Io, “The Whale” e voi

«Io mi faccio la doccia ogni giorno, non mi pulisco le mani sporche sulla maglietta, mi taglio le unghie, non prendo a manate il computer quando lo accendo, non sverso la marmellata direttamente dal vasetto e non prendo a schiaffi le cose che mangio. La realtà è piena di persone magre che vivono nello squallore in cui vive Charlie, e il peso non incide sulle scelte di come coltivare il proprio spazio domestico»

Brendan Fraser in "The Whale"
Brendan Fraser in "The Whale"

Sono andato a vedere The Whale di Darren Aronofsky con Brendan Fraser sapendo che mi avrebbe fatto male. Le mie ultime analisi del sangue, infatti, hanno rilevato che ho i livelli di cortisolo nella norma ma leggermente alti rispetto al solito. Il cortisolo alto è alla base, molto probabilmente, non tanto del mio ultimo aumento di peso – durante il lockdown ho preso molto velocemente circa venti chili, arrivando al mio record assoluto di 170 chili – ma dell’inedita difficoltà che sto avendo nel perderli, essendo riuscito in due anni a smaltirne solo 5. Da quando ho superato i 130 chili di peso, intorno al 2007, faccio le analisi del sangue ogni due anni, per monitorare tutti quei valori che in letteratura medica sono tradizionalmente legati all’obesità, livelli di glicemia e di colesterolo tra tutti, che sono alla base del diabete di tipo 2 (il diabete degli obesi) e della grande famiglia delle malattie cardiovascolari. Tutte quelle cose per cui ogni volta il mio medico di base mi guarda e dice «Se va avanti così lei a cinquant’anni non ci arriva».

Nonostante la scommessa, i risultati delle mie analisi sono sempre stati perfetti. Una volta un medico mi ha chiesto, guardando incredulo il referto, se avessi scambiato le provette con quelle della mia morosa, magra, che mi aveva accompagnato. Due anni prima della pandemia ho iniziato un lavoro nell’industria dei contenuti digitali e con l’arrivo del lockdown è arrivato anche per me un ammontare di pressione lavorativa che non avevo mai conosciuto e affrontato prima di allora.

Nel frattempo ho compiuto quarant’anni, l’età in cui gli sportivi si ritirano dall’agonismo e il mio corpo, così come il ginocchio di Zlatan Ibrahimovic, ha cominciato a manifestare qualche segno di cedimento. Difficoltà a digerire alcuni cibi e qualche dolore muscolare. Così non appena gli ospedali sono tornati a occuparsi delle cose ordinarie, mi sono fatto prescrivere delle analisi del sangue per verificare che non ci fossero novità. I valori li devo guardare e indagare io perché per il mio medico di base, qualsiasi problema io abbia, è dovuto al mio aspetto fisico. Non si disturba nemmeno a prendere lo stetoscopio: mi guarda e basta. Anche se entrassi nel suo studio con un coltello piantato nella schiena, mi direbbe che se avessi meno superficie sarebbe stato più difficile accoltellarmi.

Ora so che devo cercare, da qui in avanti, di tenere basso il livello del cortisolo, l’“ormone dello stress”, cercando di evitare tutto quello che mi rende nervoso. Per questo sapevo che il nuovo film di Darren Aronofsky mi avrebbe fatto male. Ma sapevo anche che ancora peggio mi avrebbe fatto sentirne parlare da altre persone senza averlo visto, come mi era successo a settembre dopo che era stato presentato al Festival di Venezia. Allora potevo solo dire che era un film che parla di un uomo molto grasso scritto da un uomo magro, diretto da un regista magro e interpretato da un attore forse un po’ fuori forma ma decisamente normopeso. Come se nel 1989 Fa’ la cosa giusta di Spike Lee fosse stato scritto e interpretato da Tom Hanks. A soli due giorni dall’uscita in sala però avevo già dovuto rispondere a una decina di messaggi di persone che mi chiedevano se avessi visto il film e cosa ne pensassi, non come critico cinematografico ma in quanto obeso.

The Whale è un film tratto da una pièce teatrale scritta da Samuel D. Hunter, che va in scena nei teatri OFF da una decina d’anni. Il protagonista è Charlie, un uomo molto grasso che vive sul divano di casa sua, circondato da una generale incuria e da cibo spazzatura, e che prima di morire di obesità cerca di ricostruire il rapporto con sua figlia, avuta da un matrimonio contratto prima di manifestare la sua omosessualità e divorziare.

