I problemi vecchi e nuovi delle orchestre sinfoniche in Italia

Stanno superando gli effetti della pandemia, ma rimangono difficoltà strutturali che richiederebbero cambi più radicali

di Susanna Baggio

L'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai durante un concerto lo scorso 21 aprile (PiùLuce/ OSNRai)
L'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai durante un concerto lo scorso 21 aprile (PiùLuce/ OSNRai)
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Tra i settori dello spettacolo che hanno risentito di più degli effetti della pandemia da coronavirus in Italia c’è quello delle orchestre sinfoniche, le grandi orchestre di musica classica, che già prima del Covid avevano problemi sia organizzativi che culturali. Nei tre anni di pandemia il settore si è dovuto reinventare e adeguare a modi e mezzi di comunicazione nuovi, prima di ricominciare a crescere e attirare di nuovo l’interesse del pubblico. La ripresa c’è stata ed è stata positiva, ma per certi aspetti è ancora condizionata da problemi sistemici piuttosto diffusi.

Un’orchestra sinfonica è composta da decine di musicisti (chiamati professori d’orchestra) che suonano una grande varietà di strumenti: violini, viole e violoncelli, flauti, oboi e clarinetti, e poi trombe, tromboni, pianoforti, percussioni e arpe, tra gli altri. A differenza dell’opera, che prevede la messa in scena di uno spettacolo musicato con cantanti, scenografie ed eventualmente una coreografia, le produzioni delle orchestre sinfoniche riguardano esclusivamente l’esecuzione di sinfonie e brani di repertorio, a volte con la presenza di un coro. Spesso le orchestre che fanno concerti durante una stagione sinfonica sono le stesse che eseguono la parte musicale di produzioni operistiche, come nel caso di quella della Filarmonica della Scala di Milano.

Tra le difficoltà delle orchestre sinfoniche durante la pandemia c’è stato proprio il dover mettere insieme così tante persone rispettando le norme sul distanziamento fisico e l’obbligo di indossare le mascherine.

Un’orchestra come quella della Scala o l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, che ha sede a Torino, ha circa 120 musicisti stabili. Il numero dei professori d’orchestra varia in base a quello che la direzione artistica sceglie di far suonare. Per una sinfonia di Mozart sono sufficienti alcune decine di musicisti, mentre per le composizioni di Gustav Mahler, Dmítrij Dmítrievič Šostakóvič o per la “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, che prevede anche un coro e voci soliste, ne servono molti di più.

Per questa ragione nelle fasi più critiche della pandemia molte orchestre hanno cambiato il loro repertorio di riferimento per poter continuare a suonare con meno musicisti, con il distanziamento previsto dalle norme. All’Auditorium Arturo Toscanini, dove si esibisce l’Orchestra Sinfonica della Rai, sono stati tolti circa 200 posti dalle prime file della platea per avere più spazio per i musicisti. In altri casi, anziché esibirsi sul palco o nella buca (che in un teatro è lo spazio riservato all’orchestra tra il palco e la platea), i membri delle orchestre hanno suonato proprio nella platea, distanziati.

La situazione è tornata a una relativa normalità da circa un anno. Solo adesso però la presenza del pubblico sta cominciando a raggiungere i livelli pre-pandemia.

Marco Ferullo, portavoce della Filarmonica della Scala, ha detto che gli abbonamenti sottoscritti nel 2021 erano stati il 10 per cento in meno rispetto a quelli del periodo pre-pandemia, un buon risultato. Nella stagione 2023 comunque il calo è stato recuperato soprattutto grazie ai 100 posti riservati alle persone con meno di 30 anni, un’iniziativa pensata proprio per favorire il ricambio di pubblico: in totale quest’anno gli abbonati alla stagione della Filarmonica sono poco meno di 1.400 (la Scala ha circa 1.950 posti). Dopo un 2019 che era andato particolarmente bene, anche il Teatro Comunale di Bologna, che ha sia una stagione sinfonica che una operistica, dice di aver avuto un riscontro molto buono nel 2022 (i dati ufficiali sulle presenze saranno comunicati con il prossimo bilancio).

L’anno scorso anche l’Orchestra Sinfonica della Rai aveva avuto un calo del 33 per cento rispetto agli abbonamenti della stagione 2019-2020. I numeri della stagione 2022-2023, quella attualmente in corso, si sono invece riavvicinati al periodo pre-pandemia, ma con una differenza: c’è stato un lieve calo degli abbonamenti a fronte di un aumento della vendita dei biglietti singoli, una tendenza che sembra indicare una certa incertezza del pubblico rispetto alla situazione sul lungo periodo.

