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  • Domenica 28 marzo 2021

A Erdoğan non piacciono i banchieri centrali

Ne ha licenziati tre in meno di due anni, l'ultimo la settimana scorsa: ed è un serio problema per la Turchia

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 (Presidential Press Service via AP, Pool)
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 (Presidential Press Service via AP, Pool)

La scorsa settimana il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha licenziato Naci Ağbal, il governatore della banca centrale del paese, dopo una disputa su quali strategie adottare per contenere l’inflazione e sostenere l’economia turca. Ağbal, che era in carica soltanto da quattro mesi, è il terzo governatore della banca centrale turca licenziato da Erdoğan in poco meno di due anni.

Secondo gli analisti, l’avversione del presidente turco per i suoi banchieri centrali è sintomo del fatto che l’autoritarismo di Erdoğan si starebbe espandendo anche alle politiche economiche: questo ha messo in crisi l’indipendenza dei banchieri centrali, uno dei capisaldi delle economie di mercato, e potrebbe creare gravi problemi all’economia del paese, che nonostante un tasso di crescita discreto è piuttosto debole e molto indebitata.

Il possibile licenziamento di Naci Ağbal era dibattuto già da settimane tra gli esperti di economia, ma ha comunque colto i mercati internazionali di sorpresa: Ağbal, un ex ministro delle Finanze molto apprezzato, negli ultimi mesi era riuscito a ristabilire la fiducia degli investitori e a ribaltare l’enorme perdita di valore che aveva interessato la lira turca nel corso del 2020. Il 18 marzo l’Economist aveva pubblicato un ritratto molto elogiativo di Ağbal, in cui lo definiva «il banchiere coraggioso di Ankara» ed esprimeva forte approvazione per le sue politiche. Fin dalla titolazione, però, l’Economist spiegava che proprio le ottime politiche di Ağbal stavano facendo innervosire Erdoğan, e che il banchiere centrale avrebbe faticato a tenere il suo posto ancora a lungo: due giorni dopo, il 20 marzo, Ağbal era stato licenziato.

Lo scontro tra Erdoğan e Ağbal si inserisce in una discussione più ampia che apparentemente riguarda la teoria economica ma che in realtà ha molto a che vedere con l’evoluzione politica della Turchia, dove l’autoritarismo sempre più marcato di Erdoğan e l’accentramento del suo potere sono arrivati a influenzare le politiche economiche e monetarie, che fino a pochi anni fa erano lasciate nelle mani di tecnici e di politici moderati.

Questo scontro non ha riguardato soltanto Ağbal, ma anche i suoi due predecessori, Murat Çetinkaya e Murat Uysal, licenziati da Erdoğan rispettivamente nel 2019 e nel 2020 perché si opponevano all’attuazione delle teorie monetarie poco convenzionali del presidente, che ritiene da tempo che l’inflazione si combatta abbassando i tassi d’interesse: è esattamente il contrario di quello che sostiene la teoria economica.

L’economia turca è in condizioni precarie da alcuni anni: la crescita è piuttosto deludente (anche se nel corso del 2020 è stata migliore delle aspettative, e il PIL è aumentato dell’1,8 per cento nonostante la pandemia) e da qualche anno il paese sta combattendo contro una grave crisi che riguarda la svalutazione della lira turca e il controllo del debito nazionale.

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Negli ultimi cinque-dieci anni lo stato, le banche e le imprese della Turchia hanno finanziato la crescita del paese in gran parte facendo debito denominato in valuta estera: fino a pochi anni fa, fare debito in dollari statunitensi o in euro era infatti molto conveniente e vantaggioso, a causa del basso costo del denaro. Questo debito consentì all’economia turca di crescere in maniera rapida e tumultuosa, in alcuni casi superando perfino paesi come la Cina in termini di crescita percentuale del PIL. Nella prima metà dello scorso decennio la Turchia divenne un paese molto ambito dagli investitori internazionali, che continuarono a immettere nel sistema economico molto denaro.

Ma crescere facendo debito, specialmente se questo debito è denominato in valuta estera, è particolarmente pericoloso. Secondo un analista sentito nel 2018 da CNBC, la Turchia aveva circa 180 miliardi di euro di debiti denominati in valute che non erano la lira: era una porzione enorme dell’economia turca, che in tutto vale circa 800 miliardi di dollari. Questo significava che se il valore della lira fosse crollato le imprese turche che avevano finanziato la propria crescita con debito in valuta estera, costrette a ripagare un debito in dollari o in euro con una lira svalutata, si sarebbero trovate in una situazione insostenibile.

