Come ci è riuscito questo Napoli
Una squadra senza grandi campioni che ha vinto lo Scudetto con un mese di anticipo dopo aver battuto 5-1 la Juventus, ma anche 4-1 il Liverpool e 6-1 l’Ajax ad Amsterdam
di Pietro Cabrio
Solo quattro squadre nella storia della Serie A avevano vinto lo Scudetto con cinque giornate di anticipo, prima del Napoli giovedì sera. Eppure nelle ultime sei partite disputate il Napoli ha vinto soltanto una volta. Basterebbe questo a inquadrare la stagione eccezionale disputata dai nuovi campioni d’Italia da fine agosto a inizio marzo. Ma dietro ai risultati, alle tante vittorie eclatanti, alle difficoltà avute dalle avversarie e all’attuale vantaggio di 16 punti sulla seconda in classifica, c’è molto altro.
Il Napoli ha vinto il suo terzo Scudetto dopo 33 anni di attesa: nella storia del campionato italiano soltanto la Roma aveva aspettato di più (dal 1942 al 1983). Ed è successo al termine di una stagione iniziata fra grandi malumori e scetticismi: «Nessuno ci credeva» ha ricordato dopo la partita di Udine Luciano Spalletti, l’allenatore campione d’Italia che a 64 anni — e a 26 dal suo debutto da allenatore in Serie A — ancora non aveva mai vinto uno Scudetto.
I motivi di questi malumori riguardavano soprattutto le cessioni di quattro giocatori, fra i più amati in città, che per anni avevano costituito l’ossatura di una squadra già molto competitiva: Kalidou Koulibaly, Fabian Ruiz, Dries Mertens e il capitano Lorenzo Insigne, nato a Napoli e cresciuto nel Napoli.
Già nella stagione precedente, però, la squadra aveva disputato un campionato di alto livello, finito al terzo posto dopo aver mancato lo Scudetto per i troppi punti persi negli ultimi mesi. Era la prima stagione con Spalletti come allenatore, il cui ingaggio aveva segnato l’inizio di un nuovo ciclo e rasserenato un ambiente che in precedenza aveva avuto parecchi problemi. La squadra fece il sesto miglior inizio di stagione calcolato sulle prime sette giornate in novant’anni di Serie A e iniziò a ricordare quella allenata da un altro toscano passato per Napoli, Maurizio Sarri, che nel 2018 si giocò lo Scudetto con la Juventus fino alle ultime giornate.
Da allora però il Napoli aveva avuto più problemi che altro. Dopo Sarri la gestione tecnica passò a Carlo Ancelotti, un allenatore che per esperienza e importanza il Napoli non aveva mai avuto, ma finì con un esonero a dicembre del secondo anno dopo “l’ammutinamento” della squadra contro un ritiro imposto dalla società in seguito a un deludente pareggio in Champions League.
Quella vicenda ebbe lunghe ripercussioni legali e conseguenze nei rapporti tra giocatori e dirigenza, anche durante la successiva gestione di Gennaro Gattuso, il sostituto di Ancelotti, che riuscì a far vedere il potenziale della squadra soltanto in certi momenti.
A luglio del 2021 arrivò infine Spalletti, fermo da due stagioni dopo essere stato sostituito all’Inter da Antonio Conte. Il suo arrivo fu una ripartenza, ma non ancora da un punto di vista tecnico. Il rinnovo della squadra, dettato anche dall’età di diversi giocatori, fu infatti rinviato di una stagione per i bilanci ancora segnati dalla pandemia. In quel mercato estivo non ci furono grandi movimenti: arrivò un solo titolare, il centrocampista difensivo Zambo Anguissa, diventato poi fondamentale.
C’erano ancora giocatori di un certo spessore e si puntava molto sul centravanti nigeriano Victor Osimhen, pagato almeno 70 milioni di euro un anno prima, il cui arrivo a Napoli era stato però segnato da positività al coronavirus, infortuni e problemi disciplinari; a un anno di distanza Osimhen ha segnato il gol che ha garantito il punto necessario a vincere matematicamente lo Scudetto, eguagliando inoltre il record di gol segnati in Serie A (46) da un giocatore africano (George Weah negli anni Novanta con il Milan).
