L’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione dell’epidemia, spiegata

Quali sono le accuse, chi è coinvolto, cosa succede ora e da cosa dipenderà l'esito di un eventuale processo

bare bergamo covid
Un operatore della Protezione civile accanto alle bare di alcuni morti di Covid in provincia di Bergamo (Marco Di Lauro/Getty Images)

La chiusura delle indagini nell’inchiesta sulla gestione della pandemia da coronavirus in provincia di Bergamo, dove durante la cosiddetta prima ondata morirono migliaia di persone, consente di ricostruire le azioni, le decisioni e soprattutto le omissioni delle persone che a diverso titolo avevano la possibilità o la responsabilità di intervenire per contenere la trasmissione dei contagi. Negli ultimi tre anni la procura di Bergamo ha sequestrato migliaia di documenti, mail, chat telefoniche e ascoltato centinaia di testimoni tra politici, medici e infermieri.

L’inchiesta si basa principalmente sulla mancata istituzione della cosiddetta “zona rossa” nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro e sull’applicazione del piano pandemico nazionale, un documento che dovrebbe dare indicazioni sulle misure di sicurezza da introdurre in caso di pandemia. Le accuse dei magistrati si possono quindi dividere su tre livelli decisionali: nazionale, regionale e provinciale.

I magistrati hanno indagato anche sulla chiusura e riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, il 23 febbraio del 2020, dopo la confermata positività di due pazienti, ma nelle 35 pagine dell’avviso di chiusura delle indagini non compaiono riferimenti a quell’episodio.

Tra gli indagati ci sono l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro, l’allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli. Ci sono poi dirigenti delle aziende sanitarie bergamasche e dell’ospedale di Alzano direttamente coinvolti nella gestione dell’emergenza. Le posizioni di Conte e Speranza dovranno essere valutate dal tribunale dei ministri, un organo speciale presente all’interno di ogni Corte d’Appello che ha competenza sui reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni.

I reati ipotizzati sono epidemia colposa, che punisce «chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni», omicidio colposo, omissione di atti d’ufficio e falso. Negli atti dell’inchiesta sono state raccolte le denunce dei famigliari di 57 persone morte di Covid nella prima fase dell’epidemia.

Le accuse dai risvolti più politici che coinvolgono i livelli decisionali più alti, in particolare l’ex presidente del Consiglio Conte e il presidente lombardo Fontana, riguardano soprattutto la mancata istituzione della zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano.

I magistrati hanno commissionato uno studio epidemiologico al microbiologo Andrea Crisanti, attualmente peraltro senatore del Partito Democratico: secondo lo studio, basato anche sui dati delle indagini fatte da Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler, consulente del governo nella gestione dell’epidemia, se fosse stata istituita la zona rossa in Valseriana entro il 27 febbraio sarebbero morte 4.148 persone in meno, mentre con l’istituzione delle limitazioni entro il 3 marzo i morti sarebbero stati 2.659 in meno.

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Il 14 gennaio del 2021, durante un sequestro di documenti al ministero della Salute e all’Istituto superiore di sanità, gli investigatori della procura trovarono una bozza di un decreto all’interno di una cartella datata 4 marzo 2020, nella settimana in cui si discuteva della possibile introduzione della zona rossa in Valseriana. Nella bozza si legge che Alzano Lombardo e Nembro dovevano essere aggiunti ai paesi del lodigiano e del Veneto dove erano state introdotte le limitazioni agli spostamenti. La bozza riporta la firma dell’allora ministro Roberto Speranza e non quella dell’ex premier Giuseppe Conte. Nei mesi scorsi entrambi sono stati ascoltati dai magistrati per capire quali fossero i motivi dell’incertezza che portarono a non istituire la zona rossa.

La procura tra le altre cose richiama la responsabilità del presidente della Regione Attilio Fontana che avrebbe potuto adottare misure restrittive in autonomia, senza aspettare una decisione del governo. È una possibilità prevista in casi di estrema necessità e urgenza. Non solo Fontana non chiese la zona rossa, ma in due mail – del 27 e del 28 febbraio del 2020 – chiese il «sostanziale mantenimento» dei provvedimenti in corso, «non segnalando alcuna criticità relativa alla diffusione del contagio nei comuni della Valseriana».

Tra gli indagati per la mancata istituzione della zona rossa ci sono anche i componenti del comitato tecnico scientifico. Negli atti si fa riferimento a una riunione del 28 febbraio. I magistrati dicono che i componenti del comitato tecnico scientifico in quell’occasione si limitarono a «proporre esclusivamente misure integrative, espressamente ispirate a un “principio di proporzionalità e adeguatezza” (quali, tra le altre, sospensione delle manifestazioni sportive, chiusura di scuole e asili etc)» nonostante già allora gli esperti fossero stati informati dell’alto numero di casi segnalati in Lombardia.

Per la mancata applicazione del Piano pandemico nazionale e regionale sono indagati l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, l’ex assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera, l’allora direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazzo e tre componenti del comitato tecnico scientifico: Claudio D’Amario, Angelo Borrelli, Silvio Brusaferro.