Hunter ha trasformato la sua drammaturgia in una sceneggiatura per il cinema che, dopo essere passata da diverse mani, è arrivata in quelle di Darren Aronofsky, un regista che da sempre unisce ai suoi film una qualche polemichetta strategica a far andare le persone al botteghino. Aronofsky sceglie come attore principale Brendan Fraser, ex manzo di Hollywood degli anni Novanta in fase di riscoperta dopo quindici anni di oblio.

Il problema è che, anche se un po’ appesantito dagli anni e dai farmaci, Fraser non è obeso. Per cui Aronofsky, così come Hunter in teatro, ha dovuto far ricorso a delle pratiche di “fatface” – il corrispettivo grassofobico della “blackface” – per rendere Fraser enorme come la balena Moby Dick. Fatface e blackface hanno in comune che se non prendi un corpo esistente, ma lo crei da zero, lo crei partendo dalle tue idee e dai tuoi pregiudizi, per cui inevitabilmente quello che ne esce è una caricatura. Se nel caso della blackface il trucco era una caricatura studiata per il piacere e la coscienza delle persone bianche, così in questo film la fatface è creata per la compassione e le lacrime delle persone magre.

Per sembrare grasso Brendan Fraser ha dovuto indossare una fatsuite, una tuta di gommapiuma, un’evoluzione di quella che usava Gianfranco D’Angelo per impersonare Il Tenerone nel Drive In. Quando ho visto comparire il protagonista sullo schermo, però, devo dire che a me, obeso di circa cento chili in meno di Charlie, vedere quella tuta non ha dato fastidio. E non mi ha dato fastidio perché, appunto, si vede che è una tuta.

Un corpo vero non avrebbe mai quella forma, non prenderebbe mai quelle pieghe, non avrebbe mai quelle mani. Per chi è magro e vuole andare al cinema è importante sapere che The Whale è un film di finzione. Anzi è un film di fantascienza. La tuta prostetica sta a Fraser così come i peli di Chewbecca stavano agli attori che lo hanno interpretato in Guerre Stellari.

Per distinguere i due piani, quello della fantascienza e quello della realtà, bisogna averne vissuto almeno uno dei due. Per me era facile, vivendo una quotidianità da persona obesa. Ma chi è magro ha difficoltà a distinguere la fiction dal documentario. Il rischio, quindi, è che le persone, una volta uscite dal cinema, inizino a rapportarsi a noi obesi secondo le cose che hanno imparato dal film, facendo ancora più danni di quelli che già fanno normalmente. Per questo ho stilato una piccola guida per aiutare le persone magre a capire questo film di fantascienza.

1. Charlie, il protagonista, non è una persona obesa. Non c’è nemmeno bisogno di entrare nei diversi gradi e tipi di obesità. Charlie è un personaggio che nella realtà non esiste. La forma del suo corpo, che si vede anche nudo mentre si stende a letto, i suoi movimenti, il suo dolore fisico accompagnato da lamenti a ogni movimento o alla minima risata, non accadono nella vita reale. Per interpretare quel personaggio di finzione serviva per forza un costume con delle mani di plastilina e sacche di gommapiuma, così come serve un costume per interpretare La Cosa de I Fantastici Quattro;

2. Essere obesi non fa schifo. Charlie è una persona disgustosa, ma il suo peso non c’entra niente con questo. A me non è mai capitato di ridurmi allo stato di squallore in cui lui vive: mi faccio la doccia ogni giorno, non mi pulisco le mani sporche sulla maglietta, mi asciugo l’unto sulla bocca con un tovagliolo, mi taglio i capelli, mi taglio le unghie, non prendo a manate il computer quando lo accendo, chiudo la porta del frigo quando ho tirato fuori quello che mi serve, metto la marmellata nel panino con il coltello e non sversandola direttamente dal vasetto e non prendo a schiaffi le cose che mangio. La realtà è piena di persone magre che vivono nello squallore in cui vive Charlie, e il peso non incide sulle scelte di come coltivare il proprio spazio domestico;

3. L’obesità non ha niente a che vedere con un trauma. All’inizio del film scopriamo che Charlie è ingrassato così tanto per punirsi per la morte del suo compagno. Tra i tanti modi che uno ha per togliersi la vita, mangiare sarebbe il più stupido, e le sue probabilità di riuscita sarebbero praticamente nulle. Se ci fosse una stretta correlazione tra un trauma e l’obesità, tutte le persone che hanno subito un trauma sarebbero obese.

