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  • Lunedì 15 maggio 2023

«Perché l’Indonesia ha scritto la storia del mondo»

Il nuovo libro di David Van Reybrouck racconta la grande influenza che ebbe la rivoluzione per l'indipendenza del paese nel 1945

Una danza durante le celebrazioni per il 72esimo anniversario dell'indipendenza dell'Indonesia
Una danza durante le celebrazioni per il 72esimo anniversario dell'indipendenza dell'Indonesia, a Giacarta nel 2017 (AP Photo/Dita Alangkara)
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La storia dei paesi non occidentali è tuttora poco studiata a scuola, e dunque poco conosciuta in Italia, nonostante sia molto importante per capire il mondo di oggi. Una decina di anni fa, per provare a colmare un pezzo di questa ignoranza, lo studioso belga David Van Reybrouck aveva dedicato un lungo libro storico-geografico al Congo, che era stato un caso editoriale internazionale. Ora lo ha rifatto con l’Indonesia: è da poco uscito in libreria, pubblicato in italiano da Feltrinelli, Revolusi, un saggio che spiega l’influenza sul mondo intero della rivoluzione indonesiana del 1945 e la successiva dichiarazione d’indipendenza del paese. Per scrivere il libro, di cui pubblichiamo un estratto dalle prime pagine, Van Reybrouck ha intervistato gli ultimi testimoni della rivoluzione ancora in vita. Mercoledì 17 maggio, alle 19, ne parlerà a Milano, alla Triennale, insieme al direttore del Post Luca Sofri.

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Prendiamo un atlante scolastico. Tanto è marginale l’Indonesia, nella nostra immagine del mondo, quanto lo è sulla mappa: un grumo in basso a destra, una macchia sputata dal continente tra l’Oceano Pacifico e quello Indiano, questa l’impressione che dà. È molto lontana dalla compatta Europa occidentale e dalla massiccia America, che si trovano in alto, il che naturalmente è una convenzione storica dato che la Terra non ha un centro e che il cosmo non conosce un lato superiore. Ma ribaltando la prospettiva e collocando l’Indonesia al centro ci si rende conto che questo non è un angolo recondito di mondo, bensì un arcipelago in posizione strategica in un esteso territorio marino tra l’India e la Cina. Per i navigatori di un tempo le isole costituivano una fantastica fila di trampolini tra est e ovest, una duplice fila per giunta, sempre più piccoli procedendo verso est. La penisola malese si addossa alla colossale Sumatra, quindi si incontrano Giava, Bali, Lombok, Sumbawa, Flores… A nord si trova l’altra fila, Borneo, Sulawesi e le Molucche, dalla forma rispettivamente massiccia, stramba e frammentata. Entrambi i fili di perle si ricongiungono vicino alla Nuova Guinea.

L’Indonesia è il più grande arcipelago del mondo. Ufficialmente conta 13.466 isole, ma potrebbero essercene anche 16.056. Oppure 18.203. Nessuno lo sa con precisione. Il vulcanismo, i terremoti e l’azione delle maree modificano di continuo i litorali e con l’acqua alta aumenta il numero delle isole. Una volta l’ho visto accadere con i miei occhi: la parte centrale di un’isoletta tropicale è sparita con l’alta marea sott’acqua per sei ore. Quante isole c’erano, una o due? Secondo la definizione delle Nazioni Unite due, ma la popolazione aveva un solo nome. Delle innumerevoli isole solo un paio di migliaia sono abitate. Benché in gran parte di dimensioni molto ridotte, cinque fra le tredici isole più grandi al mondo si trovano in territorio indonesiano: Nuova Guinea, Borneo, Sumatra, Sulawesi e Giava. Le prime due l’Indonesia le divide con la Papua Nuova Guinea e la Malesia, l’ultima è l’isola più popolosa al mondo. Giava è lunga circa mille chilometri e larga dai cento ai duecento chilometri, quanto a superficie ammonta solo al 7 per cento del territorio totale, ma con 141 milioni di persone conta più della metà del numero di abitanti dell’intero paese. Non stupisce che molti avvenimenti storici cruciali abbiano avuto origine qui. Ma l’Indonesia è più di Giava. L’intero arcipelago tropicale abbraccia oltre 45 gradi di longitudine, un ottavo dell’intero globo terrestre, il che equivale a tre fusi orari e più di cinquemila chilometri lungo l’equatore. Se potessi cliccare su Indonesia e trascinarla verso la cartina dell’Europa, inizierebbe in Irlanda e terminerebbe da qualche parte nel Kazakistan. Posta su una cartina degli Stati Uniti, sporge su entrambi i lati di quasi mille chilometri. In questo immenso territorio si distinguono quasi trecento gruppi etnici e si parlano settecento lingue, ma la lingua ufficiale è la Bahasa Indonesia, una lingua giovane derivata dal malese con numerose tracce dell’arabo, del portoghese, del nederlandese e dell’inglese.

