il loro padiglione, progettato nel 1952 dall’architetto svizzero Bruno Giacometti, a quello adiacente venezuelano, progettato nello stesso periodo dal veneziano Carlo Scarpa, perché insieme «formano un esempio straordinario di qualità architettonica e sculturale». Per farlo hanno demolito un muro che li divideva e con i mattoni hanno fatto delle panchine; sono state tolte anche le grate che chiudevano la struttura dopo gli orari di chiusura, cosa non più necessaria visto che all’interno non c’è nulla, solo le grate rimosse e trasformate in materiale espositivo.

Un altro padiglione già di per sé piuttosto caratteristico, quello giapponese, è stato ripensato in modo però da mantenere intatta la struttura originaria progettata nel dopoguerra dall’architetto Takamasa Yoshizaka. Al piano terra è stata allestita una distilleria di profumi che utilizza come materia prima la vegetazione dei Giardini della Biennale, mentre nella parte superiore è illustrata la storia del padiglione, con schizzi, progetti, foto e anche testimonianze degli operai italiani che lo realizzarono in collaborazione con Yoshizaka.

Il padiglione olandese è diventato invece un laboratorio che durante i mesi di esposizione sarà una struttura sempre più sostenibile fino a utilizzare le acque piovane raccolte e trattate al suo interno, anche con sistemi e filtri che espone al pubblico. Nel vicino padiglione belga, sempre ai Giardini, viene proposto invece l’utilizzo di materie vive, come l’apparato vegetativo dei funghi, per funzioni architettoniche.

Il padiglione italiano si trova invece all’Arsenale e ospita la mostra Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri del collettivo Fosbury Architecture, selezionato tramite un concorso pubblico. Contiene gli studi di vari progettisti riguardanti «azioni concrete a beneficio di territori e comunità locali» applicate in particolare alle opere incompiute. Altre testimonianze concrete, ma del passato, sono esposte al padiglione sloveno, che illustra i metodi usati storicamente nelle abitazioni europee per adattarsi alle stagioni, e in particolare al freddo, come la riduzione degli spazi abitati e la concentrazione delle attività lavorative e quotidiane. L’esposizione finlandese mette invece al centro la necessità di reinventare le infrastrutture igienico-sanitarie, e perciò rappresenta “la morte dello sciacquone” con sanitari proposti come reperti archeologici e un ipotetico documentario realizzato sui nostri modi di vivere visti dal 2043.

Nei padiglioni viene dato spazio anche a temi locali, sempre tramite interventi strutturali, come nel caso di quello austriaco. Con il progetto Partecipazione/Beteiligung il collettivo AKT & Hermann Czech ha ripreso lo slogan di una delle rivendicazioni più note fatte a Venezia negli anni Settanta, che chiedevano una Biennale più democratica e aperta alla cittadinanza, per proporre la conversione del padiglione da funzione esclusivamente espositiva a spazio ad uso della comunità locale.

Il progetto rifiutato del padiglione austriaco

I piani iniziali prevedevano la parziale chiusura della struttura verso la Biennale e il collegamento tramite un ponte al quartiere residenziale di Sant’Elena, che sta proprio dietro ai Giardini ed è una delle ultime zone della città rimaste estranee o quasi ai flussi turistici. La Biennale e le autorità locali, però, non ha approvato il progetto, e così il padiglione, oltre a esporre i cantieri rimasti incompiuti, illustra ai visitatori la questione del costante aumento di spazi tolti alla cittadinanza e adibiti al «turismo culturale a pagamento», specialmente nell’area dell’Arsenale.

Si può leggere in uno dei pannelli esposti: «Dal 1980 in poi la Biennale ha continuamente ampliato i propri spazi. Queste destinazioni d’uso sono diventate oggetto di critiche da parte di varie iniziative civiche, che da anni chiedono un attraversamento pubblico dell’area e la sua apertura alla popolazione locale».

Questa contestazione alla Biennale ospitata dalla Biennale stessa è una delle tante questioni con cui la fondazione ha dovuto fare i conti quest’anno, più che nei precedenti. A pochi giorni dall’apertura, per esempio, la curatrice Lokko aveva raccontato di aver avuto problemi con l’ambasciata italiana in Ghana, che aveva negato il visto a tre suoi collaboratori. La notizia era stata a lungo discussa e messa in contrasto con i temi della mostra, ma secondo l’ambasciatrice italiana in Ghana i tre collaboratori di Lokko non avevano i requisiti necessari per poter entrare legalmente in Italia.

Altre questioni, più sui contenuti della mostra, sono state sollevate invece da critici ed esperti del settore. L’architetto tedesco Patrik Schumacher, a capo dello studio fondato da Zaha Hadid, sostiene per esempio che nell’esposizione manchi una cosa essenziale: l’architettura. Schumacher ha parlato di «una biennale anti-architettura», che per questo rischia di perdere il suo ruolo di principale evento globale per il settore.

Dall’opinione di Schumacher sono nate poi altre critiche piuttosto dure e riflessioni su quanta architettura ci debba essere in una mostra d’architettura. Artribune ha scritto: «La Biennale di Architettura, sembrerebbe ovvio sostenerlo, non è un evento di sociologia, di arte o di altro. Racconta lo stato della ricerca disciplinare, il modo con il quale gli architetti affrontano e tentano di risolvere, attraverso lo spazio della costruzione, della città e del territorio, i problemi che pone loro la società. Non è detto che siano presentate solo o prevalentemente realizzazioni, spesso le idee migliori rimangono sulla carta. Ma di progetti si deve parlare».

Questa sorta di avvicinamento della Mostra di Architettura all’Esposizione d’arte — che a Venezia si alternano di anno in anno — era però stata presentata e difesa alla sua apertura dal presidente della Biennale, Roberto Cicutto, che aveva spiegato: «Quando su mia proposta la Biennale ha approvato la nomina di Lesley Lokko quale curatrice della Mostra di Architettura, la principale ragione della scelta stava nel dare la parola a una voce che veniva dall’esterno del mondo nord-occidentale, e soprattutto a una persona che si occupasse di architettura più in sintonia con i tempi».

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