L’obesità nasce dalla reazione che un corpo ha al cibo di cui si nutre e ogni corpo reagisce al cibo diversamente, così come la pelle di ogni individuo reagisce diversamente al sole. Le scelte alimentari contribuiscono al peso non solo nella quantità ma nel tipo di cibo, e sono comunque parte di una combinazione complessa che coinvolge anche ormoni, metabolismo, pubertà, menopausa, mobilità, funzionamento della tiroide, stress, infiammazioni, ansia, insonnia e tutto quello che ancora abbiamo da scoprire. Nella quasi totalità dei casi avviene nell’arco di anni o di decenni.

Io ho raggiunto il peso che ho ora in tre momenti: durante l’adolescenza quando ho smesso improvvisamente di fare moltissimo sport a livello agonistico per iniziare a suonare e a bere la birra in sala prove, quando ho preso circa quaranta chili in due anni. La seconda è con il passaggio da un lavoro fisicamente attivo come quello del barista a uno più sedentario e al computer come quello di autore, che ha ridotto la mia mobilità, quando ne ho presi circa altri venti in un paio d’anni. E poi un ultimo ingrassamento da lockdown, ancora in fase di indagine. Nessuno di questi tre momenti è stato un “trauma”. Sono stati lunghi periodi di cambiamento, e non sempre negativi;

4. Le persone obese non usano amiche come badanti. Uno dei migliori personaggi del film è Liz, interpretata da una bravissima Hong Chau (l’unica che meriterebbe un Oscar). È badante e amica insieme, si prende cura di Charlie affiancandolo nel suo percorso di autodistruzione anziché ostacolarlo. Nella vita reale le persone obese ci tengono a tener separati gli affetti personali dai ruoli assistenziali, per non mischiare due diversi tipi di pregiudizio.

Da parte di amici e familiari c’è da contrastare il pregiudizio morale, l’idea che un corpo, solo perché ha quell’aspetto, sia la metafora delle loro paure proiettate attraverso la nostra forma come se fossimo un prisma. Diventiamo simbolo della loro paura di “lasciarsi andare” o non sapersi sacrificare o sottomettere, così ci chiedono di cambiare la nostra forma esteriore per non essere costrette a ricordarsi della loro fragilità interiore, anche se noi, con quel peso, stiamo tutto sommato bene.

Il personale sanitario invece applica sulle persone grasse il pregiudizio medico, aumentato negli ultimi anni a fronte dell’aumentare della pressione della sanità privata su quella pubblica. In Lombardia, ad esempio, gli interventi di chirurgia bariatrica sulle persone obese rappresentano il secondo intervento più redditizio per una struttura privata convenzionata con il servizio sanitario nazionale. Per questo a volte il personale degli ospedali, soprattutto quello che riceve una percentuale dagli interventi, tenta di convincere le persone obese a intervenire sul loro corpo senza una reale necessità. Pregiudizio morale e pregiudizio medico sono due fronti diversi che necessitano di diverse strategie di difesa;

5. Le persone obese non sono condannate a morte, almeno non più delle altre. Il ritmo del film è scandito da una lotta contro il tempo dato che Charlie si è condannato a morte a forza di ingurgitare cibo e vomitarselo addosso. L’obesità non è una malattia, non si muore di obesità. L’obesità è una misurazione del corpo attraverso una convenzione, il BMI (Body Mass Index): equivale all’altezza o al colore della pelle.

Ci possono essere malattie legate a uno stato di obesità, così come ci sono quelle legate all’ereditarietà, al lavoro o allo sport. Nel film non si sa a quale tipo di morte Charlie stia andando incontro e non si sa quale malattia provochi il fischio che produce quando respira. Sappiamo solo che il suo aspetto fisico è il segnale della sua morte imminente. Nella realtà la morte fa un po’ quello che vuole ed è anche per questo che una persona attiva come Raffaella Carrà è morta a 78 anni, mentre Paolo Villaggio e Maurizio Costanzo a 84;

6. Non serve chiedere “mi trovi disgustoso?”: il mondo ce lo ricorda di continuo. Charlie continua a chiederlo al giovane neocatecumenale che cerca di convertirlo. Se fosse una persona nella vita reale, non ne avrebbe bisogno. Noi obesi lo sappiamo già di risultare disgustosi a una buona parte del mondo che ci circonda. L’industria della moda non ci considera degni delle proprie creazioni, i designer dei treni e degli aerei non concepiscono la nostra esistenza nella loro idea di essere umani – extra legs sì, extra hips no – e le persone ridono molto quando ci mettiamo una tuta per andare a camminare o usiamo una bicicletta per spostarci.

