Il dilemma etico dell’estinzione umana

Nel dibattito filosofico la questione se un’eventuale fine della specie sia un male ammette diverse risposte e porta ad altre domande

The Last of Us
Una scena della serie tv “The Last of Us”
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Molti eventi e fenomeni della contemporaneità, sia attraverso il racconto dei media che attraverso la finzione letteraria, hanno accresciuto la familiarità delle persone con il concetto di estinzione della specie umana, soprattutto negli ultimi decenni. E di solito, come per esempio nel caso del cosiddetto “orologio dell’apocalisse”, non sono necessarie spiegazioni per capirsi sul significato della parola “estinzione”, intesa come la scomparsa di qualsiasi forma di vita umana. Più o meno come quella dei dinosauri.

Ma il concetto di estinzione della specie lascia margini di interpretazione più ampi di quanto si creda comunemente, e solleva soprattutto una serie di altre questioni e dubbi che raramente emergono in contesti non accademici. L’accresciuta familiarità delle persone con il rischio dell’estinzione dovuta ai cambiamenti climatici non ha reso più familiari, per esempio, le riflessioni sulle conseguenze dell’estinzione umana sul piano etico per l’umanità stessa. Riflessioni che però esistono, e alimentano da tempo un dibattito filosofico complesso e con posizioni abbastanza eterogenee – e non ovvie – riguardo alla domanda se l’estinzione umana debba essere considerata un male, un non-male o qualcos’altro ancora, e con quali argomenti.

Queste riflessioni – distinte da quelle più note e dibattute nell’ambito della bioetica, dei diritti degli animali (non umani) o dell’etica dell’intelligenza artificiale – possono servire a fare chiarezza su altre questioni filosofiche dibattute, a prescindere dal fatto che si ritenga l’estinzione dell’umanità probabile o meno, imminente o remota. E secondo Émile Torres, che fa ricerca in filosofia morale alla Leibniz Universität Hannover, in Germania, e si occupa da tempo delle implicazioni morali dell’ipotesi di una fine dell’umanità, ragionare sull’estinzione è prima di tutto un esercizio utile a comprendere meglio diversi termini che utilizziamo con crescente disinvoltura nel dibattito pubblico.

Come ha scritto Torres sulla rivista Aeon, in un’anticipazione del suo libro Human Extinction: A History of the Science and Ethics of Annihilation, che uscirà a luglio per la casa editrice inglese Routledge, non è sempre chiaro cosa si intenda per “umanità” quando si parla di fine dell’umanità. Molti si riferiscono intuitivamente alla specie Homo sapiens, mentre altri distinguono la nostra specie da qualsiasi sua possibile discendenza in senso lato.

Tenendo a mente questa distinzione, una possibile estinzione della specie Homo sapiens potrebbe anche implicare la fine della specie ma non quella dell’umanità. Se l’umanità venisse completamente sostituita da una popolazione di macchine intelligenti create dall’Homo sapiens, per esempio, l’estinzione dell’umanità sarebbe più simile a una sorta di evoluzione dell’umanità in una “post-umanità”. Ed è un’ipotesi che alcuni considerano preferibile ad altre ipotesi di estinzione, ragionando per esperimenti mentali: esperimenti che definiscono scenari apparentemente irrealizzabili ma resi sempre più plausibili e realistici dal progresso scientifico e tecnologico.

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Secondo Derek Shiller, ricercatore in filosofia alla Princeton University, se fosse in nostro potere costruire un mondo «significativamente migliore per le generazioni future a un costo relativamente basso per noi stessi», avremmo una forte ragione morale per costruire quel mondo. Ma una forte ragione morale ci sarebbe anche nel caso in cui la sola possibilità di garantire un’esistenza futura migliore a una qualche forma di vita ancora umana per qualche aspetto fosse la creazione di macchine artificiali, magari con particolari tratti fisici e psicologici da noi implementati. Secondo questa prospettiva, simile a quella descritta anche dall’informatico e ricercatore canadese Hans Moravec nel libro Mind Children: The Future of Robot and Human Intelligence, in alcune circostanze ipotetiche l’estinzione dell’umanità potrebbe essere più una sorta di bene relativo, o male minore, che non un male assoluto.

