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  • Martedì 30 maggio 2023

Cosa ci fanno i militari della NATO in Kosovo

Breve storia della Kosovo Force, che fece il suo ingresso nel paese come “forza militare di pace” dopo la guerra, nel 1999

Soldati della NATO a Zvecan, 12 ottobre 2022 (Ferdi Limani/Getty Images)
Soldati della NATO a Zvecan, 12 ottobre 2022 (Ferdi Limani/Getty Images)
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Ieri alcuni soldati italiani e ungheresi che fanno parte di un contingente NATO chiamato KFOR sono stati feriti durante una manifestazione di protesta a Zvecan, in Kosovo. L’operazione KFOR è attiva in Kosovo dal 12 giugno del 1999: iniziò dopo la conclusione dell’azione militare della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević.

La NATO è un’alleanza militare fondata nel 1949, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, per contrastare l’egemonia dell’Unione Sovietica in Europa. Nel corso della Guerra fredda la NATO è diventata la forza speculare che si opponeva al Patto di Varsavia, l’alleanza fondata nel 1955 e guidata dall’Unione Sovietica. Con il tempo, e soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si è ingrandita e allargata verso est, arrivando a comprendere i paesi baltici ex sovietici e gran parte dei paesi dell’Europa orientale. Durante la Guerra fredda, però, non ha mai condotto operazioni militari. Il primo intervento fu nel 1994, durante la guerra nella ex Jugoslavia, e poi nel 1999 per bombardare la Repubblica Federale di Jugoslavia nel corso della guerra in Kosovo.

Il Kosovo si trova tra Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia ed è grande un po’ più dell’Abruzzo. È il paese più giovane d’Europa e le sei stelle che si vedono sulla sua bandiera rappresentano i sei gruppi etnici che lo abitano: gli albanesi, che sono più del 90 per cento della popolazione, e poi i serbi, i turchi, i gorani, i rom e i bosgnacchi. Nel 1999 l’intervento militare della NATO in Kosovo venne giustificato con la necessità di porre fine a una deliberata campagna di oppressione, pulizia etnica e violenze portata avanti dai serbi contro la popolazione di origine albanese.

Nel 1990, su pressione del governo serbo guidato da Slobodan Milošević, venne abrogata l’autonomia che al Kosovo era stata riconosciuta dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia di Tito. Milošević avviò anche una forte campagna di serbizzazione delle istituzioni kosovare, che causò frequenti scontri tra esercito serbo e milizie e gruppi paramilitari pro indipendenza. Alla fine degli anni Novanta questi scontri si tramutarono in un conflitto.

A partire dal 1996 il movimento militare di separatisti albanesi UçK (sigla che in albanese sta per Esercito di Liberazione del Kosovo) iniziò una serie di azioni di guerriglia, arrivando anche a controllare intere zone del territorio kosovaro. Il 28 febbraio del 1998 l’UçK uccise alcuni ufficiali della polizia serba causando la ritorsione della polizia di Milošević, che lanciò un’offensiva con mezzi pesanti contro numerosi villaggi della Drenica, regione al centro del paese, distruggendoli e uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e bambini. Le immagini dell’eccidio furono trasmesse dai media di tutto il mondo ed ebbero un enorme impatto sull’opinione pubblica, che cominciò a temere che il Kosovo fosse ormai al centro di una pulizia etnica da parte dei serbi.

Nel frattempo i tentativi diplomatici a favore della sovranità del Kosovo portati avanti dal presidente Ibrahim Rugova non andarono a buon fine, così come quelli avviati dalla diplomazia internazionale nella Conferenza di Rambouillet, in Francia: i serbi rifiutarono l’accordo finale che prevedeva, di fatto, il dispiegamento nel loro territorio di una forza di peacekeeping sotto il comando della NATO.

Dopo il fallimento delle vie diplomatiche, il 23 marzo del 1999 il Segretario Generale della NATO Javier Solana diede dunque inizio alle operazioni militari della NATO contro la Serbia, inizialmente senza un mandato specifico del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le ragioni umanitarie dell’intervento furono più volte ribadite sia dalla NATO che dai governi degli stati membri. L’allora presidente del Consiglio italiano, Massimo D’Alema, in un discorso alla Camera dei deputati e poi in un comunicato stampa del 28 marzo disse che era il momento della responsabilità: «Il mio giudizio è che l’intervento militare si è reso necessario e inevitabile», disse. E diede dunque l’autorizzazione all’uso dello spazio aereo italiano per le missioni della NATO mettendo a disposizione, per il conflitto, aerei militari e 19 basi che furono usate per far decollare gli aerei, per la logistica, per la copertura radar oppure per le informazioni meteorologiche.

Il ruolo della NATO in un conflitto esterno ai confini dell’alleanza fu dibattuto allora e in seguito: a chi lo ritenne fondamentale per difendere la popolazione kosovara e per destituire Milošević si oppose chi lo giudicò non necessario, unilaterale e responsabile di una escalation nelle violenze, oltre che causa di estese perdite civili nella popolazione serba. Molto discusso fu anche il ruolo del cosiddetto “fattore CNN”, cioè il peso che ebbero i media nel giustificare e rendere legittimo l’intervento militare. Con l’intervento in Kosovo la NATO portò avanti tra l’altro la sua nuova strategia, cioè la trasformazione dell’alleanza da difensiva a organizzazione promotrice di stabilità e pace anche in territori esterni a quelli dei paesi membri, che era cominciata tre anni prima in Bosnia ed Erzegovina.

