Cambodia Angkor Wat Temple
Turisti ad Angkor Wat, Cambogia. (AP Photo/Heng Sinith)

Finire nella lista dei patrimoni dell’umanità è anche un rischio

L'inclusione nella lista dell'UNESCO può portarsi dietro un aumento dei turisti che non tutti i luoghi possono sostenere

Il 23 novembre è il cinquantesimo anniversario della Convenzione sul patrimonio mondiale, il trattato internazionale che ha istituito la lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, in cui vengono registrati i siti mondiali considerati particolarmente importanti da un punto di vista culturale o naturale. Oggi sono 1.153, 58 dei quali in Italia.

Nelle intenzioni dell’UNESCO, l’agenzia delle Nazioni Unite che ha lo scopo di incentivare la protezione e la conservazione di luoghi significativi dal punto di vista storico, culturale e ambientale, l’iscrizione nella lista dei patrimoni dell’umanità dovrebbe aiutare a proteggere siti storicamente importanti da conflitti militari, disastri naturali, saccheggi e pressioni economiche negative. Negli ultimi anni, però, sono emerse varie critiche a questo modello, perché l’iscrizione stessa di un luogo nella lista lo trasforma automaticamente in un’attrazione turistica, attirando l’attenzione di milioni di persone e rischiando di stravolgere il contesto e l’equilibrio locale.

Quando assegna a un sito il titolo di “patrimonio mondiale dell’umanità”, l’UNESCO ha l’obiettivo dichiarato di preservarlo e aiutare a tramandarlo alle generazioni future. Tra i sotto-obiettivi che l’organizzazione si pone – e che i 194 stati che hanno firmato la Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale del 1972 hanno detto di condividere – c’è l’assistenza comune ai siti in pericolo e la cooperazione internazionale nella conservazione del patrimonio culturale e naturale globale.

Negli anni, il programma ha ottenuto qualche successo di alto profilo: ha esercitato sufficiente pressione da bloccare la costruzione di un’autostrada vicino alle piramidi di Giza in Egitto, un progetto per l’estrazione del sale in un’area dedicata alle balene grigie in Messico e la proposta di creare una diga sopra alle cascate Vittoria, tra Zambia e Zimbabwe. Con i suoi fondi – depositati regolarmente dai firmatari del trattato – ha assunto ranger per vari parchi nazionali, costruito centri per i visitatori, acquistato terreni e restaurato luoghi come la città vecchia di Dubrovnik in Croazia, la miniera di sale di Wieliczka in Polonia e l’antico tempio khmer di Angkor Wat in Cambogia.

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L’opinione dell’UNESCO non è vincolante, quindi la massima leva che l’organizzazione può esercitare quando ritiene che uno dei siti della lista sia messo in pericolo da fattori come un progetto di ristrutturazione urbana particolarmente intrusivo o il cambiamento climatico è minacciare di rimuovere il sito dalla lista.

Negli ultimi cinquant’anni è accaduto tre volte. Il santuario dell’Orice d’Arabia dell’Oman è stato rimosso nel 2007, dopo che anni di bracconaggio avevano estinto quasi completamente la popolazione di orici e il governo aveva ridotto il territorio del santuario del 90 per cento dopo il ritrovamento di petrolio nella regione. Nel 2009 successe lo stesso alla valle dell’Elba attorno alla città tedesca di Dresda, dopo la costruzione di un ponte molto contestato dalle associazioni ambientaliste. E nel 2020 il centro storico di Liverpool, in Inghilterra, diventò il terzo sito a perdere il titolo di patrimonio dell’umanità, dopo un progetto di riqualificazione che comportò, secondo l’UNESCO, una grave perdita di autenticità storica. Più di recente l’organizzazione ha minacciato di cancellare dalla lista anche il centro storico di Vienna, dove il governo locale vorrebbe costruire una pista permanente di pattinaggio sul ghiaccio: le contrattazioni sono ancora in corso.

Il cantiere nel porto di Liverpool che l’UNESCO ha cercato di contrastare (Christopher Furlong/Getty Images)

Da parte propria, i luoghi iscritti alla lista dei patrimoni mondiali dell’umanità ottengono principalmente benefici economici, un po’ perché l’UNESCO fornisce fondi per formare esperti locali che se ne prendano cura e talvolta per restaurare i siti, ma soprattutto perché l’iscrizione alla lista porta spesso attenzione a luoghi precedentemente isolati ed economicamente svantaggiati. Se l’attrattiva turistica è stata a lungo considerata utile allo sviluppo economico dei territori, oggi se ne osservano i limiti, anche nelle località rese famose proprio dall’UNESCO.

