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  • Lunedì 21 novembre 2022

Il governo sta litigando con la proprietà dell’ex ILVA

Per lo sblocco di grossi finanziamenti pubblici e per decidere come gestire gli investimenti, mentre migliaia di lavoratori sono in sciopero

Una parte degli impianti dell'ex ILVA di Taranto (Manuel Dorati/ZUMA Wire)
Una parte degli impianti dell'ex ILVA di Taranto (Manuel Dorati/ZUMA Wire)
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Lunedì mattina migliaia di operai si sono riuniti fuori dai cancelli delle acciaierie ex ILVA di Taranto per partecipare allo sciopero indetto dai sindacati dei metalmeccanici dopo la sospensione dei contratti di 145 aziende legate all’indotto. Acciaierie d’Italia, il nuovo nome dell’ex ILVA, ha comunicato la sospensione dei contratti la scorsa settimana, con conseguenze immediate per circa duemila persone che non possono più lavorare. Le motivazioni della decisione sono state piuttosto vaghe – «per sopraggiunte e superiori circostanze» – e secondo diverse ricostruzioni si tratta di un tentativo dell’azienda di fare pressione nei confronti del governo per accelerare lo stanziamento di un miliardo di euro previsto nel decreto Aiuti Bis.

Per indotto dell’ex ILVA si intendono tutte le aziende a cui vengono affidati lavori non direttamente collegati alla produzione di acciaio, come la manutenzione degli impianti. In queste aziende lavorano operai e addetti non direttamente assunti da Acciaierie d’Italia.

Il governo, e quindi lo stato, ha garantito che i soldi arriveranno, ma sarà importante capire come spenderli, cioè se aiutare l’ex ILVA a superare la crisi di liquidità dovuta all’aumento del prezzo dell’energia oppure se usarli per cambiare l’assetto della società ora detenuta al 60 per cento dal gruppo indiano ArcelorMittal. Al momento, infatti, lo stato ha poco potere decisionale perché detiene soltanto il 38 per cento dell’azienda tramite Invitalia, società controllata dal ministero delle Finanze.

La scelta è complicata e il problema è che non c’è molto tempo per decidere per via delle difficoltà economiche: da molti mesi l’azienda ha una produzione molto bassa, con molti impianti fermi, operai in cassa integrazione e creditori che attendono di essere pagati.

La sospensione dei contratti dell’indotto ha contribuito a far crescere la tensione tra il governo e Acciaierie d’Italia. «Il governo non può essere sotto scacco, non siamo ricattabili da parte di alcuno. Questo vale per chiunque si confronti con l’Italia», ha detto Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy. Negli ultimi giorni non ci sono stati riavvicinamenti: giovedì si è tenuto un incontro al ministero per cercare di risolvere il problema delle aziende dell’indotto, ma l’azienda non si è presentata. Per questo motivo i sindacati hanno proclamato lo sciopero.

L’impianto di Taranto è considerato strategico per l’economia nazionale, e benché nel 2012 la procura di Taranto avesse ordinato il sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo, cioè gli altiforni, da allora questi hanno potuto continuare a operare. Gli impianti dell’area a caldo sono sotto sequestro preventivo da allora, ma con una facoltà d’uso, stabilita sulla base di un programma di interventi di risanamento ambientale per ridurre gli effetti inquinanti e l’impatto sul territorio.

Nel 2021 l’ex ILVA ha prodotto 4,1 milioni di tonnellate di acciaio e servito 700 clienti nel mondo, generando in Italia un valore di ordini per 1,2 miliardi di euro. Le persone che lavorano nel polo siderurgico, che comprende anche gli impianti di Genova e Novi Ligure, sono almeno 17mila: 10.500 dipendenti diretti più oltre 6.000 dell’indotto. L’aumento del prezzo dell’energia e il calo del prezzo dei coils, le bobine di acciaio, ha aggravato una crisi finanziaria che dura ormai da anni.

Nel dicembre del 2020 era stato approvato un accordo per consentire allo stato di acquisire il 60 per cento del capitale entro il maggio del 2022 nell’ambito di un’operazione di rilancio dell’azienda. Ma gli impianti sono rimasti sotto sequestro e il passaggio in maggioranza è stato rinviato di due anni, al maggio del 2024.

Nel frattempo, però, lo stato ha garantito all’azienda una serie di aiuti economici in diverse forme. Nell’accordo era previsto un versamento da parte dello stato di 800 milioni di euro di incentivi e 700 milioni di euro di finanziamenti Sace, cioè finanziamenti con garanzie a condizioni agevolate di cui si fa carico lo stato: l’azienda sostiene che questi soldi non siano mai arrivati. «I 700 milioni non li abbiamo ancora visti, né abbiamo visto nessuno dei finanziamenti che il governo ha stabilito di dare ad Acciaierie d‘Italia», ha detto lo scorso ottobre il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabé.

Il governo ha poi stanziato un miliardo di euro attraverso il decreto Aiuti Bis con un obiettivo preciso: sottoscrivere «aumenti di capitale o diversi strumenti, comunque idonei al rafforzamento patrimoniale, anche nella forma di finanziamento soci in conto aumento di capitale». In sostanza, il governo vorrebbe riequilibrare il rapporto tra i soci privati e pubblici, ArcelorMittal e Invitalia, per esempio con un rinnovamento dei vertici societari: l’idea è di aumentare la presenza dello stato nell’ex ILVA, pur mantenendo una partnership con i soci privati. Il ministro Urso ha detto che il miliardo di euro stanziato con il decreto Aiuti Bis servirà a dare prospettiva al futuro dell’acciaieria italiana anche grazie a una nuova governance, più equilibrata, per dare risposte in merito agli impegni presi con gli accordi firmati negli anni passati.

I sindacati invece chiedono di far tornare l’azienda nel pieno controllo dello stato. «Pensiamo che sia necessario scioperare per poter fermare l’eutanasia del gruppo in Italia e per poter ricontrattare tutto», ha detto il segretario generale della Fiom-Cgil, Michele De Palma, al termine dell’incontro di giovedì al ministero. «È necessario, continua, che l’azienda “torni nelle mani pubbliche, in una gestione pubblica, e che torni a negoziare e a contrattare con le organizzazioni sindacali il rilancio del lavoro, la tutela dell’occupazione, le condizioni di salute e sicurezza e l’ambientalizzazione delle produzioni (tutti gli interventi che servono a ridurre l’impatto ambientale del ciclo produttivo, come l’utilizzo del metano al posto del carbone, ndr)».

Secondo Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, che fa parte di Confindustria, i problemi finanziari sono dovuti ai mancati investimenti di ArcelorMittal. Negli ultimi dieci anni, ha detto Gozzi, non ci sono stati investimenti sugli impianti e sulla produzione, benché siano stati commissionati importanti investimenti di ambientalizzazione: «Oggi esistono le condizioni per un piano industriale di rilancio, ma bisogna decidere chi lo fa. Non siamo più nell’era delle partecipazioni statali gloriose, ma potrebbe essere che lo stato, in fase transitoria, decida di intervenire seriamente su quell’azienda e costruisca un’ipotesi di privatizzazione a termine».