“Avatar 2” sarà un secondo “Avatar”?

Mercoledì esce il sequel del film che ha incassato di più nella storia del cinema, ma che ha lasciato molto poco

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Una scena di “Avatar”

Nella storia del cinema il film Avatar, diretto dallo statunitense James Cameron e uscito nel 2009, è considerato una specie di eccezionalità nell’eccezionalità. È il primo nella lista dei film con i maggiori incassi di sempre: circa 2,9 miliardi di dollari. E allo stesso tempo è uno dei meno memorabili e apprezzati di quella lista, che pure è piena di film trascurabili (perlopiù remake di film famosi e sequel di lunghe saghe cinematografiche). L’impressione largamente condivisa sia da esperti e appassionati di cinema che da spettatori e spettatrici occasionali è che dopo il grande entusiasmo suscitato dall’uscita al cinema, Avatar sia stato pressoché dimenticato.

È probabilmente per questa ragione che l’uscita del sequel – Avatar 2: La via dell’acqua, nei cinema dal 14 dicembre – non è stata preceduta da particolari curiosità ma piuttosto da nuove riflessioni sull’attuale marginalità del primo Avatar, per molti versi incredibile se rapportata ai fenomeni di fanatismo che generò nel 2009. Ed è per questo che prevale oggi anche un certo scetticismo in merito alle probabilità di successo commerciale del sequel e della saga, di cui peraltro è già stato girato un terzo film e parte di un quarto.

Negli ultimi anni si era tornati a parlare di Avatar – ma neanche tanto – quando nel 2016 Cameron annunciò che i sequel previsti sarebbero stati quattro (dei primi due si era parlato già nel 2010). E poi a marzo 2021, quando – a seguito di una nuova uscita nei cinema cinesi – Avatar tornò a essere il film con i maggiori incassi di sempre dopo essere stato superato nel 2019 da Avengers: Endgame, attualmente secondo. Il terzo è Titanic, uscito nel 1997 e diretto a sua volta da Cameron.

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L’impressione condivisa da molti riguardo ad Avatar è che al successo del film contribuì una serie di contingenze e fattori concomitanti difficilmente ripetibili. La trama era solo uno tra i tanti fattori e nemmeno il più importante: niente che non si fosse già visto, in parte, in Balla coi lupi, Pocahontas e molti altri film simili. Era la storia di un soldato paraplegico, Jake Sully (interpretato da Sam Worthington), che nel 2154 viene trasferito attraverso una capsula su un pianeta, Pandora, abitato da umanoidi blu in perfetta simbiosi con la natura e alti circa tre metri, i Na’vi. Per gli umani, l’unico modo di vivere su Pandora è usare un avatar creato dalla combinazione dei loro geni e di geni Na’vi. Durante la sua missione, Sully si innamora della principessa Neytiri (Zoe Saldana) e respinge con i Na’vi l’attacco di un esercito di umani interessati a depredare il pianeta.

Del sequel non si sa molto a parte che è ambientato su altre parti di Pandora, dieci anni dopo gli eventi raccontati nel primo film, e riguarda una nuova battaglia di Sully e Neytiri contro vecchi nemici. Il cast è ancora composto da molti attori e attrici del primo film, tra cui Sam Worthington, Zoe Saldana, Stephen Lang e Sigourney Weaver, e altri che nel primo non c’erano, tra cui Kate Winslet, Michelle Yeoh e Vin Diesel. Ed è costato 250 milioni di dollari, come riferito da Variety, a cui Cameron ha detto di sentirsi ottimista, nonostante la sfiducia di molti addetti ai lavori: «Quando un mio film mi piace, so che piacerà ad altre persone».

