Ogni giorno facciamo un sacco di cose senza pensarci

Azioni come andare in ufficio o lavarsi i denti sono il risultato di abitudini e automatismi che coinvolgono specifiche aree del cervello

(Pelle Martin/Unsplash)
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Quando si visita una città per la prima volta, percorrendone le strade a piedi, è abbastanza normale aiutarsi consultando una mappa sul proprio smartphone o seguendo cartelli e altre indicazioni. E imboccare una via anziché un’altra, in casi del genere, è solitamente un’azione guidata da un pensiero cosciente. La maggior parte delle azioni di tutti i giorni non sono di questo tipo: lavarsi i denti, preparare la moka o raggiungere l’ufficio sono azioni prese in carico da una specie di pilota automatico. Sono involontarie, in un certo senso: il risultato di decisioni prese per abitudine e senza che ne siamo coscienti.

Le decisioni di questo secondo tipo coinvolgono principalmente quella che in psicologia cognitiva viene definita memoria implicita (o procedurale), un insieme di processi della memoria a lungo termine che utilizza le nostre esperienze passate per permettere l’esecuzione di movimenti e operazioni senza che ce ne rendiamo conto, come andare in bicicletta, suonare uno strumento musicale o usare una tastiera senza dover osservare i tasti. Sono decisioni che si distinguono da quelle coscienti anche sul piano neuro-anatomico: coinvolgono cioè aree del cervello specifiche, diverse rispetto a quelle più coinvolte quando invece cerchiamo, per esempio, di mimare il titolo di un film o risolvere un cruciverba.

Comprendere come funziona la memoria quando svolgiamo determinate azioni per abitudine, senza farci caso, è utile a capire cosa succede nei casi patologici in cui particolari traumi o malattie compromettono quei processi. Ma è utile in generale a capire come fa il cervello a gestire ogni giorno migliaia di decisioni inconsce, normalmente, e come e perché azioni che inizialmente richiedono un certo grado di coscienza possono diventare azioni del tutto automatiche e portare ad abitudini molto difficili da cambiare.

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La memoria implicita è uno dei due tipi principali di memoria a lungo termine: l’altra, quella esplicita (o dichiarativa), serve a richiamare ricordi coscienti di fatti del passato, o anche la data di un compleanno o l’orario di un appuntamento. Quella implicita è invece inconscia e non richiede sforzi, ma dura comunque a lungo: giorni, anni o decenni, a seconda dei casi. Un modo abituale di distinguere i due diversi tipi di memoria a lungo termine, come suggerito dall’esperta psichiatra statunitense Sara Jo Nixon, è ricordarsi che quella esplicita serve a «sapere cosa» e quella implicita a «sapere come».

Attraverso la memoria implicita costruiamo ricordi che, una volta formati, è difficile rimuovere – dimenticare come si va in bicicletta, appunto – ed è molto facile richiamare: avviene di fatto, a livello inconscio, ogni volta che eseguiamo determinate azioni in modo automatico. Quando impariamo ad andare in bicicletta acquisiamo varie capacità motorie e di coordinazione necessarie per mantenere l’equilibrio, pedalare, sterzare e controllare l’andatura, tutto nello stesso momento. E succede più o meno la stessa cosa anche quando impariamo a guidare: sono tutte abilità che vengono memorizzate nella memoria implicita, in modo da non dover impiegare ogni volta che le mettiamo in pratica tutte le risorse mentali e la concentrazione richieste la prima volta.

In un certo senso, come ha scritto la ricercatrice australiana Gina Cleo sul sito The Conversation, le abitudini e le azioni automatiche permettono di svolgere centinaia di attività mentre il cervello elabora tutte le altre informazioni che riceve ogni secondo. Ciascuno dei due diversi sistemi – quello dell’attività consapevole e quello delle decisioni inconsce – coinvolge inoltre aree diverse del cervello, sebbene nessun tipo di memoria sia del tutto autonomo ed esistano molte interdipendenze funzionali tra le varie parti del cervello.