Esiste poi nella parola “estinzione” un’ambiguità da chiarire riguardo alla durata dell’evento. L’opinione ampiamente accettata secondo cui un’estinzione provocata da una catastrofe mondiale improvvisa sarebbe un male assoluto, ha scritto Torres, è moralmente basata su un argomento simile a quello per cui consideriamo un male la morte prematura di un bambino. Ma esistono già più sfumature, per esempio, nel caso della morte di una persona anziana o di mezza età che sia preceduta da prolungate sofferenze fisiche, ansia e paura.

Questi esempi, secondo Torres, sono utili a distinguere due aspetti diversi di uno stesso fenomeno: uno è l’estinzione intesa come processo o evento in atto, l’«estinguersi», e un altro è l’estinzione come condizione o stato raggiunto, l’«essere estinti». Alcune persone considerano un male sia una cosa che l’altra. Altre persone, più inclini a un approccio che nella tradizione filosofica occidentale è vagamente riconducibile all’epicureismo, non hanno paura della fine dell’esistenza in sé ma del dolore che quella fine potrebbe comportare, più o meno a lungo.

Esistono poi ipotesi di estinzione che non contemplano una catastrofe improvvisa, intesa come uccisione più o meno istantanea di tutta la popolazione mondiale. Se ogni persona decidesse di non avere più figli, per esempio, la specie smetterebbe di esistere più o meno entro il prossimo secolo a causa di una scelta. Secondo alcuni studiosi questo tipo di estinzione volontaria sarebbe un male diverso da quello di un’estinzione catastrofica che implichi anche morti precoci e sofferenze. Altri considerano invece l’estinzione un male a prescindere dalle modalità dell’«estinguersi»: lo è in termini di perdita di opportunità nell’«essere estinti».

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Nel libro del 1984 Reasons and Persons, pubblicato nel 1989 in Italia con il titolo Ragioni e persone ma da tempo non più reperibile, l’influente filosofo inglese Derek Parfit sostenne che – ipotizzando che il pianeta rimanga abitabile per un altro miliardo di anni circa – l’essere estinti impedirebbe la realizzazione futura di una quantità enorme di felicità umana. E impedirebbe anche possibili sviluppi straordinari nella scienza, nelle arti e in altri ambiti del sapere. Per tutte queste ragioni sarebbe quindi «di gran lunga il più grande di tutti i crimini immaginabili».

La lettura del libro di Parfit permette in generale di acquisire maggiore familiarità con riflessioni che approfondiscono e rendono più sfumate le nozioni di identità e di fine dell’esistenza, che possono in una certa misura essere estese dall’individuo alla specie. In un esperimento mentale ideato da Parfit e peraltro citato dalla filosofa italiana Nicla Vassallo sulla rivista Doppiozero, in seguito a un grave incidente una persona muore e il suo cervello viene dimezzato e trapiantato in due corpi diversi. Ciascuna di quelle due persone dice poi allo stesso modo di essere la persona morta nell’incidente. Sarebbe difficile definire univocamente un caso del genere come la fine di un’esistenza: perché si potrebbe dire che quella persona non sia morta, in un certo senso, oppure che sia morta e allo stesso tempo sopravvissuta, o ancora che sia diventata due persone.

La definizione dell’estinzione come un male in termini di costo supremo di opportunità future è condivisa, tra gli altri, da alcuni filosofi contemporanei tra cui lo scozzese William MacAskill: appartengono a una corrente di pensiero anglosassone nota come longtermism (traducibile come «lungoterminismo»), che considera l’influenza positiva del futuro a lungo termine una priorità morale assoluta. Secondo questa prospettiva l’aspetto peggiore dell’estinzione non sarebbe tanto la morte delle persone esistenti quanto il fatto che moltissime altre non potrebbero esistere in futuro. La condizione dell’«essere estinti» sarebbe perciò un male superiore a qualsiasi «estinguersi», anche se catastrofico e doloroso.

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Secondo altri approcci filosofici, come quello della ricercatrice canadese Elizabeth Finneron-Burns, parlare di estinzione come un male in termini di mancate opportunità future non ha invece molto senso. E non ce l’ha perché in caso di estinzione non ci sarebbe alcuna vita umana a poter soffrire per quella perdita di opportunità o anche soltanto concepirla. Di conseguenza, a prescindere che si consideri l’estinzione un bene o un male, non ha senso intenderla diversamente a seconda che si considerino le persone esistenti ora, o quelle che potrebbero esistere in futuro ma che attualmente non esistono.