Da quanto è emerso finora, sembra che l’Italia avesse un piano pandemico ma non lo aggiornasse dal 2006, dal momento che gli aggiornamenti successivi – compreso l’ultimo del 2017 – non avevano apportato alcuna modifica sostanziale.

In particolare vengono contestate la mancata fornitura di dispositivi di protezione, soprattutto di mascherine e ventilatori polmonari, e la disorganizzazione nelle strutture sanitarie. Nella prima fase dell’epidemia non furono attuati protocolli per controllare i viaggiatori in arrivo dalle zone a rischio con voli indiretti e soltanto il 4 febbraio fu verificata la dotazione di guanti, mascherine, tute, sovrascarpe per il personale sanitario. Nonostante la mancanza di dispositivi di protezione in tutta Italia, non fu sollecitato un tempestivo approvvigionamento.

La chiusura e la riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo non sono state incluse nell’avviso di chiusura delle indagini, e quindi di fatto sono state tolte dall’inchiesta, perché Crisanti nella sua perizia ha concluso che quell’episodio non avrebbe avuto effetti significativi sulla diffusione del contagio, in quanto è stato dimostrato che molte persone si erano ammalate di Covid prima del 23 febbraio 2020.

I magistrati contestano comunque le morti avvenute all’interno dell’ospedale e per questo hanno indagato Francesco Locati e Roberto Cosentina, rispettivamente direttore generale ed ex direttore sanitario dell’azienda socio sanitaria Bergamo Est, da cui dipende la struttura di Alzano, e Giuseppe Marzulli, nel 2020 responsabile nella gestione delle emergenze sanitarie del presidio sanitario da cui dipende l’ospedale di Alzano Lombardo.

Locati e Cosentina sono accusati di non aver verificato la disponibilità di dispositivi di protezione e non avrebbero disposto sufficienti esami per prevenire la diagnosi di Covid per almeno 25 pazienti infettati. Marzulli invece non avrebbe assicurato il fabbisogno di mascherine e guanti, la distribuzione e lo stoccaggio in caso di eventuali emergenze. «Né io né i miei colleghi indossavamo mascherine, ma solo guanti. E di tamponi ne avevamo solo tre», si legge nelle dichiarazioni fatte ai magistrati da un’infermiera in servizio al pronto soccorso il 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo, pubblicate dall’Eco di Bergamo. «Non è stato sanificato ogni passaggio del paziente e quindi né la radiologia né i corridoi sono stati sanificati».

Nei prossimi giorni le persone indagate hanno la possibilità di presentare memorie difensive, cioè documenti per sostenere la loro innocenza, o chiedere di essere interrogate dai magistrati. Successivamente la procura, anche sulla base dei nuovi documenti, potrà chiedere l’archiviazione oppure il rinvio a giudizio. A quel punto sarà il giudice per l’udienza preliminare a decidere se accogliere la richiesta o meno, e quindi eventualmente se iniziare un processo.

«Senza furori accusatori o ricerca di una nuova storia della colonna infame, credo che sia stato giusto indagare e ora che sia qualcun altro, ovvero dei giudici, a tirare le conclusioni», ha detto alla Stampa il procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani. «Lo spirito che ci ha mosso è stato quello di raccontare con puntigliosità quello che era successo nei primi mesi del 2020 alla popolazione e cosa non sarebbe successo se non si fossero fatti certi errori».

Per i giudici sarà molto complicato valutare le accuse presentate dai magistrati soprattutto perché la diffusione del contagio è stata così estesa e rapida da rendere molto difficile l’attribuzione di responsabilità dirette dovute ad azioni e omissioni. Per la stessa incertezza sono state archiviate quasi tutte le altre inchieste aperte sulla gestione dell’epidemia in altre regioni.

I giudici dovranno decidere in merito a comportamenti omissivi. Il problema più rilevante riguarda il fatto che misure adeguate di prevenzione, come l’applicazione del piano pandemico o l’istituzione della zona rossa, sono in grado di ridurre in modo significativo il rischio di contagio, ma non di azzerarlo.

In questo contesto di incertezza gli studi epidemiologici hanno un ruolo determinante. Un eventuale processo, insomma, dipende dal grado di affidabilità che i giudici decideranno di attribuire allo studio epidemiologico su cui si basa l’accusa dei magistrati. «Per non illudere i parenti delle migliaia di vittime falciate dal virus nel 2020 (la prima pandemia dall’entrata in vigore del codice penale), va rilevato che la scelta dei magistrati di Bergamo si basa su un orientamento molto minoritario della Cassazione sulla configurabilità del reato di epidemia colposa», ha scritto Riccardo Nisoli, giornalista del Corriere Bergamo.

«La maggior parte delle sentenze della Suprema Corte stabilisce infatti che la commissione di questo reato implichi una “condotta attiva”, cioè l’indagato deve “cagionare l’epidemia” contagiando qualcuno “mediante spargimento di germi patogeni”. Lo spargimento non è oggettivamente contestabile a nessuno degli indagati. E se così non fosse, resterebbe comunque da provare il nesso causale ricostruendo il flusso delle infezioni, compito arduo dato che, tanto per fare un esempio, nell’ospedale di Alzano, al momento della chiusura, erano già 96 i contagiati, stando alla relazione di Andrea Crisanti».