“The Truman Show”, venticinque anni dopo

Ancora oggi citato e discusso, sembra aver anticipato alcuni temi molto attuali senza necessariamente volerlo fare

La scena finale di The Truman Show
La scena finale di The Truman Show
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Scritto da Andrew Niccol, diretto da Peter Weir e interpretato da un acclamato Jim Carrey per la prima volta in un ruolo drammatico, The Truman Show è un film con una trama tutto sommato semplice. Truman Burbank è un assicuratore che conduce una vita serena e senza pretese sulla placida isola di Seahaven finché non viene assillato dal sospetto sempre più solido che la sua vita non sia davvero ciò che sembra. All’inizio del film Truman è totalmente all’oscuro del fatto che milioni di persone seguano la sua vita in diretta da quando è nato: un’emittente televisiva l’ha infatti adottato dopo una gravidanza indesiderata e da allora ha plasmato la sua realtà, facendolo crescere in un enorme set con centinaia di telecamere e pagando attori e comparse per interpretare i suoi genitori, i suoi amici, persino sua moglie.

Nei venticinque anni dalla sua prima proiezione, l’1 giugno 1998, The Truman Show ha però ispirato decine di elucubrazioni sul suo significato più profondo. Un’interpretazione moderna del mito della caverna di Platone? Un’esplorazione della psiche umana e della necessità di sviluppare un’identità matura e autentica, crescendo? Una storia distopica che esplora il tema della sorveglianza? L’espletazione della teoria secondo cui la realtà è effettivamente una simulazione in cui siamo intrappolati? Tutto questo? Nulla di tutto questo?

Negli ultimi anni vari articoli giornalistici e accademici dedicati a The Truman Show l’hanno descritto come un’opera “profetica”, che avrebbe anticipato in tempi non sospetti diverse tendenze tecnologiche e sociali odierne come la pervasività dei reality show, l’enorme attenzione attratta da persone comuni che mostrano la propria vita quotidiana sui social network e la monetizzazione di questa attenzione, e in senso più ampio il capitalismo della sorveglianza, ovvero l’attuale modello economico perpetuato principalmente dalle grandi aziende tecnologiche che si basa sulla raccolta e la vendita massiccia di quanti più dati personali possibili.

Un esempio specifico spesso riportato è il fatto che gli attori presenti nel Truman Show inserissero le pubblicità ai vari prodotti nel bel mezzo delle proprie conversazioni con il protagonista, dato che lo “show” all’interno del film va in onda 24 ore su 24 senza interruzioni pubblicitarie: c’è chi assimila questo dettaglio del film alle pubblicità inserite dagli influencer nei propri contenuti social, inizialmente pensati per dare uno spaccato delle loro vite e dei loro gusti autentici. «Oltre a prevedere la mania verso la reality TV, The Truman Show ha previsto anche la moderna pratica del product placement, le ricorrenti invasioni della privacy e il dilemma esistenziale di vivere per se stessi o per un pubblico, che sia in televisione o sui social media», ha scritto su Vanity Fair Julie Miller.

«Quando uscì The Truman Show, sembrava deliziosamente inverosimile. Il Grande Fratello non aveva ancora rivolto il proprio sguardo sugli Stati Uniti. Google era ancora limitata a un garage. I telefoni cellulari erano pensati effettivamente per le telefonate», ha scritto il giornalista Darryn King su Wired. Oggi «sembra di stare nel Truman Show» è una battuta quasi scontata, come «sembra di stare in 1984» riferendosi al romanzo distopico di George Orwell: l’ha detto il principe Harry parlando del rapporto tra i media britannici e la famiglia reale, ma anche il senatore statunitense John Kennedy parlando dello scandalo di Cambridge Analytica nel 2018.

Quando Niccol ha cominciato ad approcciarsi al film con il regista Peter Weir, però, nessuno sembrava pensare di star lavorando a una profezia. Weir pensava anzi che fosse «una magnifica storia di fantasia speculativa», e un po’ si preoccupava che le premesse non fossero credibili, perché vari amici gli avevano detto che nessuno sarebbe stato così interessato a seguire la vita quotidiana di qualcun altro nella vita reale. Anche l’attrice Laura Linney, che nel film interpreta la moglie di Truman, ha raccontato che sul set «ridevano di quanto la storia sembrasse irrealistica». «Non riuscivamo a credere che qualcuno potesse registrare la vita di qualcun altro e che la gente potesse volersi sintonizzare a guardare contenuti che all’epoca erano considerati banali, e considerare il tutto intrattenimento», ha detto Linney.

Il film nasceva piuttosto da un’inquietudine personale con cui Niccol convive fin da piccolo, e che nemmeno da adulto, anni dopo la produzione di The Truman Show, l’ha abbandonato: quello di essere intrappolato in uno show insieme ad attori poco credibili e materiali scadenti.

Jim Carrey, invece, disse di aver accettato perché si sentiva a modo suo un po’ Truman: aveva da poco raggiunto lo status di celebrità per una serie di ruoli comici molto riusciti e stava faticando moltissimo a far pace con l’idea di essere costantemente seguito dai paparazzi. «Posso basarmi facilmente sulle emozioni che provo davvero», avrebbe detto al regista: «anch’io mi sento un prigioniero». Niccol e Weir pensavano che fosse talmente perfetto per il ruolo che aspettarono un anno per averlo, dato che Carrey aveva dei film che doveva prima finire. Una delle frasi più memorabili del film – «Casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!» – fu una sua intuizione.

Nella prima versione della sceneggiatura, riscritta poi almeno 16 volte secondo le ricostruzioni, il film doveva essere ambientato a New York e con tratti molto più inquietanti: il protagonista era un alcolista «emotivamente alienato» che tradiva la moglie con una prostituta senza sapere che milioni di persone lo stavano guardando. Finiva per minacciare la vita di un bambino nel tentativo di farsi dire la verità su ciò che gli stava succedendo.

Tra i registi presi in considerazione c’erano Brian De Palma, noto per thriller di culto come Scarface e Carrie, e David Cronenberg, maestro dell’horror surrealista. Ma Weir, che aveva già lavorato a L’attimo fuggente, pensava che il tono cupo e l’ambientazione newyorchese rendessero il soggetto ancora meno credibile: «Perché milioni di persone dovrebbero sintonizzarsi 24 ore su 24, 7 giorni su 7 su qualcosa di cupo e deprimente?». Così New York è diventata una tranquilla cittadina balneare e Truman è stato trasformato in un sognatore che da piccolo voleva fare l’esploratore, prima che un insegnante gli tarpasse le ali dicendo che «non è più rimasto niente da esplorare».

«Non è assurdo dire che se De Palma non si fosse dimesso, e se Cronenberg non avesse poi rifiutato la proposta, o se la società di produzione avesse dato il via libera alla sceneggiatura originale, The Truman Show sarebbe stato un film molto più cupo e terrificante», ha scritto la giornalista Meg Sipos. «Weir l’ha alleggerito, vi ha infuso più umorismo e ha ambientato la storia in una pittoresca cittadina di mare piuttosto che in una città bagnata dalla pioggia. In tal modo, ci ha regalato una commedia drammatica satirica di enorme qualità, che pur mantiene qualche nota inquietante al suo interno».

Forse la più bizzarra eredità del film, però, è il fatto che abbia prestato il nome a un fenomeno psichiatrico: negli anni immediatamente successivi alla sua uscita, diversi psichiatri riportarono le storie di pazienti deliranti convinti che le loro vite fossero dei reality show allestiti per l’intrattenimento altrui. Molti di loro dicevano esplicitamente di sentirsi proprio come il protagonista del Truman Show.