Ogni nostro incontro con un’altra persona è una faticosa scalata per toglierle dagli occhi le fette di pregiudizio culturale nei confronti del nostro corpo e farle capire che tutto quello che sanno sulla nostra condizione è sbagliato. È un’attività faticosa, a volte snervante, ma paga: è grazie a quella se riusciamo ad avere carriere soddisfacenti e relazioni sentimentali sessuali felici e appaganti come quelle delle persone normopeso;

7. Le balene non sono più quelle di una volta. Il film si apre con Charlie che chiede di farsi leggere un saggio su Moby Dick – o la balena di Melville, perché era la migliore cosa che aveva fatto nella vita. Nel film Charlie è la balena, e per quanto si cerchi di nobilitare la metafora con la lettura del saggio, l’accostamento subdolo è semplicemente legato alla dimensione dell’animale. Charlie è grasso come una balena.

Per fortuna dall’uscita del romanzo sono passati centosettant’anni e di cose sulle balene ne abbiamo scoperte parecchie. Abbiamo scoperto che il grasso consente loro di isolare gli organi interni dalle temperature variabili degli oceani. Abbiamo scoperto che sono un anello fondamentale dell’ecosistema terrestre, e che sono in grado di svelare molto dei maltrattamenti che l’uomo infligge al pianeta (dal loro cerume si può tracciare quali sostanze vengono sversate nei mari).

Possiamo dire oggi che la dimensione di una balena è solo uno degli aspetti che vale la pena indagare. Nel bellissimo saggio Le regine dell’abisso uscito recentemente per Aboca Edizioni la scrittrice Rebecca Giggs si sofferma sull’importanza degli occhi delle balene in grado di svelare all’essere umano qualcosa di sé, proprio perché sono il dettaglio di una dimensione così grande che non si riesce a concepire;

8. The Whale non parla di voi, e nemmeno di noi. Da appassionato di cinema penso che di The Whale ci dimenticheremo in fretta. Però alle persone magre il film sta piacendo. Piace perché è un melodramma, e siccome al regista piace esagerare, è un melodramma esagerato. Il melodramma è un genere che gioca la sua forza nella compassione, nel suscitare nello spettatore dispiacere e sollievo per qualcosa che vede compiersi davanti ai suoi occhi ma che sa che non gli accadrà mai.

È lo stesso meccanismo che ci fa commuovere quando Violetta muore di tisi ne La Traviata, quando Jack affonda congelato nel finale di Titanic o quando Riccardo Cocciante si mette a colorare case, vicoli e palazzi perché Margherita ama i colori. Le persone grasse che si stanno lamentando del film non si lamentano della qualità del film: si lamentano che venga attribuito a un aspetto fisico una qualità morale che nella realtà non ha. Così come essere neri non equivale a essere delinquenti o essere gay non equivale a essere frivoli. E la tipizzazione, l’accostamento di un elemento visivo con un carattere, incide poi nella costruzione del pregiudizio che peggiora la qualità della loro vita quotidiana;

9. Non posso fare spoiler, ma c’è un’ultima cosa da dire che riguarda il ridicolo finale. Dico ridicolo perché, senza nemmeno accorgermene, sull’ultima scena mi è scappata una risata a voce alta in sala, a cui hanno fatto seguito altre risate di sconosciuti, seduti qualche fila più in là. Magri ma, evidentemente, intenditori di cinema. Diciamo che il finale rende abbastanza evidente che è un film di fantascienza, con effetti speciali venuti anche particolarmente male;

10. Se questo articolo vi ha fatto innervosire o pensate di poter avviare lunghe sessioni di spiegazione su come The Whale sia una metafora complessa che tira in ballo filosofi e scrittori vari, vi consiglio prima di mangiare qualcosina: aiuta a mantenere la calma, a pensare meglio e a tenere bassi i livelli di cortisolo.

Jonathan Zenti
Jonathan Zenti

È autore di podcast e scrittore. Nato a Verona nel 1981, è particolarmente appassionato di relazioni umane, musica di dubbio gusto e polemiche pop. Ama il pericolo, per cui gira in bici per Milano.

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