Le piattaforme di streaming ora fanno la tv tradizionale

I cosiddetti contenuti “unscripted”, come reality, giochi e talent, sono sempre più importanti e redditizi per Netflix, Prime Video e gli altri

(Love Is Blind / Adam Rose/Netflix © 2022)
(Love Is Blind / Adam Rose/Netflix © 2022)

Da ormai quasi un decennio, quando un servizio di streaming vuole guadagnare mercato e nuovi spettatori punta anzitutto su una grande serie tv. Successe per la prima volta nel 2013, quando per farsi conoscere e far capire cosa ambiva a diventare Netflix investì molto su House of Cards, ingaggiando un grande attore hollywoodiano come Kevin Spacey. In tempi più recenti, qualcosa di molto simile lo hanno fatto anche Apple e Disney, scegliendo importanti e costose serie come The Mandalorian e The Morning Show per accompagnare il lancio dei loro servizi di streaming. E continua a succedere, come mostrano gli investimenti e l’attesa per la serie Amazon sul Signore degli Anelli.

Negli ultimi anni, tuttavia, chi si occupa di streaming si è accorto che se è vero che certe serie fanno conquistare nuovi abbonati, tra una serie e l’altra servono anche contenuti di altro tipo, per molti versi simili a quelli della televisione tradizionale. Sono i cosiddetti contenuti unscripted, cioè quelli senza una vera e propria sceneggiatura che degli attori devono recitare.

I contenuti unscripted possono essere tante cose, dal reality al documentario, dai quiz ai talent, dal talk show alla “tv della gente”. Dai programmi di cucina ai documentari di musica basati sulle interviste, dalle competizioni di drag queen condotte da RuPaul alle Cucine da incubo di Antonino Cannavacciuolo, tra gli addetti ai lavori non tutti sono d’accordo su dove mettere esattamente i confini tra cosa è o non è unscripted, anche perché esistono spesso prodotti ibridi, come i cosiddetti “scripted reality”. Ma l’interesse verso questo tipo di contenuti è molto alto in questi anni. Come ha osservato Bloomberg: «nel tentativo di trattenere abbonati volubili e impazienti, i servizi di streaming sono in competizione per quello che si considerava essere un caposaldo della vecchia televisione, col fine di accaparrarsi varie forme di contenuti unscripted».

C’è insomma un grande e generale interesse verso tutti quei programmi o documentari che non sono serie tv: nel mondo e, da un paio di anni, anche in Italia. Dinner Club e LOL, SanPa e Stories of a Generation sono tutti, ognuno a loro modo, contenuti unscripted italiani, adattati o sviluppati da zero da gruppi di persone che se ne occupano specificamente. Il responsabile di Netflix Italia dell’area non-fiction, che comprende le docuserie e i veri e propri unscripted, è Giovanni Bossetti, che li definisce «quelli che sono tradizionalmente e in maniera più semplice i programmi televisivi». La non-fiction, secondo lui, è «di fatto, in un modo o nell’altro, il racconto del reale, quello che succede là fuori».

Perché qualcosa di così profondamente associato alla televisione di un tempo possa andare bene in streaming servono però ragionamenti e accorgimenti. Un conto sono un paio di episodi a settimana di Masterchef o l’appuntamento fisso, ogni sette giorni, davanti a qualche reality show; un altro è proporre un contenuto in streaming, con tutte le puntate disponibili insieme per essere viste una dopo l’altra. Un conto era mostrare, nella tv di qualche anno fa, la versione italiana di un certo programma sapendo che ben pochi avevano visto quello originale già andato in onda in un altro paese. Un altro è fare contenuti unscripted in italiano sapendo che c’è la concreta possibilità che molti abbiano già visto, magari proprio su quella stessa piattaforma, qualcosa di simile se non identico.

Bossetti – che è arrivato agli unscripted di Netflix Italia dopo essersi occupato di produzione televisiva e cinematografica – parla della necessità, per chi fa il suo lavoro, di «porsi questioni di linguaggio», per esempio lavorando sulla struttura del racconto attraverso una particolare «attenzione a come scandire le puntate, a qual è il punto di tensione di ogni episodio». C’è bisogno, prosegue Bossetti, di «applicare strumenti di lavoro del mondo scripted ai racconti del reale, che non devono dimenticare mai che c’è un abbonato che va agganciato e fatto appassionare».

Nel caso delle docu-serie – così come succede per molte serie non documentarie – spesso lo streaming e la possibilità di binge watching tornano comodi perché riescono a rendere più fluido l’evolversi della storia, permettendo agli spettatori di proseguire nella visione puntata dopo puntata avendo più fresco il ricordo di quelle precedenti.