Non sono soltanto i superlativi demografici e geografici a dover destare il nostro interesse. La storia indonesiana vanta una serie di primati: fu il primo paese, dopo la Seconda guerra mondiale, a proclamare la propria indipendenza, nemmeno due giorni dopo la capitolazione giapponese. Dopo quasi tre secoli e mezzo di presenza olandese (1600-1942) e tre anni e mezzo di occupazione giapponese (1942-1945), alcuni leader locali fecero intendere di voler dar vita, da quel momento in poi, a uno stato sovrano. Fu la prima tessera del domino a cadere, in un periodo in cui gran parte dell’Asia, dell’Africa e del mondo arabo era ancora in mano ad alcuni stati europei come la Gran Bretagna, la Francia, i Paesi Bassi e il Portogallo.

Tale proclamazione fu non solo precoce ma anche giovane. Fu sostenuta e difesa da un’intera generazione di persone tra i 15 e i 25 anni pronte a morire per la libertà. La Revolusi del 1945 fu, sotto ogni aspetto, una rivoluzione dei giovani. Chi al giorno d’oggi pensa che i ragazzi non possano fare la differenza nella lotta contro il riscaldamento climatico e la perdita della biodiversità dovrebbe approfondire al più presto la conoscenza della storia indonesiana: non avremmo mai avuto il quarto paese più grande al mondo senza il sostegno di adolescenti e poco più che ventenni, anche se voglio sperare che i giovani attivisti per l’ambiente mettano in atto tattiche meno violente.

Ma il motivo principale che rende estremamente coinvolgente la Revolusi indonesiana è l’enorme impatto che ebbe sul resto dell’umanità: non soltanto sulla decolonizzazione, ma ancora di più sulla cooperazione fra tutti quei nuovi paesi. Sulle fotografie dell’attentato dinamitardo di Giacarta, su un ponte pedonale sopra la Jalan Thamrin, un enorme cartellone pubblicitario con su scritto: Asian African Conference Commemoration e, sotto, Advancing South-South Cooperation. Il contrasto con il fumo e il panico per strada era enorme. Il cartellone rimandava a un recente congresso commemorativo internazionale. Nel 2015 ricorreva il sessantesimo anniversario della mano offerta dall’Indonesia a paesi diventati da poco indipendenti. Alcuni anni dopo il definitivo trasferimento dei poteri da parte dei Paesi Bassi, nell’elegante città giavanese di Bandung ebbe luogo la leggendaria Conferenza Asia-Africa, la prima riunione di leader mondiali senza l’Occidente. Loro rappresentavano la bellezza di un miliardo e mezzo di persone, più della metà della popolazione mondiale dell’epoca. “Bandung”, come la conferenza passò alla storia, fu secondo l’autore e partecipante afro-americano Richard Wright “il momento decisivo per la coscienza del 65 per cento della razza umana”. Ciò che accadde lì “avrebbe condizionato la totalità della vita umana su questa Terra”. Poteva suonare un po’ pomposo, ma non era molto lontano dal vero. Negli anni successivi di fatto ogni continente fu toccato dalla Revolusi: non solo gran parte dell’Asia, del mondo arabo, dell’Africa e dell’America Latina, ma anche gli Stati Uniti e l’Europa. Il movimento americano per i diritti civili e la formazione della Comunità Europea nacquero soprattutto come reazione a “Bandung”, volenti o nolenti. Si trattò di una pietra miliare nella nascita del mondo moderno. Uno studio francese del 1965 lo enfatizzò non poco: Bandung era nientedimeno che “il secondo 14 luglio della storia: un 14 luglio su scala planetaria”.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Revolusi
è tradotto in italiano da Chiara Beltrami Gottmer, Chiara Nardo e Franco Paris.

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