Da dove arriva Matteo Piantedosi

Uno dei ministri più in vista del governo Meloni ha avuto una carriera nell'amministrazione pubblica lunga e di successo, fino agli ultimi anni

(ANSA/FABIO FRUSTACI)
(ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Uno dei membri del governo di Giorgia Meloni più in vista negli ultimi mesi è stato Matteo Piantedosi, il ministro dell’Interno. Piantedosi ha 59 anni, viene da una lunga carriera nell’amministrazione pubblica ma è alla sua prima esperienza politica. Da quando è entrato in carica ha avuto una serie di inciampi pubblici e ricevuto varie critiche da parte di esperti e attivisti per i diritti umani, ma anche dal Consiglio d’Europa, perlopiù per via delle sue uscite e per le misure molto dure prese contro i migranti.

La linea di Piantedosi non è molto diversa da quella di Matteo Salvini quando ricopriva la stessa carica: è una linea giudicata oggi piuttosto fallimentare e discriminatoria, e a Salvini sta costando un processo per sequestro di persona di un gruppo di migranti soccorsi dalla ong spagnola Open Arms, nel 2019.

All’epoca Piantedosi era capo di gabinetto di Salvini, a cui oggi è considerato così vicino che al momento della formazione del governo il suo nome è stato indicato dalla Lega, il partito che Salvini guida dal 2013. Ma per la gran parte della sua carriera Piantedosi non si è identificato con nessun partito in particolare, ha collaborato con politici di provenienza anche molto diversa, e ancora nel 2020 in un’intervista al Foglio diceva che non sarebbe mai «sceso in politica».

La carriera di Piantedosi all’interno dell’amministrazione pubblica è iniziata nell’aprile del 1989. Ad appena 26 anni, dopo una laurea in giurisprudenza all’università di Napoli, entrò nell’amministrazione civile del ministero dell’Interno, cioè il personale ministeriale che non proviene dalla politica né dalle forze dell’ordine. Piantedosi fu distaccato alla prefettura di Bologna e ci rimase quasi vent’anni, scalando man mano la gerarchia dell’ufficio. Nel 2007 il ministero lo nominò direttore dell’Ufficio affari legislativi e relazioni parlamentari, con sede a Roma.

Nel 2010 il comune di Bologna venne commissariato dopo le dimissioni del sindaco, Flavio Delbono, per un caso di truffa e peculato. Come succede in questi casi il ministro dell’Interno nominò un commissario speciale per gestire il comune fino alle elezioni successive: venne nominata Annamaria Cancellieri, rispettata prefetta, che anni prima aveva già guidato il comune di Parma in una situazione simile. Per nominare i sub-commissari – gli assessori del commissario, in sostanza – Cancellieri si fece consigliare i nomi di persone che conoscevano bene la città. Qualcuno le fece quello di Piantedosi, che il 14 aprile del 2010 divenne sub-commissario con deleghe alla sicurezza urbana, agli affari istituzionali, agli enti e società partecipate.

Cancellieri si trovò così bene con Piantedosi che nel 2012 lo nominò suo vice capo di gabinetto quando diventò ministra dell’Interno del governo tecnico guidato da Mario Monti. Da lì in poi la carriera di Piantedosi accelerò notevolmente e negli anni seguenti accumulò incarichi sempre più prestigiosi, come ha scritto il Corriere di Bologna.

Dal 2014 al 2017 Piantedosi è stato vice-direttore generale della Polizia di Stato. Nel 2017 l’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti del Partito Democratico, lo nominò prefetto di Bologna. Durò poco: l’anno successivo la Lega cercava un funzionario esperto con competenze di sicurezza da affiancare a Salvini, e Piantedosi divenne così capo di gabinetto del ministero dell’Interno, una figura ibrida fra la politica e l’amministrazione pubblica, considerata la più potente nel ministero dopo quella del ministro stesso. Dopo la caduta del governo, nonostante la sconfitta politica della Lega, Piantedosi rimase capo di gabinetto della nuova ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, indicata dal governo sostenuto da PD e Movimento 5 Stelle. Nel 2020 poi Lamorgese gli assegnò la carica di prefetto nella sede più ambita e delicata, a Roma.

Il Foglio racconta che nel corso della sua carriera Piantedosi ha raccolto stime e apprezzamenti in maniera piuttosto trasversale. Poco dopo le elezioni dello scorso settembre Franco Gabrielli, ex capo della Polizia storicamente molto stimato nel PD, disse di lui che sarebbe stato «una soluzione di altissimo livello». Durante il suo mandato da prefetto di Roma Piantedosi stesso definì «ottimi» i rapporti con l’allora sindaca Virginia Raggi, eletta col M5S.

Non è chiarissimo a cosa sia dovuta questa stima trasversale: le informazioni sulla prima fase della carriera di Piantedosi all’interno della pubblica amministrazione sono poche, anche in caso di incarichi di una certa visibilità come quello di sub-commissario a Bologna.