Bossetti è convinto che «nonostante la incredibile tradizione documentaristica italiana», fino a qualche anno fa i documentari venivano in molti casi «percepiti come approfondimenti giusti e dovuti ma spesso un po’ polverosi, che bisognava andare a cercare nei palinsesti a tarda notte». Secondo lui, uno dei meriti dello streaming è insomma di aver dato nuova vita, oltre che nuova forma, ai documentari: «il mondo del racconto di storie vere deve molto ai servizi di streaming; per molti è stata una sorpresa vedere come serie unscripted fossero ugualmente se non a volte perfino più coinvolgenti di serie con la sceneggiatura». Aggiunge poi: «penso sempre a quanto Tiger King sembri un film dei fratelli Coen».

Nel caso di certi contenuti unscripted non documentari, la faccenda è un po’ più complicata. Bossetti cita i casi dei dating show, quelli in cui qualcuno conosce qualcun altro e se va bene ci si innamora, o di programmi che prevedono determinati tipi di competizione. In quei casi, dice, «c’è da capire come un contenuto che nasce per un appuntamento settimanale possa mantenere quello che lo contraddistingue e lo rende forte, ma in un modello di fruizione con una linea orizzontale molto forte». A questo scopo, vengono spesso preferite «durate inferiori e appositi momenti di aggancio tra una puntata e l’altra per una funzione più continua e non ripetitiva».

Bossetti spiega anche di ritenere che – quantomeno nel futuro prossimo – sarà molto difficile vedere su Netflix quiz o comunque programmi con puntate auto-conclusive, con «formati che sono al 100 per cento televisivi, dove servono l’interazione con il pubblico e dove è necessario avere una voluminosa quantità di puntate per costruire l’abitudine».

I motivi per cui Netflix e altri servizi di streaming si stanno interessando sempre più ai contenuti unscripted sono semplici e concreti. Anzitutto, in molti casi contenuti di questo tipo costano meno e si fanno più in fretta rispetto alle serie tv. Se dovesse andare bene, Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere sarebbe un successone per Amazon, sia in termini di abbonamenti che di possibilità di sfruttare per molti anni a venire prodotti e contenuti legati alla serie. Se però dovesse andare male, sarebbe una perdita da centinaia di milioni di dollari. Con le serie senza sceneggiatura si spende molto meno e, a fronte di guadagni magari meno incredibili, si corrono molti meno rischi.

C’è poi il fatto che non tutti, non sempre, vogliono vedere ambiziose serie che sembrano film. Come i servizi di streaming hanno capito ormai da tempo, bisogna offrire anche contenuti più rilassanti, che si limitino a fare compagnia, quasi in sottofondo: possono essere serie, ma anche semplici e poco preziosi contenuti unscripted. Puntando insomma sulla quantità più che sulla qualità. Un altro modo per dirla è che se le grandi serie sono spesso quello che convince qualcuno ad abbonarsi, certi contenuti unscripted sono quello che li convince a restare. È improbabile che molti spettatori si abbonino a Sky apposta per vedere 4 Ristoranti, ma è plausibile che la sua esistenza contribuisca a far sì che molti di loro scelgano di restare abbonati.

Quanto sia però recente l’interessamento di chi fa streaming per l’unscripted – in particolare per tutti i programmi che non sono di natura prettamente documentaristica – lo mostra il fatto che Netflix creò – prima fra le piattaforme – un gruppo di lavoro dedicato soltanto nel 2016. Il primo prodotto puramente unscripted di Netflix, l’ambizioso Ultimate Beastmaster, con atleti da tutto il mondo che si sfidavano in un difficile percorso a ostacoli, durò tre stagioni ma è ricordato come un fallimento.

Altri iniziali tentativi di Netflix di fare programmi più da tv generalista non andarono granché meglio. Poi però arrivarono i primi successi: per esempio con il reality Queer Eye e il programma di cucina Nailed It!, e un po’ più di recente grazie a Facciamo ordine con Marie Kondo e ai dating show Too Hot to Handle e L’amore è cieco.

Ci è voluto poco, come fece notare Bloomberg, per far sì che Netflix diventasse «il più grande acquirente mondiale di contenuti unscripted» e perché altri ne seguissero l’esempio, iniziando a contendersi le idee più promettenti da sviluppare. Come ha detto a Business Insider il produttore Eli Holzman, amministratore delegato di una società che controlla diverse altre case di produzione, il settore dei contenuti unscripted «non è mai stato così bene» e «probabilmente si comprano e commissionano più idee per serie non fiction oggi che in ogni altro momento della storia».

Per quanto riguarda Netflix in Italia, Bossetti parla della volontà di «procedere su un doppio binario», in quanto da una parte c’è la «volontà di cercare idee originali che si muovano nell’alveo di generi conosciuti e che il pubblico ha già dimostrato di apprezzare» e dall’altra, in parallelo, c’è la voglia di «capire se ci possano essere interpretazioni italiane» di cose che già hanno funzionato all’estero. Sta senz’altro sul primo di questi due binari Alessandro Cattelan: Una semplice domanda, che arriverà il 18 marzo con tutte le sue 6 puntate. Netflix lo presenta come un “docu-show”, Bossetti ne parla come di un «docu-follow su Ale [Cattelan] che si fa delle domande, con anche elementi di intrattenimento».

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