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  • Mercoledì 14 dicembre 2022

In che modo il Marocco si è costruito una squadra

Con la programmazione e l'equilibrio tra formazione e ricerca, ma anche trovando all'ultimo l'allenatore giusto

(Julian Finney/Getty Images)
(Julian Finney/Getty Images)
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Perché una squadra come il Marocco arrivi in semifinale ai Mondiali di calcio serve che molte cose si incastrino nel modo giusto. Senz’altro, se ne sono incastrate due: il giusto allenatore, parecchio efficace sia sulla tattica che nei rapporti con i giocatori; e una squadra competitiva e varia, frutto di un articolato processo di ricerca e formazione. Un processo che nel caso del Marocco ha dovuto raggiungere un complicato equilibrio tra la formazione di calciatori nati e cresciuti in Marocco e la ricerca all’estero di giocatori di nazionalità marocchina che avrebbero potuto giocare anche per altre nazionali.

L’allenatore, il quarantasettenne Walid Regragui, è arrivato il 31 agosto di quest’anno, poco più di cento giorni fa, con l’obiettivo di rattoppare una squadra spaccata e in crisi. Il suo arrivo non era nei piani ed è stato deciso all’ultimo dopo l’esonero del precedente allenatore, che aveva un contratto fino al 2024, e dopo che la federazione calcistica marocchina sembrava vicina a un accordo con l’italiano Walter Mazzarri.

Il processo di ricerca e formazione è cambiato radicalmente a partire dal 2008, quando la federazione calcistica marocchina investì parecchio nell’apertura di un’accademia calcistica e, più o meno al contempo, potenziò e affinò la sua rete di osservatori europei. Come succede spesso, il recente successo calcistico marocchino nasce però da un insuccesso. Nel 2004 il Marocco fallì nel suo tentativo di ospitare i Mondiali del 2010, i primi di sempre in un paese africano, che furono assegnati al Sudafrica.

Nei vent’anni precedenti ai Mondiali in corso il Marocco si era qualificato a due sole edizioni: quella francese nel 1998 e quella russa nel 2018. E c’è un dato che spiega bene quanto fossero diverse le due squadre: nel 1998 solo due giocatori della squadra marocchina erano nati fuori dal Marocco; nel 2018 i nati all’estero erano invece 17 su 23, e quelli nati tra Paesi Bassi e Francia erano più numerosi di quelli nati in Marocco.

In Qatar, i giocatori della Nazionale marocchina nati all’estero sono 14 su 26, poco più della metà. Una prima possibile spiegazione di quanto fatto fin qui dal Marocco sta quindi nell’aver trovato un equilibro tra due estremi, con tutte le implicazioni del caso.

(AP Photo/Abdeljalil Bounhar)

A decidere la costruzione di un’accademia calcistica fu la Federazione nazionale, a quanto si dice su forte spinta di Mohammed VI, re del Marocco dal 1999, parecchio deluso dall’assegnazione dei Mondiali al Sudafrica dopo che il suo paese era stato considerato favorito. L’accademia, che non a caso si chiama Accademia Calcistica Mohammed VI, fu costruita a Salé, la città che sta davanti alla capitale Rabat, dalla quale è separata da un fiume: copre un’area di quasi 300mila metri quadrati, su cui oltre a otto campi da calcio ci sono varie strutture destinate a attività amministrative, formative e medico-sportive. È attiva dal 2009 e si stima che sia costata 140 milioni di dirham, che al tempo corrispondevano a circa 13 milioni di euro.

Lo scopo dell’accademia è formare i calciatori tra i 12 e i 18 anni, con l’obiettivo di accompagnarne la crescita, non solo calcistica, e di far sì che quanti più possibili tra loro giochino nelle nazionali giovanili fino a quella maggiore. In Qatar ci sono quattro giocatori marocchini che sono passati da lì: il portiere di riserva Reda Tagnaouti, il difensore Nayef Aguerd, il centrocampista Azzedine Ounahi e l’attaccante Youssef En-Nesyri, autore del gol con cui il Marocco ha eliminato il Portogallo ai quarti di finale.

