Si possono rinnovare gli inni nazionali?

Aggiornarli servirebbe a rendere i testi meno anacronistici e sconvenienti, ma potrebbe far emergere altre questioni

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La nazionale francese di tennis al torneo United Cup a Perth, in Australia, il 30 dicembre 2022 (Paul Kane/Getty Images)
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I testi degli inni nazionali, per quanto diversi uno dall’altro, hanno molte cose in comune. Una di queste è la frequente presenza di riferimenti storici, culturali e linguistici abbastanza inattuali da essere in molti casi difficili da cogliere o comprendere oggi. È una caratteristica che riguarda ovviamente gli inni di paesi le cui origini risalgono a tempi molto remoti, e meno quelli scritti più di recente. Ma più o meno tutti sono ugualmente esposti al rischio di diventare obsoleti con il passare degli anni.

In molti paesi esiste un dibattito riguardo all’opportunità di rinnovare gli inni nazionali aggiornandone i testi. Chi è favorevole la considera una scelta utile a rendere i testi più comprensibili, prima di tutto, e più rappresentativi di valori e sentimenti popolari oggi, che siano condivisi da un’ampia parte della popolazione e più facilmente riconoscibili come unificanti. È peraltro una delle ragioni – non l’unica – per cui è capitato che gli inni cambiassero in passato e, molto probabilmente, cambieranno ancora in futuro.

Altre persone considerano invece sconsigliabile e di difficile realizzazione l’idea di rinnovare gli inni nazionali, in assenza di eventi storici dirompenti che creino i presupposti per stabilire una discontinuità con la tradizione. Non è detto, per esempio, che sia semplice mettersi d’accordo su quali parti degli inni richiedano di essere aggiornate e come.

Le modifiche potrebbero inoltre comportare l’eliminazione di riferimenti a storie nazionali che proprio gli inni, secondo qualcuno, dovrebbero invece contribuire a mantenere vive nella memoria collettiva. Succede spesso però che proprio quelle parti siano le più trascurate e oscure degli inni. O che siano quelle percepite come più anacronistiche, e in alcuni casi discriminatorie: distanti, in altre parole, dai valori collettivi che un paese desidera sintetizzare ed esprimere attraverso il proprio inno.

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Molti inni nazionali risalgono al XIX e alla prima metà del XX secolo: in generale a un periodo della storia in cui una certa retorica patriottica e militare non suonava sorprendente o bizzarra, tantomeno in un inno il cui obiettivo era perlopiù quello di suscitare sentimenti nazionalisti. Così come non erano inappropriati i molti riferimenti ai soldati caduti nelle guerre.

È un discorso che vale notoriamente anche per l’inno d’Italia, tra gli altri, chiamato “Canto degli italiani” ma noto come “Inno di Mameli”, dal nome del ventenne poeta genovese che lo scrisse nel 1847, Goffredo Mameli (la melodia fu composta dal musicista genovese Michele Novaro). Tutto il testo è intriso del patriottismo che animò i moti rivoluzionari del 1848 e il Risorgimento italiano, e che emerge fin dalla prima strofa e dal ritornello («Stringiamci a coorte»). È l’unica parte dell’inno solitamente eseguita nelle occasioni ufficiali e durante gli eventi sportivi, quella che contiene vari riferimenti all’antica Roma tra cui l’«elmo di Scipio» e la coorte, l’unità militare composta da 600 soldati e corrispondente a un decimo della legione.

Le successive strofe dell’inno – che in pochi ricordano – contengono riferimenti storici non così immediati ma da cui si evince come la guerra fosse, in tutti i casi citati, il principale mezzo di risoluzione dei conflitti. L’inno cita, tra le altre cose, la battaglia di Legnano che nel 1176 permise alla Lega Lombarda di respingere l’esercito di Federico Barbarossa. E cita altri episodi di insurrezione, come i Vespri siciliani del 1282, e personaggi storici non subito e non a tutti noti, come il capitano della Repubblica di Firenze Francesco Ferrucci, morto nel 1530 combattendo contro l’esercito del re di Spagna Carlo V d’Asburgo.

Una delle immagini più cruente dell’Inno – in origine censurata dal governo piemontese – è descritta nella quinta strofa, sebbene tramite parole intese in senso figurato: «L’aquila d’Austria le penne ha perdute; il sangue d’Italia bevé, col Cosacco il sangue polacco: ma il cuor le bruciò». È la parte in cui Mameli allude alla repressione dei polacchi in Galizia nel 1846 da parte dell’Impero austriaco, descritto come un impero in declino, e dell’Impero russo (il «Cosacco»), dopo che nel Settecento Austriaci e Russi si erano spartiti la Polonia d’intesa con la Prussia.