L’operazione Allied Force della NATO cominciò la sera del 24 marzo: 80 aerei appartenenti a Canada, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Stati Uniti, Italia, e poi le navi da guerra statunitensi e britanniche dislocate nell’Adriatico iniziarono i bombardamenti e i lanci di missili contro la Serbia. In una prima fase vennero attaccati i radar e le installazioni serbe per la difesa aerea a nord di Pristina e intorno a Belgrado. La seconda fase del conflitto iniziò il 27 marzo ed era diretta alla distruzione delle forze armate serbe. Il 23 aprile gli alleati NATO riuniti a Washington decisero di intensificare gli attacchi. Ebbe così inizio la terza e conclusiva fase della guerra.

I bombardamenti furono diretti anche verso obiettivi non strettamente militari come centrali elettriche, ponti, acquedotti, depositi di carburante, radio e televisioni, provocando nella popolazione serba una sempre crescente avversione nei confronti del regime. I “danni collaterali” di questa terza fase furono parecchi: l’8 maggio, per un errore nell’individuazione del bersaglio, venne colpita ad esempio l’ambasciata cinese a Belgrado. Vi furono morti, feriti e forti polemiche nei confronti dell’inadeguatezza del sistema di intelligence statunitense. In tutto questo, la Serbia stava continuando a portare avanti una campagna di pulizia etnica causando un flusso di rifugiati e profughi verso le frontiere dell’Albania e della Macedonia che stava assumendo le dimensioni di un esodo.

Alla fine di maggio ci furono quasi ottocento attacchi aerei. Di fronte all’aumento dei bombardamenti e alla disponibilità offerta da tutti i paesi membri della NATO di concedere nuove basi all’esercito USA, Milošević accettò la resa. Il 9 giugno venne sottoscritto un accordo con le Nazioni Unite. Il segretario della NATO Solana ordinò la sospensione degli attacchi e la conclusione ufficiale dell’operazione Allied force.

Gli accordi prevedevano il ritiro delle forze serbe dal Kosovo, l’inizio di una missione dell’ONU per l’amministrazione provvisoria del paese con il compito di ristabilire ordine e pace, e l’ingresso a sostegno della missione di una forza militare di pace guidata dalla NATO, la Kosovo Force (KFOR).

Il contingente iniziale di KFOR era formato da sei brigate di fanteria, due delle quali a guida britannica, e una ciascuna da Stati Uniti, Francia, Germania e Italia. Il paese venne diviso in cinque diverse zone, ognuna affidata a uno Stato. Parallelamente all’istituzione di KFOR, il Kosovo nel 1999 passò sotto il protettorato internazionale delle Nazioni Unite.

Il primo compito di KFOR fu quello di affermarsi come unica forza militare legittima, evitare scontri e minacce contro il Kosovo da parte di forze serbe e jugoslave, ristabilire e mantenere la sicurezza pubblica e demilitarizzare l’UçK: i militari NATO, dunque, pattugliarono e sminarono il territorio, sequestrano armi, e facilitarono il rientro delle persone che si erano rifugiate nei paesi vicini, perlopiù in Albania, e che erano circa un milione. Dopodiché, ciascuno nella propria area di competenza, iniziarono a ricostruire strade, a riattivare scuole e ambulatori, a ripristinare la linea ferroviaria, a mettere in sicurezza monumenti di interesse storico e culturale.

Nel tempo le forze NATO presenti in Kosovo sono state riorganizzate, sono stati costituiti nuovi gruppi e avviate nuove realtà operative. Nel periodo di massima partecipazione, KFOR ha raggiunto 50mila soldati provenienti da 39 paesi, mentre oggi in Kosovo sono presenti 27 paesi con circa 3.800 militari complessivi.

Dopo essere stato amministrato per quasi dieci anni da un protettorato internazionale delle Nazioni Unite, nel 2008 il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nei mesi successivi i paesi della NATO decisero di proseguire la missione, in accordo con le autorità del nuovo stato e in collaborazione con le Nazioni Unite. L’indipendenza del Kosovo non è però riconosciuta dalle istituzioni serbe e tra i due paesi continuano a esserci tensioni ed episodi di violenza, come le proteste in cui sono stati feriti i militari della NATO. Le zone più problematiche sono quelle del nord, a maggioranza serba e non albanese.

Oggi, secondo il Clingendael Institute, un ente di ricerca che si occupa di relazioni internazionali, sulla presenza della NATO in Kosovo fanno affidamento soprattutto i cittadini serbi: vedono infatti nel KFOR il principale garante della loro protezione, in particolare dopo che nel 2018 il parlamento del Kosovo ha approvato una legge che conferisce un mandato militare alle forze di sicurezza del Kosovo (KSF): fino ad allora avevano armi leggere e svolgevano solo operazioni di protezione civile.