L’ufficio stampa dell’Orchestra della Rai non ha chiarito quanti siano gli abbonamenti sottoscritti in questa stagione, che includono 22 concerti in doppia serata da ottobre a maggio. Per dare l’idea, però, ha spiegato che i biglietti per il tradizionale Concerto di Natale del 23 dicembre sono andati esauriti in pochissimo tempo: erano anni che l’orchestra non eseguiva dal vivo la celebre nona sinfonia di Beethoven, cosa che ha fatto durante il concerto, proprio perché per suonarla servono molti musicisti.

Uno spettacolo in cui l’orchestra della Filarmonica della Scala suona su una pedana costruita sopra le sedute del Teatro (Filarmonica della Scala/ Brescia e Amisano)

Tutti gli addetti ai lavori sentiti dal Post hanno parlato di una ripresa graduale e faticosa, anche perché in generale in Italia il settore dello spettacolo è stato soggetto a restrizioni più severe e prolungate rispetto ad altri paesi. Secondo chi lavora nel settore è inoltre probabile che l’incertezza sulla situazione epidemiologica, il timore dei contagi e le conseguenze economiche della pandemia abbiano scoraggiato il pubblico a tornare in sala. Oltre ad aver adattato il programma e la collocazione dei musicisti in sala, comunque, per andare avanti le orchestre sinfoniche si sono dovute inventare anche altre iniziative.

Durante il lockdown per esempio la Filarmonica della Scala mise in piedi una specie di flash mob collettivo in cui più di sessanta musicisti si esibirono dai loro balconi; organizzò poi il progetto “Ouverture”, un ciclo di concerti suonati da piccoli gruppi di musicisti in luoghi pubblici di vario tipo, dal chiostro dell’Università Statale al Mare Culturale Urbano, un centro culturale nella parte ovest della città. L’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma condivise su YouTube i video di alcuni suoi professori d’orchestra mentre si esercitavano nelle proprie case, da soli o tutti insieme.

Un po’ come è successo anche con gli eventi di musica pop, la pandemia ha poi portato molte più orchestre a trasmettere i propri concerti in diretta streaming o comunque a sfruttare ancora di più Internet per raggiungere il proprio pubblico. Il Teatro Comunale di Bologna per esempio ha puntato molto sia sulla sua web tv che su piattaforme di streaming musicale come Spotify, dove tra le altre cose condivide anche interviste e podcast di approfondimento.

Il ricorso allo streaming è stato una risorsa molto utile in un periodo in cui non era possibile avere il pubblico in sala, ma anche una buona opportunità per provare a coinvolgere più persone, anche lontano dai teatri. Non ha però risolto tutti i problemi, per diverse ragioni: intanto perché in generale il pubblico delle orchestre sinfoniche è piuttosto anziano e con poche affinità con smartphone e computer; e poi perché assistere a uno spettacolo del genere dal vivo è un’esperienza completamente diversa, anche solo per la qualità audio.

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Nonostante la lenta ripresa, sono rimasti alcuni problemi sistemici del settore noti da tempo.

Una delle questioni principali riguarda proprio il pubblico dei concerti di musica classica, che per quanto motivato ed esigente è sempre più vecchio, e meno numeroso rispetto a quello dell’opera. C’è poi il fatto che spesso la musica classica viene vista come una forma d’arte elitaria e difficile da capire. Sono i motivi per cui la gran parte degli enti e delle associazioni che ruotano attorno alle attività delle orchestre sinfoniche lavora da tempo per fare promozione culturale e cercare di avvicinare un pubblico sempre più ampio, con varie strategie: collaborazioni con scuole, università e conservatori, ma anche incontri, biglietti scontati e la possibilità di assistere alle prove.

In ogni caso, il pubblico non è la sola risorsa essenziale per il settore.

Un concerto del progetto “Ouverture” nel chiostro dell’Università statale di Milano (Filarmonica della Scala/ G. Hanninen)

In base a un decreto legislativo del 1996, i maggiori teatri d’opera italiani e le istituzioni concertistiche assimilate hanno dovuto assumere il titolo giuridico di fondazioni di diritto privato. Per semplificare molto, queste fondazioni lirico-sinfoniche sono soggetti privati con un proprio regolamento e ampie forme di autonomia, ma praticamente vengono equiparati a enti pubblici. In Italia attualmente ce ne sono 14, tra cui la Fondazione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, quella del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e quella del Teatro Massimo di Palermo: secondo lo stato il loro obiettivo principale dovrebbe essere «favorire la formazione musicale, culturale e sociale della collettività nazionale».