Ci sono inni nazionali in cui il riferimento al sangue è ancora più esplicito. «Marciamo, marciamo! Che un sangue impuro abbeveri i nostri solchi» è la parte conclusiva del noto ritornello della Marsigliese, uno degli inni più riconoscibili al mondo, scritto durante la Rivoluzione francese. E che nella prima strofa fa riferimento a «feroci soldati» che arrivano nelle campagne a «sgozzare i vostri figli e le vostre compagne».

«Le lacrime del sangue mio ardente fluiranno da ogni mia ferita» è invece scritto in una delle ultime strofe dell’inno della Turchia, in uso dal 1921, due anni prima della fondazione della Repubblica. Nelle occasioni ufficiali sono cantate soltanto le prime due strofe, ma anche nella seconda è presente un riferimento esplicito al sangue.

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A volte il riferimento al sangue è anche metatestuale, come nel caso dell’inno nazionale dell’Algeria, in uso dal 1963. A scrivere il testo fu nel 1955 il poeta berbero mozabita Moufdi Zakaria, legato ai gruppi nazionalisti algerini che dopo la Seconda guerra mondiale guidarono il paese verso l’indipendenza dalla Francia. Si racconta che, dopo essere stato torturato e imprigionato, e privo di strumenti per scrivere, Zakaria scrisse l’inno con il proprio sangue sui muri della cella.

Nella prima parte dell’inno – l’unica cantata nelle occasioni ufficiali, quindi anche dai calciatori prima delle partite – c’è un riferimento esplicito ai «fiumi di sangue versato» per raggiungere l’indipendenza. Altre parti fanno riferimento alla «polvere da sparo», descritta come «il nostro ritmo», e al «suono delle mitragliatrici», descritto come «la nostra melodia».

Alla storia dell’Algeria è legata, tra le altre cose, anche la complicata questione del Sahara Occidentale, un’area contesa dal Marocco e dalla Repubblica Democratica Araba dei Saharawi (RASD), uno Stato fondato nel 1976, riconosciuto dall’Unione Africana ma non dall’ONU e storicamente protetto dall’Algeria. Una parte dell’inno nazionale della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi, altro esempio abbastanza estremo di inno violento, è un invito a «tagliare la testa dell’invasore».

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Anche tralasciando gli inni dai contenuti più violenti e militareschi, ce ne sono poi altri che suonano particolarmente anacronistici. Uno dei più antichi al mondo, quello dei Paesi Bassi, fu scritto e composto nel 1572, durante l’annosa guerra di indipendenza dei Paesi Bassi dalla Spagna.

L’inno, Het Wilhelmus (Il Guglielmo), è un discorso fatto in prima persona dal fondatore dei Paesi Bassi, il leader politico Guglielmo d’Orange, che nei primi versi scrisse, quasi come una sorta di premessa, di essere «di sangue tedesco» e che «il re di Spagna ho sempre onorato». È la parte dell’inno cantata ancora oggi da calciatori e altri atleti durante gli eventi sportivi, e a volte motivo di coincidenze apparentemente paradossali, come quando la nazionale dei Paesi Bassi affronta quella spagnola.

Nel corso degli anni diversi inni nazionali hanno subìto modifiche in funzione dei cambiamenti determinati dal contesto storico e politico. Uno degli esempi più noti e citati è la travagliata storia dell’inno russo, utilizzato dal 1944 in sostituzione del  precedente (che dalla rivoluzione comunista in poi era stato l’Internazionale socialista). Il testo fu scritto da Sergej Mikhalkov e la musica dal compositore sovietico e direttore del Coro dell’Armata Rossa Alexander Vasilevich Alexandrov.

Dal 1953 in poi, dopo la morte di Stalin e nel contesto più ampio dei provvedimenti di destalinizzazione dell’Unione sovietica, si decise di non usare più le parole durante le esecuzioni dell’inno perché a un certo punto del testo era presente proprio un riferimento a Stalin. Nel 1977, in modo da poter riprendere a cantare l’inno, quel riferimento a Stalin fu eliminato dal testo, mentre fu invece mantenuto quello a Lenin.

Ulteriori modifiche furono apportate nel 2000, quando l’inno fu reintrodotto da Putin per sostituire quello utilizzato per meno di dieci anni dopo la fine dell’Unione sovietica (il Canto patriottico, inno privo di testo e mai diventato popolare). Nella nuova riscrittura, affidata ancora una volta a Mikhalkov, furono eliminati i riferimenti a Lenin, al comunismo e all’«unione indivisibile di repubbliche libere» (quella del primo celebre verso: Soyuz nerushimyy respublik svobodnykh).