La lira crollò proprio in quel periodo, nell’agosto del 2018, dopo una lunga fase di deprezzamento. La causa principale fu una disputa pubblica tra Erdoğan e l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che minacciò di imporre sanzioni economiche alla Turchia, ma in generale la fiducia degli investitori era già traballante da tempo, per varie ragioni, tra cui l’aumento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti e in Europa, che avrebbe reso difficile per la Turchia fare altro debito.

La crisi fu peggiorata anche dal fatto che la Turchia aveva scarsissime riserve di valuta estera: si stimò che al tempo fossero 85 miliardi di dollari, insufficienti per sostenere la lira. Anche il sistema bancario, carico di debiti denominati in valuta estera, entrò in affanno e non riuscì più a sostenere l’economia. La crisi, inizialmente limitata ai mercati finanziari, si trasformò ben presto in una crisi economica reale, che fece crollare il PIL e aumentare a dismisura l’inflazione, cioè il costo di beni e servizi, che crebbe di oltre il 16 per cento. Erdoğan e il suo partito Sviluppo e giustizia (AKP) ne risentirono pesantemente anche in termini politici e di consensi elettorali.

– Leggi anche: Per Erdoğan è arrivato il momento di pagare i debiti

Per contrastare queste crisi, in cui la fiducia dei mercati è un elemento fondamentale, di solito la saldezza e la razionalità della leadership politica sono essenziali. Erdoğan però fece esattamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe da un leader lungimirante: fece leva sul nazionalismo per convincere i turchi a convertire oro e valuta estera in lire, e nominò a capo del ministero del Tesoro Berat Albayrak, un imprenditore entrato in politica dopo aver sposato la figlia del presidente.

Soprattutto, Erdoğan entrò in conflitto con il governatore della banca centrale, che allora era Murat Çetinkaya, sull’opportunità di alzare i tassi d’interesse, misura essenziale per ridurre la quantità di denaro in circolazione e tenere bassa l’inflazione. Erdoğan è contrario da sempre all’aumento dei tassi d’interesse e non l’ha mai nascosto: nel 2018 arrivò a definirli «la madre e il padre di tutti i mali». Secondo gli esperti questa contrarietà ha alcune ragioni ideologiche: aumentare i tassi di interesse significa aumentare gli interessi a cui una banca centrale presta denaro al sistema finanziario, e secondo alcuni ideologi islamisti vicini a Erdoğan questa pratica si avvicinerebbe all’usura, vietata dalle norme islamiche.

Ma la ragione principale per cui Erdoğan è contrario all’aumento dei tassi è soprattutto politica: tassi alti rallentano la crescita, perché quando c’è meno denaro in circolazione ci sono meno investimenti e meno consumi, e se la crescita è scarsa anche il consenso politico di chi è al potere si riduce.

Di solito l’ideologia e i desideri di chi è al governo non sono un gran problema per i banchieri centrali, che nei paesi democratici godono di quasi totale indipendenza. Ma la Turchia non è un paese del tutto democratico, e dopo aver accettato per un breve periodo l’aumento dei tassi, Erdoğan si arrogò il potere di licenziare prima Murat Çetinkaya e poi il suo successore.

Nel tentativo disperato di tenere i tassi bassi e sostenere la lira, il ministro del Tesoro e genero Albayrak decise di usare le già scarse riserve monetarie del paese: tra il 2019 e la metà del 2020 Albayrak bruciò oltre 130 miliardi di dollari per comprare valuta turca sui mercati, senza ottenere grandi risultati.

A metà del 2020, anche a causa dell’arrivo della pandemia da coronavirus, la situazione era così disastrosa che la Turchia rischiava di essere costretta a chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale. Fu allora che Erdoğan decise di cambiare completamente i vertici finanziari del paese e a rassegnarsi a una politica monetaria tradizionale. Fece dimettere Albayrak, creando un certo scompiglio in famiglia (il genero scrisse un post d’addio su Instagram, un po’ risentito, poi cancellò tutti i suoi social network e da allora non ha più fatto nemmeno un’apparizione pubblica), e nominò Ağbal come governatore della banca centrale, garantendogli totale indipendenza.

La sede della banca centrale turca, ad Ankara (Altan Gocher/ZUMA Wire)

Ağbal, ex ministro del Tesoro (era stato sostituito da Albayrak nel 2018) e funzionario moderato dell’AKP, adottò politiche monetarie convenzionali: alzò massicciamente i tassi di interesse – dell’8,75 per cento, portandoli in totale al 19 per cento – e adottò tutta una serie di politiche per rassicurare gli investitori, rendendo più trasparenti le decisioni e assicurando a più riprese che avrebbe fatto di tutto per difendere la valuta turca e riportare l’inflazione dal 15 per cento di febbraio al 5 per cento nel giro di tre anni.