L’accademia e gli investimenti che negli ultimi anni ne hanno accompagnato la crescita hanno contribuito a portare ottimi risultati anche altrove. Il Wydad Casablanca, una squadra marocchina peraltro allenata da Regragui, ha vinto la Coppa dei Campioni africana, e sono tre anni che una squadra marocchina vince la Coppa della Confederazione CAF, che è il corrispettivo africano dell’Europa League. Il Marocco ha vinto inoltre le ultime due edizioni del Campionato delle nazioni africane, un torneo per nazionali in cui non possono essere convocati calciatori che giocano all’estero, come se nell’Italia potessero giocare solo calciatori che giocano in Serie A. Un torneo, quindi, molto utile per valutare il livello di competitività generale di ogni campionato nazionale.

A tutto questo si aggiungono risultati sempre più soddisfacenti anche a livello femminile. In Marocco ci sono due campionati professionistici femminili, è marocchina la squadra che ha vinto la Coppa dei Campioni africana, e la nazionale femminile del Marocco già si è qualificata – prima di sempre tra le squadre di paesi arabi – per i Mondiali che si giocheranno nell’estate del 2023.

La nazionale femminile nel luglio 2022 (AP Photo)

Alex Čizmić, autore della newsletter Kura Tawila sul calcio africano, aveva scritto, già prima dei Mondiali, che «il Marocco era probabilmente il paese africano più preparato in termini di formazione giovanile» e che l’Accademia Calcistica Mohammed VI «è unica in Africa ed è al livello delle migliori scuole calcio del mondo». Il Wall Street Journal ha scritto di recente che «per buona parte degli ultimi vent’anni, in cui è stata allenata tra gli altri da un portoghese, un belga, tre francesi e un bosniaco, la Nazionale maschile del Marocco ha fatto di tutto per somigliare il più possibile a una grande squadra europea».

Visto che la maggior parte dei giocatori della Nazionale marocchina gioca in Europa, e dato che in Europa vivono almeno cinque milioni di marocchini, formare giocatori in Marocco è importante, ma non basta fare solo quello. È il motivo per cui, già da anni, la Federazione marocchina investe molto anche sul cosiddetto scouting, ovvero sull’attività di ricerca e selezione di calciatori promettenti, se possibile giovani.

Già nel 2014 partì la campagna “riportiamo i talenti a casa” e al momento per la Federazione calcistica del Marocco lavorano cinque osservatori che seguono i giocatori europei con nazionalità marocchina, con l’obiettivo di scovare i migliori già da giovanissimi e di convincere quelli con doppia nazionalità a scegliere di giocare per il paese di origine. Hakim Ziyech, uno dei migliori giocatori marocchini in Qatar, è nato a Dronten, nei Paesi Bassi, e fino a otto anni fa giocava con le nazionali olandesi.

A coordinare gli osservatori del Marocco è Rabie Takassa, che intervistato da Čizmić ha detto che «c’è un lavoro globale che consiste nell’avere una visione generale di tutti i giocatori», ma che «a seconda delle esigenze» tattiche o di ruolo può capitare di «concentrarsi maggiormente su determinate posizioni». Sempre Takassa ha detto:

«Il Marocco è un caso piuttosto particolare a livello mondiale. Non conosco nessun altro paese che abbia così tanti giocatori nati e cresciuti in numerosi paesi europei. Non saprei dire se esiste un sistema federale migliore del nostro. Ma probabilmente una rete di scouting per la nazionale così particolare e allo stesso tempo così efficace come quella marocchina è difficile trovarla».

In molti casi è piuttosto facile convincere i calciatori a scegliere il Marocco. Ci sono però casi, specie quando la federazione arriva dopo che i calciatori hanno giocato a livello nazionale in altre giovanili, in cui l’operazione è più complicata: è stato scritto, per esempio, che per convincere il promettente Mohamed Ihattaren, nato a Utrecht ma di origini marocchine, a scegliere il Marocco anziché l’Olanda, la federazione pagò per lui il funerale del padre, comprese le spese per il rientro in Marocco della salma (alla fine Ihattaren, che di recente ha avuto diversi problemi extracalcistici, preferì comunque l’Olanda).

Più in generale, almeno fino a qualche settimana fa, per i giocatori migliori scegliere una grande nazionale europea come Francia, Olanda o Spagna significava tra l’altro poter puntare a vittorie che con il Marocco apparivano impossibili. In aggiunta, vivere e giocare in un club europeo scegliendo però la Nazionale marocchina non è sempre semplice: ci sono problemi logistici ma anche legati a come certi giocatori, nati e cresciuti all’estero, in Marocco erano talvolta percepiti come “stranieri”.