Per i pensatori di questo secondo gruppo, per esempio, se ammettiamo che non ci sia niente di male né di sbagliato nella scelta collettiva e volontaria di non avere figli, allora non c’è niente di male né di sbagliato nell’estinzione. Le modalità e i dettagli dell’estinzione – se è il risultato di un evento catastrofico e doloroso oppure no – sono gli unici aspetti pertinenti per stabilire se l’estinzione sia un bene o un male. Per i pensatori del primo gruppo, quelli per cui l’estinzione è sempre un male in termini di mancate opportunità future, le modalità dell’estinzione sono invece sostanzialmente irrilevanti.

Una delle differenze principali tra questi due approcci, secondo Torres, emerge chiaramente anche da un altro esperimento mentale. Immaginiamo che in un mondo A popolato da 11 miliardi di persone e in un mondo B popolato da 10 miliardi si verifichi una catastrofe che provochi la morte complessiva di 10 miliardi di persone. In un certo senso, una stessa catastrofe provocherebbe nel mondo A un solo evento, e cioè la morte di 10 miliardi di persone, e nel mondo B due eventi: la morte di 10 miliardi di persone e l’estinzione della specie umana. Questo secondo evento può essere «moralmente rilevante» oppure non esserlo, per definire la catastrofe che colpisce i due mondi.

Per chi definisce l’estinzione come un male in termini di mancate opportunità future la catastrofe nel mondo B sarà certamente la peggiore tra le due. Per chi invece prende in considerazione soltanto la catastrofe in sé, la fine della specie umana è un dato irrilevante: non c’è alcuna differenza tra la catastrofe nei due mondi, perché la sopravvivenza di un miliardo di persone nel mondo A non rende la catastrofe un male minore rispetto alla catastrofe nel mondo B.

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Oltre a questi due approcci, ha scritto Torres, ne esiste un terzo affine a quello che definisce l’estinzione in termini di possibilità future ma traendo conclusioni opposte: è l’approccio che ammette la possibilità che l’«essere estinti» sia un bene, non un male. Chi si rifà a questo approccio condivide – come la maggioranza degli studiosi, anche negli altri due orientamenti – la premessa per cui un’estinzione dell’umanità provocata da una catastrofe sarebbe un male e dovrebbe essere evitata. Sostiene però che smettere di esistere possa essere una condizione preferibile rispetto a continuare a esistere perché eviterebbe enormi quantità di sofferenza, le cui probabilità sono giudicate superiori alle probabilità che il futuro contenga felicità e valore.

Una considerazione alternativa a questa ma condivisa dagli stessi pensatori è che, se anche la felicità futura fosse quantitativamente superiore al dolore, non esisterebbe in ogni caso felicità sufficiente a controbilanciare i peggiori dolori immaginabili e sempre possibili, se si pensa ad atrocità come genocidi, massacri, torture e abusi sui bambini. Nell’esempio della catastrofe nel mondo A e nel mondo B, in altre parole, i sostenitori di questo approccio giudicherebbero la condizione del mondo B, quello in cui si verifica l’estinzione dell’umanità, migliore di quella del mondo A, dove invece un miliardo di persone può ancora soffrire o subire altre catastrofi.

Nel dibattito filosofico questo approccio ha trovato una delle sue concretizzazioni più note nell’antinatalismo, un’inclinazione ad attribuire alla nascita un valore negativo e al non-nascere un valore preferibile, anche se nullo. Questa idea, alla base di un atteggiamento che per ragioni etiche rifiuta la possibilità di avere figli, è stata recentemente sostenuta e argomentata, tra gli altri, dal filosofo sudafricano David Benatar nel libro Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo.

La condizione dell’inesistenza collettiva – essere estinti – per Benatar implicherebbe l’assenza di sofferenza, quindi un bene, e l’assenza di felicità, quindi un «non-male» (sarebbe un male una condizione di infelicità effettivamente sperimentata da qualcuno, possibilità esclusa dall’essere estinti). Continuare a esistere implica invece sia la sofferenza (un male) che la felicità (un bene). Sulla base di questa premessa logica, per Benatar, una condizione di bene e non-male dovrebbe quindi essere preferibile a una di bene e male. E la scelta collettiva di non avere figli – un caso la cui probabilità, come ammesso dallo stesso Benatar, è comunque prossima allo zero – sarebbe quindi una scelta etica.