Uno dei fattori che hanno contribuito di più al successo commerciale del primo Avatar è stato il 3D, una tecnologia che difficilmente potrebbe determinare oggi il successo di un film negli stessi termini in cui ci riuscì all’epoca. Il film fu distribuito sia in formato 3D che in IMAX, il sistema di proiezione che permette di mostrare immagini a una risoluzione superiore. Quasi due terzi dei biglietti venduti riguardarono proiezioni in 3D, con un prezzo medio di 10 dollari (rispetto ai circa 7 dollari della proiezione in 2D nel 2010), e circa un sesto riguardò proiezioni in IMAX, con un prezzo medio superiore a 14,5 dollari.

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Il 3D e gli effetti speciali – come non se ne erano mai visti prima – contribuirono con ogni probabilità a rafforzare certi processi di immedesimazione e partecipazione emotiva alla visione del film: processi che insieme ad altri fattori psicologici favorirono nei primi tempi anche particolari reazioni e fenomeni di fanatismo. Alcune persone che avevano visto il film più volte, anche più di tre o quattro, condivisero su forum e su blog creati appositamente le loro difficoltà ad accettare che l’universo di Avatar non fosse reale. E sui giornali si parlò di cose come “sindrome da Avatar” e “depressione post-Pandoriana”.

Una delle ragioni per cui Avatar funzionò molto meno negli anni successivi ha in parte a che fare anche con la tecnologia del 3D: sia la rapidità con cui “invecchiò”, sia la difficoltà per nuovi spettatori e spettatrici di ricreare in casa o comunque fuori da un cinema le condizioni che avevano reso possibile un certo tipo di immedesimazione. Le altre ragioni riguardano ciò che rimaneva del film – non molto – una volta venuto meno l’impatto di tecnologia ed effetti speciali, che furono successivamente replicati e in alcuni casi superati in altri film.

Cosa sorprende di Avatar, ha scritto recentemente il New York Times, è il fatto che non abbia avuto nel tempo alcun impatto culturale, né nel bene né nel male. A differenza di altre grandi produzioni come Star Wars, Jurassic Park o Iron Man, non ha sostanzialmente generato né particolari discussioni sui sequel, né meme, né interessi di alcun tipo: semmai battute sulla sua trascurabilità.

“Ricordi qualcosa di Avatar?”, scrisse già nel 2016 BuzzFeed come titolo di un quiz in cui chiedeva di rispondere a domande del tipo “Quale di questi attori ha interpretato il protagonista maschile?” e “Cosa vogliono gli umani dagli alieni?”. Avatar era «fondamentalmente una demo», ha sintetizzato il New York Times, in cui ogni punto della trama era un pretesto per «mostrare qualche nuova prodezza tecnologica».

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Il fatto che Avatar avesse un finale inequivocabile, privo di qualsiasi ambiguità – il cattivo muore – o possibilità chiara di prosecuzione della storia, fu poi un fattore che non stimolò un interesse residuo per eventuali seguiti. E fece del film un’anomalia via via sempre più evidente nel contesto dell’industria cinematografica, che intanto si stava invece concentrando su prodotti culturali più complessi e articolati: le saghe, schemi narrativi proiettati verso un orizzonte infinito in cui storie e personaggi sono costantemente aggiornati e rielaborati su tutte le piattaforme, incluse quelle dei videogiochi.

L’abitudine a questo nuovo modello ha condizionato in parte anche i criteri stessi attraverso cui calcoliamo e definiamo il successo dei film, secondo il New York Times, al punto che se Avatar sembra oggi un prodotto irrilevante «ha meno a che fare con il film stesso e più a che fare con il modo in cui il mondo intorno è cambiato».

Il videogioco su Avatar, uscito nel 2009, ebbe un successo discreto ma non duraturo, e nel 2014 i server per le funzioni online del gioco furono chiusi. Quanto al merchandising, ci furono infine alcuni errori e altre scelte poco lungimiranti, ricorda il New York Times: le action figure dei Na’vi furono prodotte nella scala sbagliata, e l’assenza di una linea di giocattoli per bambini piccoli evidenziò una sottovalutazione del pubblico futuro.