Gli effetti dell’aumento dei tassi furono quasi immediati: se prima della nomina di Ağbal la lira aveva perso oltre il 20 per cento del suo valore nel corso del 2020, dopo la nomina, a novembre, recuperò circa il 18 per cento e passò da essere una delle valute a più alto tasso di svalutazione a una di quelle a più alto tasso di apprezzamento. Anche gli investitori diedero fiducia al nuovo banchiere centrale e nei quattro mesi del suo mandato comprarono asset turchi per un valore di 19 miliardi di dollari.

Insomma, le politiche ortodosse di Ağbal stavano funzionando e le prospettive economiche per la Turchia erano in netto miglioramento: secondo il Fondo monetario internazionale, il PIL turco sarebbe dovuto crescere del 6 per cento nel corso del 2021. Come ha scritto l’Economist: «Una settimana fa la Turchia sembrava destinata a diventare la storia di successo dell’anno tra i mercati emergenti. (…) Poi Recep Tayyip Erdoğan si è intromesso».

Non è chiara la ragione per cui Erdoğan abbia licenziato Ağbal in maniera così improvvisa: poco prima della sua rimozione, il governatore della banca centrale aveva alzato ulteriormente i tassi del 2 per cento, circa il doppio di quanto atteso, e forse questa è stata la ragione immediata. Alcuni analisti che si occupano di Turchia sostengono che dietro alla rimozione di Ağbal potrebbe esserci l’influenza del genero Albayrak, che starebbe cercando di tornare al potere. Un’altra ipotesi è che Erdoğan consideri i miglioramenti degli ultimi mesi sufficienti per tornare alle vecchie politiche ideologiche. «Un po’ di azione ragionevole della banca centrale ha calmato i mercati, così adesso si può tornare a fare cose che non si sarebbe osato quando la valuta stava cadendo in un precipizio», ha detto al Financial Times Refet Gurkaynak, un professore di Economia all’università Bilkent di Ankara.

Il 22 marzo, primo giorno di apertura dei mercati dopo la rimozione di Ağbal, in poche ore la lira ha perso il 15 per cento del suo valore contro il dollaro, e la borsa ha perso il 10 per cento, mentre gli investitori internazionali cercavano di liberarsi degli asset del paese in loro possesso.

Il sostituto di Ağbal nominato da Erdoğan, Şahap Kavcıoğlu, è un ex vicepresidente di Halkbank, una banca di stato turca, un ex deputato dell’AKP e praticamente uno sconosciuto. Subito dopo la nomina, ha cercato di rassicurare gli investitori dicendo che lavorerà per contenere l’inflazione, ma ha anche aggiunto che non ritiene sia necessario mantenere i tassi così alti. Nei mesi scorsi Kavcıoğlu aveva scritto sulla stampa turca alcuni articoli d’opinione in cui si diceva d’accordo con l’idea di Erdoğan secondo cui i tassi alti provocherebbero inflazione, considerata sbagliata dagli economisti.

Se Erdoğan e Kavcıoğlu non riusciranno a ristabilire la fiducia dei mercati, la situazione economica turca potrebbe diventare molto grave, e il governo potrebbe essere costretto a ricorrere a misure estreme come per esempio il controllo dei capitali, per impedire il flusso di capitali stranieri e rafforzare la lira. Il controllo dei capitali sarebbe però dannosissimo per l’economia, che dipende dagli investimenti dall’estero, e secondo gli esperti rischierebbe di bloccare del tutto la crescita.

Come hanno notato diversi economisti, questa crisi è stata provocata quasi interamente dalle scelte sbagliate di Erdoğan, che da qualche anno ha cominciato a gestire in prima persona la politica economica del paese. Il presidente ha messo in crisi l’indipendenza della banca centrale e ha estromesso funzionari rispettati e preparati, e ha potuto farlo indisturbato perché l’accentramento del potere e il crescente autoritarismo hanno impedito che le sue azioni potessero essere controllate o contraddette.

Nel 2019 l’AKP perse le elezioni a Istanbul anche a causa dei pessimi risultati economici. Le prossime elezioni politiche in Turchia dovrebbero tenersi nel 2023, ma secondo alcuni analisti Erdoğan potrebbe decidere di indire elezioni anticipate già quest’anno.