Sulla base di diversi studi di neurofisiologia e neuropsicologia si ipotizza che la parte più coinvolta nelle attività di organizzazione e pianificazione dei comportamenti e delle azioni volontarie sia la corteccia prefrontale. È la parte anteriore del lobo frontale del cervello, ed è responsabile dei processi decisionali: quelli che implicano un’intenzione. Permette di formare nuove connessioni nel cervello quando acquisiamo nuove conoscenze o apprendiamo una nuova abilità, per esempio, e richiede un certo sforzo cognitivo e cosciente.

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Un’area strettamente connessa alla corteccia prefrontale ma distinta è quella dei gangli della base, un insieme di centri nervosi alla base del cervello, legati al controllo dei movimenti, alle emozioni e alla formazione delle abitudini. Sono strutture evolutivamente primordiali, tra le prime a formarsi nel cervello umano, e poiché funzionano in modo riflessivo e automatico non richiedono uno sforzo cognitivo.

Quando in un contesto che tende a ripetersi eseguiamo una certa azione più volte e per un periodo di tempo abbastanza lungo, un comportamento inizialmente guidato da un’intenzione può progressivamente diventare un’abitudine. In questo caso l’intenzione viene meno e un impulso a mettere in atto un certo comportamento emerge in automatico perché ci troviamo in un contesto che ha stimolato quel comportamento altre volte in passato. Questo funzionamento spiega peraltro perché quest’area del cervello – in cui si trovano grandi quantità di dopamina, il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – sia la stessa area responsabile, tra le altre cose, dei comportamenti legati alle dipendenze patologiche.

Alterazioni patologiche nei gangli della base, causate da fattori non ancora chiari, sono state riscontrate in diverse malattie neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, in cui la ridotta produzione di dopamina provoca gradualmente gravi disfunzioni nella regolazione dei movimenti.

In alcuni casi non patologici, in condizioni di particolare stress e in presenza di altri fattori come i cambiamenti nella routine quotidiana o la mancanza di sonno, può capitare che strutture primordiali del cervello come i gangli della base, responsabili dei comportamenti abitudinari, prendano il sopravvento sulle strutture superiori, responsabili delle attività coscienti. Si ipotizza che sia questa, per esempio, la spiegazione fisiologica delle tragiche dimenticanze che portano alcune persone a lasciare i bambini in macchina senza rendersene conto, esattamente come è possibile che accada con lo smartphone o le chiavi di casa.

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In circostanze normali, ha scritto Cleo, le abitudini sono invece «scorciatoie della mente» che ci permettono di destinare la nostra concentrazione e la nostra capacità di ragionamento ad altre attività e pensieri nella vita quotidiana. Se per varie ragioni le abitudini smettono di produrre benefici o portano a risultati ritenuti controproducenti, può essere utile o necessario interromperle: cosa solitamente molto difficile da fare.

Secondo lo psicologo inglese Benjamin Gardner, docente alla University of Surrey nel Regno Unito e autore di decine di studi scientifici e libri sul comportamento abitudinario, non esiste un approccio ideale per eliminare un’abitudine (in parte diversa dalla dipendenza, che presenta più fattori biologici e neurologici interdipendenti). Molto dipende dal comportamento che si vuole interrompere e dall’individuo che ne ha necessità. Ma i tre modi principali sono: smettere direttamente di fare una certa cosa, evitare lo stimolo ambientale che attiva un certo comportamento, oppure associare a quello stimolo un nuovo comportamento altrettanto soddisfacente.

Seguendo un esempio posto da Gardner, se volessimo interrompere la nostra abitudine di mangiare popcorn appena mettiamo piede in un cinema, avremmo sostanzialmente tre possibilità. Potremmo dire a noi stessi «niente popcorn» ogni volta che andiamo al cinema, e quindi non comprarlo. Oppure potremmo smettere del tutto di andare al cinema, evitando il fattore scatenante. O infine potremmo sostituire il popcorn con qualcos’altro da mangiare, che si adatti meglio al nostro budget o alle nostre esigenze nutrizionali.