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  • Venerdì 30 dicembre 2022

Le discutibili politiche economiche di Erdogan in Turchia

L'ultima riguarda una generosa riforma delle pensioni con cui il presidente turco cerca consensi in vista delle prossime elezioni

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Anna Moneymaker/Getty Images)
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Anna Moneymaker/Getty Images)
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Giovedì il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan ha annunciato la fine del requisito dell’età per andare in pensione: significa che i turchi non dovranno più attendere di raggiungere l’età pensionabile (attualmente 58 anni per le donne e 60 per gli uomini), ma basterà aver maturato tra i 20 e i 25 anni di contributi versati. La misura riguarda chi ha iniziato a lavorare prima del settembre 1999 e secondo le prime stime darebbe a oltre 2 milioni di turchi la possibilità di andare subito in pensione. Secondo il ministro del Lavoro, Vedat Bilgin, il nuovo sistema costerebbe oltre 100 miliardi di lire turche all’anno (circa 5 miliardi di euro).

Quella annunciata da Erdogan è una riforma estremamente generosa, soprattutto alla luce di un costante invecchiamento della popolazione (come nel resto del mondo) e che quindi comporterà un costo pensionistico sempre maggiore per lo stato. Ci sono seri dubbi sull’effettiva sostenibilità di questo sistema, che però si inserisce in un contesto più ampio di politiche economiche estremamente controverse attuate da Erdogan e da molti definite populiste, ossia volte a ottenere maggiori consensi in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali che si svolgeranno tra sei mesi.

Il presidente turco, che punta alla rielezione, vuole presentarsi al voto con un’economia che va bene. Dai numeri sembra che la Turchia non stia passando un brutto momento: nonostante la sua economia fosse uscita molto compromessa dalla pandemia da coronavirus, grazie a un’eccezionale spinta del governo su sussidi e politiche economiche molto espansive, alla fine il Prodotto Interno Lordo è cresciuto dell’11 per cento nel 2021 e del 5 nel 2022, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale.

Questa crescita ha avuto però un costo sociale enorme. Dietro a un PIL che cresce a doppia cifra, si nasconde un’economia molto “surriscaldata”: le strozzature nelle catene produttive, la carenza di materie prime, un’offerta che non regge i ritmi della domanda e la crisi energetica hanno portato anche la Turchia a fare i conti con repentini aumenti dei prezzi, e quindi con l’inflazione. I prezzi aumentano e si riduce il potere di acquisto di famiglie e imprese. Sono gli stessi problemi con cui ha a che fare il resto del mondo, ma in Turchia la situazione è molto più seria: l’inflazione a novembre era dell’85 per cento, il che significa che nel giro di un anno i prezzi sono quasi raddoppiati.

La differenza sta nella risposta che è stata data: la classica risposta a un’inflazione così alta è l’aumento dei tassi di interesse di riferimento, ossia i tassi a cui le banche centrali prestano alle altre banche e rappresentano quindi il costo del denaro. L’obiettivo è “raffreddare” un’economia che sta crescendo troppo, in cui si vuole consumare molto di più di quanto il sistema riesca a produrre, con un conseguente aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione.

La Turchia sta al contrario perseguendo una sorta di esperimento economico: Erdogan sta tenendo forzatamente bassi i tassi di interesse perché vuole preservare la crescita economica in ogni modo, anche a costo di far raddoppiare i prezzi. Bassi tassi di interesse invogliano infatti a prendere a prestito denaro per comprare cose o investire. Per esempio, le persone comprano più case, così si assumono più operai per costruirle o ristrutturarle, questi a loro volta spenderanno e l’economia cresce. In più, il fatto che la lira turca sia così debole rappresenta un incentivo alle esportazioni: per chi acquista in valuta estera è relativamente meno costoso comprare beni turchi perché può avvantaggiarsi di un cambio favorevole.

Quando l’economia si “surriscalda” i prezzi iniziano ad aumentare: di solito è il momento in cui le banche centrali alzano i tassi di interessi per far rallentare l’economia. In Turchia la banca centrale non è indipendente, come dovrebbe essere, ma risponde alle logiche politiche dettate dal presidente Erdogan, che sta di fatto “dopando” l’economia turca: la banca centrale turca ha abbassato i tassi mese dopo mese, andando esattamente nella direzione opposta rispetto a tutte le banche centrali dell’Occidente. Ma in Turchia banchieri centrali non hanno scelta se non quella di fare quello che viene detto loro dal presidente, altrimenti vengono licenziati.

– Leggi anche: A Erdoğan non piacciono i banchieri centrali

La sensazione tra gli analisti è che Erdogan stia cercando di risollevare l’economia turca in tempi rapidi per arrivare con buoni consensi alle prossime elezioni politiche, previste tra sei mesi. L’economia turca si sta dimostrando molto resiliente davanti a questa scommessa economica molto particolare: la popolazione sta imparando a convivere con prezzi sempre più alti e soprattutto con una crescente incertezza verso il futuro.

I sostenitori del partito di Erdogan durante una partita allo stadio di Istanbul (Photo by Burak Kara/Getty Images)

Nonostante questo, i turchi sono sempre più impoveriti e sempre più scontenti dell’operato del governo, verso cui la fiducia della popolazione, secondo i sondaggi, è ai minimi storici. La generosissima riforma delle pensioni appena annunciata arriva proprio in un momento in cui il governo ha bisogno di guadagnarsi il consenso dei cittadini.

Recentemente aveva fatto discutere anche un altro provvedimento, considerato altrettanto poco ortodosso in un contesto inflattivo, ma comunque accattivante in vista delle elezioni: Erdogan ha aumentato il salario minimo per i lavoratori in modo che possa tenere conto dell’aumento del costo della vita, ed è ormai il doppio rispetto quanto era a inizio 2022: 8.500 lire turche al mese, circa 425 euro. È il terzo aumento nel giro di un anno, e il presidente turco ha detto che potrebbe deciderne altri in futuro.

In un contesto così inflattivo, e in cui le risposte di politica monetaria sono totalmente controproducenti, l’effetto benefico per i lavoratori durerà solo qualche mese: le aziende dovranno sostenere costi più alti, che poi dovranno compensare con nuovi aumenti dei prezzi. In questo modo viene alimentata quella che in economia si chiama la “spirale prezzi-salari-prezzi”: se si aumentano i salari per compensare l’inflazione, questa di fatto non farà che accelerare e si entra quindi in un circolo inflattivo senza fine.