Le fondazioni lirico-sinfoniche hanno anche diritto ai contributi del FUS, cioè il fondo unico per lo spettacolo, che viene erogato a fronte dell’attività di promozione culturale svolta, sulla base di certi criteri, dal ministero della Cultura, che finanzia varie attività legate a musica, teatro, danza, circo e spettacolo viaggiante.

Di norma questi contributi sono essenziali per le fondazioni, che considerando solo gli incassi della biglietteria e le sponsorizzazioni non riuscirebbero a far fronte a tutte le spese necessarie per sostenersi. Senza il FUS, insomma, i costi sarebbero molto più alti, con il risultato che i biglietti e gli abbonamenti delle stagioni di molte orchestre sinfoniche italiane avrebbero prezzi maggiori, e probabilmente i concerti di musica classica verrebbero visti come ancora più esclusivi (la Filarmonica della Scala è un’associazione indipendente, che in quanto tale non percepisce il FUS e si sostiene con varie attività, mentre il caso dell’Orchestra Nazionale Rai è ancora diverso, perché fa parte dei servizi che i cittadini italiani pagano attraverso il canone).

L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai durante il Concerto di Natale del 2021, con mascherine e distanziamento fisico (PiùLuce/ OSN Rai)

In un contesto culturale e organizzativo così complesso, e in un periodo di grandi incertezze come quello della pandemia, le questioni relative alla gestione dei costi sono diventate centrali.

Nelle ultime settimane le trattative sul rinnovo dei contratti o su particolari accordi economici – e nel caso della Scala anche l’annuncio del taglio dei fondi da parte del Comune – hanno portato i sindacati dei lavoratori dei teatri di Milano e Bologna ad annunciare alcuni scioperi, che in qualche caso hanno avuto conseguenze sulle attività artistiche. Proprio la settimana scorsa sono stati indetti tre giorni di sciopero anche tra i dipendenti del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, che contestano la gestione della sovrintendenza e segnalano da tempo una situazione di grave difficoltà economica. Successivamente è stato trovato un accordo e lo sciopero revocato.

È difficile vedere soluzioni a breve termine affinché il settore riesca a sostenersi più facilmente: molti pensano che servirebbe un lavoro strutturale a livello culturale per cominciare a far cambiare l’approccio alla musica classica.

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Ci sono anche posizioni più ottimiste, come quella di Cristian Della Chiara, direttore generale del Rossini Opera festival, un ente autonomo che dal 1980 promuove una manifestazione lirica internazionale dedicata al compositore Gioacchino Rossini a Pesaro, Città creativa UNESCO della Musica dal 2017.

Della Chiara racconta che anche il festival si è dovuto reinventare, soprattutto perché il 60-65 per cento del suo pubblico tradizionale veniva da paesi esteri, tra cui Stati Uniti e Giappone. Nel 2020, quando i viaggi da e verso l’estero erano permessi solo per motivi essenziali, furono comunque organizzate due edizioni, una ad agosto e una a novembre, seppur con qualche limitazione. Nell’edizione di quest’anno invece è stato registrato un incremento di pubblico del 53 per cento rispetto a quella del 2021, anche se la guerra in Ucraina ha ridotto la presenza di spettatori russi, che erano in crescita.

Della Chiara dice che è vero che i contributi pubblici sono essenziali per la sostenibilità dell’opera e dei concerti sinfonici, ma «è diverso da dire che è un mondo che non si sostiene».

Gli incassi dei biglietti venduti coprono il 15-20 per cento del budget del festival e con le sponsorizzazioni si arriva più o meno fino al 40. Il contributo pubblico, per quanto fondamentale, si traduce tuttavia in una ricchezza ancora più grande, spiega Della Chiara. Un’analisi sull’impatto del Rossini Opera festival realizzata dall’Università di Urbino nel 2011 ha evidenziato che per ogni euro investito nell’evento ne vengono per così dire restituiti 7 a Pesaro e al territorio circostante sotto forma degli indotti di alberghi, turismo e servizi vari. Per questo, secondo Della Chiara, il festival è una grande opportunità sociale e culturale per il territorio di Pesaro, che peraltro nel 2024 sarà la Capitale italiana della cultura. Finanziarlo significa insomma promuovere un’iniziativa capace di portare cultura e «una ricchezza straordinaria» al territorio.