I tempi, comunque, sono molto cambiati dagli anni Novanta, quando l’allora allenatore del Marocco disse di aver scoperto Mustapha Hadji, uno dei migliori calciatori marocchini di sempre, per caso, mentre leggeva in poltrona la rivista France Football.

Dopo aver migliorato un intero movimento e messo le premesse affinché si possano convocare anche giocatori marocchini nati o cresciuti all’estero, bisogna sceglierli, allenarli e farli diventare una squadra, un gruppo unito fuori e dentro il campo.

È quello che Walid Regragui sembra aver fatto in maniera eccellente. Regragui fu chiamato a fine agosto per sostituire l’allenatore bosniaco Vahid Halilhodzic, che pur essendosi qualificato ai Mondiali aveva diversi problemi di gestione. Del Marocco si parlava infatti come di un gruppo che, finché lo allenava Halilhodžić, era pieno di contrasti, e che soprattutto era stato segnato dalla scelta di non convocare Ziyech. «Non lo convocherei nemmeno se fosse Messi», aveva detto Halilhodžić di Ziyech. «Non giocherò più in nazionale finche ci sarà lui», aveva detto Ziyech di Halilhodžić.

Regragui è un ex difensore nato in Francia che da calciatore giocò per il Marocco. Pur con tutte le ottime premesse dovute all’impegno della federazione e ai successi del calcio marocchino, Regragui si è trovato a dover fare tanto in poco tempo.

Anzitutto si è dovuto inserire in corsa un processo di ricostruzione iniziato dopo che nel 2019 il Marocco – allenato allora dal francese Hervé Renard, che in Qatar ha allenato l’Arabia Saudita – fu eliminato dal Benin agli ottavi di finale della Coppa d’Africa. Per molti versi quella sconfitta fu la fine di un ciclo di una squadra ormai in là con gli anni.

Inoltre, Regragui ha dovuto mediare i contrasti interni tra giocatori e rimediare a certe conseguenze della gestione di Halilhodžić, a cominciare dal reintegro di Ziyech, e ricostruire non semplici equilibri tra giocatori nati e cresciuti in Marocco e altri che, in certi casi, seppur con nazionalità marocchina, magari nemmeno parlano bene l’arabo.

Alcuni giocatori del Marocco dopo la vittoria contro la Spagna (Catherine Ivill/Getty Images)

C’è infine, ultimo ma di certo non secondario, l’aspetto calcistico. Già vincitore di un campionato marocchino con una modesta squadra di metà classifica, Regragui ha costruito una squadra che, come ha scritto Irene Paredes su El País, «ha dimostrato che si può dominare una partita anche senza avere la palla». Tra le squadre ai Mondiali, anche quelle eliminate ai gironi, il Marocco è infatti tra quelle con il minor possesso palla e contro Spagna e Portogallo, agli ottavi e ai quarti di finale, ha fatto in media meno di due passaggi al minuto.

(AP Photo/Ariel Schalit)

Il Marocco parte da una difesa estremamente solida, che in questi Mondiali ha preso solo un gol (per giunta un autogol), e dalla pressoché imprescindibile presenza davanti alla difesa del centrocampista difensivo Sofyan Amrabat, per strutturare un gioco di grande organizzazione e dal rigore tattico non comune.

(AP Photo/Luca Bruno)

Ma anche un gioco che, quando c’è da attaccare – spesso in contropiede – sfrutta le qualità personali, nel dribbling ma anche nei passaggi, di giocatori come Ziyech o come Sofiane Boufal, uno specialista nei dribbling. È insomma una squadra robusta e concreta, che sa chiudersi in difesa ma anche allargare il campo quando attacca, sfruttando non solo la velocità ma anche la tecnica dei giocatori offensivi.

Fin qui, il Marocco – prima nazionale africana e araba ad aver raggiunto le semifinali dei Mondiali – è riuscita inoltre a non prendere gol per poi vincere ai rigori (contro la Spagna), oppure fare un gol e sfruttare il vantaggio per puntare ancora di più sul contropiede. È però ancora da testare come si comporterebbe nel caso in cui dovesse passare in svantaggio, trovandosi a quel punto a dover per forza di cose attaccare.

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