Un esempio perfetto è quello dei Clan Jetty, un insieme di antiche case su palafitte che si affacciano sul porto di George Town, in Malesia. Costruite nel diciannovesimo secolo da una comunità di immigrati cinesi arrivati in città per lavorare alla costruzione del porto, sono sopravvissute all’occupazione giapponese e a due guerre mondiali, ma all’inizio degli anni 2000 si progettava di demolirle per costruire palazzi moderni. Per evitarlo, gli abitanti del luogo chiesero all’UNESCO di riconoscere i Clan Jetty come patrimoni dell’umanità, e il sito venne inserito nella lista nel 2008, non prima che due delle rimanenti otto case fossero rase al suolo.

I Clan Jetty di George Town, Malesia. (Unsplash)

«Grazie al logo delle Nazioni Unite, George Town ha vissuto una rinascita come paradiso turistico: tra i sei e i sette milioni di persone ogni anno soggiornano negli hotel della città. I Clan Jetty – a lungo liquidati come bassifondi abitati da giocatori d’azzardo e immigrati abusivi – divennero improvvisamente l’attrazione principale», ha scritto la reporter Laignee Barron sul Guardian. «Ora, però, i residenti affermano che la vittoria non è stata affatto ciò che speravano. Dove un tempo i pescatori, i raccoglitori di ostriche e gli indovini esercitavano il loro mestiere, oggi hanno messo radici i venditori di souvenir e gli snack bar. La gente del posto dice di essere stata colta di sorpresa da un’ondata di turismo che ha travolto il loro villaggio su palafitte. È una lamentela simile a quella che risuona in tutta Europa, dove città come Barcellona e Venezia cercano di bilanciare effetti positivi del turismo con gli inevitabili svantaggi.»

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Clement Liang, un membro dell’associazione locale che ha contribuito a fare pressione affinché i Clan Jetty fossero inseriti nella lista di patrimoni dell’umanità, ha detto a Barron che «quando gli interessi commerciali sono in gioco, prevalgono sull’idea di preservare il carattere di un luogo. E attualmente, l’UNESCO non ha linee guida chiare o metodi efficaci per evitare la commercializzazione dei siti del patrimonio mondiale». Un’altra residente di lunga data dei Jetty, Chew Siew Pheng, ha invece spiegato che l’UNESCO ha sì risparmiato le ultime case dalla demolizione, ma la risultante ondata di turismo «ha innegabilmente influito sulla nostra privacy, al punto che i residenti se ne stanno andando. Nei giorni festivi, è un posto invivibile».

George Town non è l’unico luogo dove l’elevazione a patrimonio dell’umanità ha portato a un’apertura al turismo di massa che ha indebolito lo spirito originario del sito, causando enormi disagi agli abitanti. I residenti più poveri dello storico quartiere di Casco Viejo a Panama City, per esempio, sono stati costretti a trasferirsi ai confini della città dopo che l’iscrizione alla lista dell’UNESCO aveva portato una marea di visitatori. Il villaggio un tempo sonnolento di Hoi An, sulla costa del Vietnam, non sa come accogliere tutte le persone che hanno cominciato ad affollare ogni giorno le sue strette viuzze. I templi cambogiani di Angkor Wat, un tempo accessibili soltanto ai sacerdoti, sono passati dal 1992 ad oggi da 22 mila a cinque milioni di visitatori all’anno, mettendo sotto grossa pressione le falde acquifere della regione. Nel Belize, imprenditori edili con pochi scrupoli hanno cominciato a vendere terreni paludosi nei pressi della barriera corallina protetta dall’UNESCO, sfruttando lo status di patrimonio dell’umanità per aumentare i prezzi. E poi, ovviamente, c’è Venezia, che da anni fatica a far fronte agli oltre 25 milioni di turisti che la visitano ogni anno.

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Questo fenomeno, osservabile in tutto il mondo, ha portato lo scrittore Marco D’Eramo a parlare in modo derogatorio di “unescocidio”. «Essere inseriti nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO è il bacio della morte. Una volta apposta l’etichetta, la vita della città si spegne; è tutto pronto per la tassidermia», ha scritto. «Questo urbicidio – parola orribile – non è perpetrato deliberatamente. Al contrario, parte con tutta la buona fede e con la più alta delle intenzioni: conservare – inalterata – una “eredità” di umanità. Come suggerisce la parola, “preservare” significa imbalsamare, congelare, salvare qualcosa dal decadimento temporale; ma qui significa anche fermare il tempo, fissare l’oggetto come in una fotografia, proteggerlo dalla crescita e dal cambiamento. Ci sono, ovviamente, monumenti che devono essere curati. Ma se l’Acropoli fosse stata sotto un ordine di conservazione nel 450 a.C., ora non avremmo il Partenone, il Propileo o l’Eretteo. L’UNESCO sarebbe rimasta inorridita dalla Roma del Cinquecento e del Seicento, che produsse un mirabile pot-pourri di neoclassicismo, manierismo e barocco».

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