Nonostante ci fossero stati quindi dei segnali incoraggianti di ripresa, la ricostruzione della squadra in estate aveva causato malumori e anche contestazioni da parte dei tifosi, che avevano visto andare via quasi tutti i giocatori ritenuti più simbolici.
Ma la società, dal presidente Aurelio De Laurentiis al direttore sportivo Cristiano Giuntoli, aveva dei piani, così come Spalletti. Su una facciata del Britannique, l’hotel che ospita in città De Laurentiis, ora c’è uno striscione che dice: «Tutto ha avuto inizio qui». Lì infatti la scorsa estate la dirigenza del club ha portato avanti le trattative per acquistare i sostituti. Due in particolare: l’esterno offensivo georgiano Khvicha Kvaratskhelia, venuto fuori dal nulla e diventato subito il miglior esordiente del campionato, e il solidissimo centrale difensivo sudcoreano Kim Min-jae, i cui interventi ora vengono accompagnati dai tifosi napoletani con il coro «Kim! Kim! Kim!».
Ma sono stati inseriti anche altri giocatori utili alla causa: Giovanni Simeone e Giacomo Raspadori in attacco, il terzino Mathias Olivera e il centrocampista Tanguy Ndombele, ex del Tottenham. Chi invece era arrivato a Napoli nelle stagioni precedenti, come Anguissa, ma anche Amir Rrahmani e Giovanni Di Lorenzo, è diventato nel frattempo fondamentale per gli equilibri della squadra. Fra questi, Di Lorenzo è forse il giocatore più rappresentativo di questo Napoli: cinque anni fa giocava in Serie C col Matera e ora, dopo essere arrivato anche in Nazionale, è il capitano dei campioni d’Italia.
Con questi giocatori Spalletti ha potuto creare una squadra che per mesi è stata una delle più vincenti in Europa, imbattuta in campionato fino a gennaio e al contempo altamente spettacolare. Il tutto con il quinto monte ingaggi del campionato e il quarto valore complessivo della rosa stimato a inizio stagione, dopo Juventus, Inter e Milan (era inferiore ai 450 milioni di euro, ora supererebbe i 600 milioni).
Che questo Napoli avesse un grande potenziale lo si era capito già a inizio settembre, alla prima giornata dei gironi di Champions League, quando aveva battuto 4-1 il Liverpool vice campione d’Europa con una prestazione straripante. Fu una delle partite in cui si videro le sue caratteristiche migliori: su tutte, un sistema di gioco fluido e non ancorato rigidamente a moduli o schemi, alimentato dalla coesione fra i giocatori e da una grande propensione offensiva, cose che si vedono soltanto quando una squadra è ben costruita, ben allenata e molto unita.
Questa idea di gioco Spalletti l’aveva già spiegata un anno prima, quando intervistato da Dazn dopo una partita disse: «Noi dobbiamo essere bravi a saper interpretare le partite. Perché ora si va più addosso all’avversario, ci sono più uno contro uno. Bisogna essere pronti ai ribaltamenti di fronte. Gli spazi non sono tra le linee, ma sono tra i calciatori avversari. Sono dove li creano gli altri e bisogna saperli vedere e usarli. Non tra le linee. Di spazio ce n’è sempre, ma dietro la linea difensiva».
È con questi concetti, per esempio, che Kvaratskhelia, un giocatore di corsa e dribbling che fino all’anno scorso aveva giocato soltanto in Russia e in Georgia, è diventato uno degli esterni offensivi più incisivi d’Europa.
Tutto questo ha garantito al Napoli, una squadra senza grandi campioni, di avere sia la miglior difesa che il miglior attacco della Serie A; di arrivare fino ai quarti di finale di Champions League per la prima volta nella sua storia; di concludere il girone di andata in campionato con 50 punti su 57 disponibili (il terzo miglior andamento di sempre); di battere 5-1 la Juventus, 4-1 il Liverpool, 6-1 l’Ajax ad Amsterdam, e di vincere lo Scudetto con un mese di anticipo.
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