Un altro esempio, forse il più noto, di aggiornamento dell’inno nazionale in funzione degli eventi è quello del Regno Unito, che in seguito alla morte della regina Elisabetta II non è più God Save the Queen, “Dio salvi la regina”, ma God Save the King, “Dio salvi il re”. Oltre al titolo sono cambiate anche tutte le occorrenze della parola queen e tutti i pronomi, che da femminili sono diventati maschili.

Altri esempi di modifica parziale dei testi degli inni richiamano ragioni diverse da quelle storiche e politiche, e riflettono piuttosto cambiamenti culturali e di sensibilità su determinati argomenti, tra cui le questioni di genere.

Nel 2011 il parlamento austriaco approvò alcune modifiche dell’inno scritto dalla poeta austriaca Paula von Preradović e in uso dal 1947. Dal 1° gennaio 2012 il riferimento a «figli» nella prima strofa è stato sostituito con «figli e figlie» (töchter und söhne), e nella terza strofa «cori fraterni» (brüderchören) è stato sostituito con «cori di giubilo» (jubelchören). Modifiche di questo tipo furono apportate nel 2018, dopo molte discussioni, anche al testo dell’inno del Canada. E la proposta di rimuovere riferimenti di genere dall’inno nazionale fu discussa nello stesso periodo anche in Germania.

Nel 2015 il Guardian analizzò i testi di diversi inni nazionali per conteggiare le occorrenze di termini al maschile usati senza i corrispettivi femminili («fratelli» ma non «sorelle», per esempio), e viceversa. L’inno italiano risultò essere quello con il maggior numero di occorrenze di parole declinate soltanto al maschile. Altri risultarono invece neutri, in qualche caso anche per caratteristiche della lingua stessa (nella lingua Maori, per esempio, i pronomi sono tutti di genere neutro).

Un caso diverso ancora di aggiornamento del testo dell’inno riguarda quello australiano, che nel 2021 subì una lieve modifica ritenuta necessaria per riconoscere la storia precoloniale del paese. In uso dal 1984 – quando sostituì God Save the Queen, fino a quel momento inno sia britannico che di tutti i paesi del Commonwealth – l’inno australiano fu scritto nel 1878. All’epoca l’Australia era ancora una colonia britannica (ottenne l’indipendenza nel 1901), e quell’inno ebbe molto successo come canzone popolare e patriottica.

A un certo punto dei primi versi l’inno descriveva gli australiani come «giovani»: un riferimento agli australiani dell’epoca coloniale, ma evidentemente non agli aborigeni che abitavano l’isola da secoli prima che diventasse una colonia. Nel 2021 la parola young fu quindi sostituita con la parola one, in una frase che adesso suona così: «gioiamo australiani, perché siamo uniti e liberi».

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In moltissimi casi l’inno nazionale è stato storicamente inteso dai popoli che aspirassero a ottenere l’indipendenza come uno strumento necessario a rafforzare le proprie ambizioni e la propria identità, come disse all’Atlantic il giornalista Alex Marshall, autore del libro sugli inni nazionali Republic or death! Travels in Search of National Anthems. Ed è questa la ragione per cui la speranza è uno dei temi più ricorrenti.

Di conseguenza, il giudizio riguardo agli inni nazionali e a quanto siano espressione dei sentimenti di un paese cambia molto a seconda che li si consideri come opere storiche, e niente più di questo, o piuttosto come riferimenti culturali contemporanei. Bisognerebbe tenere a mente, secondo Marshall, che qualsiasi inno è stato popolare a un certo punto della sua esistenza: ma questo non implica che debba esserlo ancora oggi.

Per i paesi i cui inni risalgono a periodi storici molto remoti, intendere l’inno nazionale come un’eredità storica ma non necessariamente come un’espressione di valori attuali potrebbe servire a evitare di attribuire agli inni stessi significati particolarmente profondi, e di conseguenza ridurre l’animosità nel dibattito sulla necessità di aggiornarli. La presenza di numerosi anacronismi negli inni nemmeno richiederebbe spiegazioni, e ci sarebbe probabilmente maggiore indulgenza nell’interpretazione del testo, se gli inni fossero visti come parte di un rituale prevalentemente simbolico.

Un altro modo di considerare gli inni, cioè prendendoli molto sul serio e letteralmente, porta comprensibilmente a un innalzamento della soglia di attenzione al significato delle parole. «Se le persone si rendessero conto di quanto sono state importanti queste canzoni in passato e quanto siano importanti in alcune parti del mondo oggi», disse Marshall, probabilmente si impegnerebbero di più per cercare di avere un inno in grado di ispirarle a rendere migliore il loro paese.