Il dibattito sulla natalità è inoltre uno dei punti in cui le valutazioni sulle implicazioni etiche della fine della specie umana si intersecano con riflessioni più note e discusse, che descrivono la vita umana in termini di “impatto” dei comportamenti e considerano una priorità morale la sopravvivenza di altre specie e la conservazione dell’ambiente. Da questo tipo di prospettive la sovrappopolazione è generalmente considerata un male nella misura in cui comporta un eccessivo sfruttamento delle risorse a spese di altre specie non umane: sfruttamento che può essere ridotto attraverso determinati comportamenti individuali e radicali trasformazioni nel funzionamento e nell’organizzazione delle società e delle economie, ma non può essere mai zero.

Non avere figli è quindi ritenuta una scelta etica in questo senso, per quanto estrema, perché contribuisce a ridurre la sovrappopolazione: un argomento che potrebbe persuadere, secondo Benatar, persone non ancora convinte che non nascere sia già di per sé preferibile, per ragioni etiche che riguardano l’umanità stessa, non l’ambiente né le altre specie.

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La conclusione tratta da Torres, simile a quella espressa nel 2018 sul New York Times dal filosofo statunitense Todd May, è che l’estinzione umana sarebbe allo stesso tempo una buona cosa e una catastrofe. Sarebbe un bene perché è innegabile che l’umanità sia una forza in grado di causare grandi mali, sia in termini di intollerabili atrocità, ai danni di umani e animali, sia in termini di devastazione dell’ambiente e cancellazione di ecosistemi. Quanto alle mancate opportunità future, è vero che non ci sarebbe più amore, per esempio, ma non ci sarebbe nemmeno dolore per la fine di un amore: e molte persone sarebbero probabilmente d’accordo, secondo Torres, sul fatto che quel tipo di dolore faccia star male più di quanto l’amore faccia star bene.

Ma l’estinzione sarebbe allo stesso tempo una catastrofe, secondo Torres, e probabilmente lo sarebbe in un senso che è impossibile da cogliere. In un saggio del 1962 il filosofo tedesco Günther Anders affermò che l’invenzione delle armi nucleari ha reso gli esseri umani «utopisti alla rovescia». Se gli utopisti sono quelli che non sono in grado di realizzare ciò che sono in grado di immaginare, scrisse Anders, gli utopisti alla rovescia sono quelli «non in grado di immaginare ciò che stanno effettivamente realizzando».

La ragione per cui non siamo in grado di immaginare quanto sarebbe catastrofica una nostra estinzione è dovuta a una nostra connaturata incapacità di immaginare conseguenze che percepiamo come smisurate: un fenomeno cognitivo definito dallo psicologo statunitense Paul Slovic «insensibilità psichica» (psychic numbing).

È lo stesso fenomeno per cui percepiamo come di grande importanza salvare una vita, quando quella vita è la prima o l’unica a essere salvata, secondo Slovic, e percepiamo un’importanza leggermente minore man mano che aumenta il numero di vite salvate. Al punto che non saremmo nemmeno in grado di apprezzare la differenza «tra salvare 87 vite e salvarne 88, se queste prospettive ci venissero presentate separatamente». Già soltanto il fatto che l’estinzione sia una condizione dalle conseguenze per noi inimmaginabili è quindi una ragione sufficiente a cercare di ridurne il più possibile il rischio.

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Ci sono infine altre ragioni che rendono l’estinzione qualcosa di massimamente indesiderabile, secondo Torres, anche se queste ragioni secondo lui non riguardano propriamente la morale: perlomeno non nel senso in cui la riguardano le considerazioni sulla felicità e sul dolore della specie. Una di queste è che l’estinzione della specie umana implicherebbe anche la fine della poesia, della musica e di tutte le arti.

L’estinzione provocherebbe soprattutto l’interruzione della comprensione scientifica, un’«impresa transgenerazionale», e lascerebbe lavori incompiuti e questioni irrisolte. Sarebbe un peccato troppo grande se l’umanità scomparisse dopo essere emersa, essersi «guardata intorno nell’Universo con perplessità e soggezione» ed essersi posta domande che scomparirebbero prima di aver avuto risposta.

Le riflessioni sulle conseguenze etiche dell’estinzione sono «un argomento immensamente florido e sorprendentemente complicato», ha concluso Torres. A un livello fondamentale tutti sono d’accordo sul fatto che l’estinzione sarebbe un evento grave e con conseguenze probabilmente incalcolabili. Ma su tutte le altre questioni che l’estinzione pone esiste soprattutto disaccordo, e ci sono probabilmente ancora molte altre intuizioni e prospettive da scoprire.