Fin da quando ha iniziato a salire di livello, invece, Piantedosi ha attirato molte critiche sul suo lavoro. Da capo di gabinetto di Salvini per esempio lavorò molto sui cosiddetti “decreti sicurezza”: anni dopo Salvini disse che li avevano «scritti insieme». Quelle norme furono molto contestate, così come il suo atteggiamento molto ostile nei confronti dell’immigrazione irregolare, con posizioni assai più politiche che tecniche.

Nel 2019 durante un interrogatorio con la procura di Catania parlò della necessità di «difendere le frontiere» per giustificare la decisione di Salvini di non fare sbarcare i migranti soccorsi dalla nave militare Diciotti, bloccata per giorni nel porto di Catania nell’estate del 2018. Tutte le persone soccorse dalla Diciotti però una volta arrivate in Italia avrebbero potuto chiedere una forma di asilo: la protezione delle frontiere non può prevedere il respingimento di richiedenti asilo, vietato dalle leggi italiane ed europee. Il verbale dell’interrogatorio finì su tutti i giornali.

Anche da prefetto di Roma Piantedosi si attirò diverse critiche: per avere promesso l’impiego di militari nei campi rom della città, oltre che per non avere sgomberato la sede nazionale del partito neofascista di CasaPound, al civico 8 di via Napoleone III, nel quartiere dell’Esquilino, occupato ormai da vent’anni. Ma Piantedosi fu criticato soprattutto per non avere previsto misure adeguate per impedire l’assalto alla sede nazionale della CGIL, compiuto nell’ottobre del 2021 da parte di gruppi di estrema destra, compresa Forza Nuova. All’epoca Piantedosi si giustificò dicendo che «solo nelle ultime ore prima dell’evento […] è stato possibile rilevare un livello della partecipazione non solo quantitativamente molto elevato, ma pure caratterizzato dalla variegata composizione dell’adesione alla manifestazione».

L’impiego di un italiano intriso di termini burocratici, proprio di chi ha passato l’intera carriera lavorativa nella pubblica amministrazione, è forse la caratteristica che più lo distingue dai suoi predecessori. Oltre a renderlo più esposto a polemiche per l’uso impersonale, poco empatico, quando non apertamente discriminatorio, di alcune espressioni: come quando per definire 35 migranti soccorsi in mare dalla ong Sos Humanity in buona salute, che quindi non avevano bisogno di attenzioni mediche immediate, parlò di «carico che ne dovesse residuare».

A due suoi predecessori, Lamorgese e Minniti, Piantedosi è legato invece da un’attenzione dichiarata per la percezione di insicurezza dell’elettorato, a cui dedicare risorse anche nel caso non corrisponda a rischi reali. Anche per questo, probabilmente, nei suoi mesi da ministro ha preso spesso posizioni dure su questioni piuttosto periferiche legate alla sicurezza nazionale, come la gestione dei “rave party” e le minacce di alcuni anarchici al governo Meloni.

È un approccio molto discusso ma diffuso nel settore di chi si occupa di sicurezza pubblica in Italia, e rivendicato da Piantedosi anche di recente in una lezione tenuta nel 2020 all’università di Bologna.

«La presenza, reale o presunta, del rischio determina l’adozione di una serie di comportamenti preventivi, messi in atto con l’obiettivo di non rimanere vittima del paventato nemico e generalmente più diffusi tra le categorie deboli (giovani, anziani, poveri ed emarginati), che condizionano fortemente la qualità della vita e finiscono con il limitare la possibilità di partecipazione sociale. Garantire la sicurezza, allora – quella personale come quella sostanziale, in poche parole la sicurezza sociale – significa, per lo Stato, garantire in primo luogo la libertà dei suoi cittadini», diceva Piantedosi in quella lezione.

Sono parole e concetti molto simili a quelli su cui ha spesso insistito Minniti, che nel 2018 in un lungo articolo pubblicato sul Foglio rivendicò fra le altre cose l’approvazione di un codice di condotta per le ong che soccorrono migranti nel Mediterraneo – simile a quello approvato due mesi fa da Piantedosi – scrivendo che «una sinistra moderna non può rompere un canale, diciamo, sentimentale con coloro che provano rabbia e con coloro che provano paura» anche dei migranti, e che «l’accoglienza deve conciliarsi con il sentimento di sicurezza». «Devi dimostrare di ascoltare chi ha rabbia, devi lavorare perché quelli che hanno paura trovino in te un interlocutore fidato». Ancora prima di diventare ministra, anche Lamorgese aveva ripetuto più volte di tenere molto alla «percezione di sicurezza», a prescindere dai dati reali, perché «la nostra idea di sicurezza deve andare oltre la statistica».