Com’è arrivata la ’ndrangheta in Emilia

È in corso un processo contro il clan che, secondo l'accusa, da 40 anni gestisce attività criminali dal piccolo comune di Brescello

La chiesa parrocchiale di Brescello, famosa per essere la chiesa dei film di "Don Camillo". (ANSA/BARACCHI)
La chiesa parrocchiale di Brescello, famosa per essere la chiesa dei film di "Don Camillo". (ANSA/BARACCHI)
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A Brescello, in provincia di Reggio Emilia, c’è un quartiere che viene chiamato Cutrello, dall’unione di Brescello e di Cutro, un paese calabrese di meno di 10 mila abitanti in provincia di Crotone. Cutro è il luogo d’origine di molti abitanti di Brescello ed è anche il paese dal quale proviene la famiglia Grande Aracri, che secondo la pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia Beatrice Ronchi è il «simbolo concretizzato della ’ndrangheta in Emilia-Romagna». Il suo capo, Francesco Grande Aracri, ne è «il vertice massimo e ne detta le strategie» ha detto la pm. 

Nella sua requisitoria durante il processo Grimilde, le cui sentenze saranno emesse a fine novembre, Ronchi ha spiegato che Francesco Grande Aracri «ha modellato la ’ndrangheta su questo territorio in forme che potessero proliferare e ha deciso che le dimostrazioni più brutali dovessero essere messe da parte. L’Emilia non avrebbe digerito azioni eclatanti, così la ’ndrangheta si è mimetizzata nella società civile». Brescello, la città da poco più di 5mila abitanti in cui sono ambientati i film ispirati alle storie di Peppone e don Camillo dello scrittore Giovannino Guareschi, è diventata silenziosamente un centro importante della ’ndrangheta in Emilia-Romagna, punto di riferimento dell’organizzazione criminale in tutto il Nord Italia. È stato, nel 2016, il primo comune della regione a essere sciolto per infiltrazioni della criminalità organizzata.

Nei primi anni Duemila, quando le inchieste della magistratura rivelarono la presenza sempre più forte della criminalità organizzata, le amministrazioni locali del Basso Reggiano reagirono parlando di “teoria degli anticorpi”: la solidità della società e delle amministrazioni della zona avrebbe impedito alla ’ndrangheta di insinuarsi nelle attività imprenditoriali. Gli anticorpi non hanno funzionato, la criminalità organizzata si è occupata prepotentemente delle attività imprenditoriali della zona mentre, sempre secondo la requisitoria della pubblico ministero, le amministrazioni locali e le stesse comunità negavano che stesse accadendo.

Per questo è stato dato il nome Grimilde all’inchiesta della magistratura e poi al processo: come la strega di Biancaneve che non riusciva a guardarsi allo specchio. La forza e la presenza sempre più invadente dei gruppi criminali è stata sottovalutata per la convinzione che non potesse davvero radicarsi in Emilia. Nel 2009 il sindaco di Brescello, Giuseppe Vezzani, dopo i primi articoli in cui si parlava di criminalità organizzata nella zona, inviò una lettera a tutti i cittadini in cui quegli articoli venivano definiti diffamatori. Nel 2014 un altro sindaco, Marcello Coffrini, definì Francesco Grande Aracri «una persona educata, tranquilla». Dopo questo episodio iniziarono gli accertamenti che portarono poi allo scioglimento del comune. 

Nicolino Grande Aracri in una fotografia scattata durante un pedinamento (ANSA/UFFICIO STAMPA CARABINIERI )

Nel 2019 nel corso dell’operazione Grimilde furono arrestate 16 persone, e 60 furono indagate. I reati contestati sono una cinquantina: associazione mafiosa, corruzione, minacce, calunnia, intestazioni fittizie di beni e società, carte di credito e conti correnti, false documentazioni servite a truffare lo Stato e la Comunità Europea per milioni di euro. Ma anche pratiche di maltrattamento dei lavoratori e utilizzo del caporalato. I reati sarebbero stati commessi dal 2014 al 2018.

Si è trattato della seconda grande inchiesta che ha coinvolto la ’ndrangheta in Emilia-Romagna, dopo Aemilia, il processo nato da un’inchiesta che portò a ordinanze di custodia in carcere per 86 persone, e agli arresti domiciliari per altre 31. Il processo Aemilia si è concluso nel maggio 2022 con la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato in tutto 700 anni di reclusione e 31 condanne per associazione mafiosa. Nelle motivazioni di quella sentenza i giudici della Cassazione hanno scritto che la «’ndrangheta emiliana è riuscita a inquinare interi settori dell’economia locale, come l’edilizia e l’autotrasporto, con espulsione dal mercato di operatori non in grado di competere in settori gravemente condizionati dal controllo mafioso». 

Dopo il processo Aemilia nuovi capi hanno sostituito sul territorio quelli arrestati. I clan della ’ndrangheta sono molto ben radicati, sia a Brescello sia in tutta la Bassa Reggiana. 

L’arrivo della ’ndrangheta in queste zone risale secondo gli storici della criminalità organizzata al 1982, quando un boss di Cutro, Antonio Dragone, venne inviato in soggiorno obbligato a Montecavolo, una frazione di Quattro Castella, a 30 km da Brescello. Il soggiorno obbligato era un provvedimento giudiziario molto utilizzato allora nei confronti soprattutto dei capimafia (fu abolito nel 1995). Lo scopo era quello di troncare il rapporto tra la persona inviata al soggiorno obbligato e il suo clan, nel territorio d’origine. In realtà i boss mafiosi continuarono a gestire le loro attività e anzi ampliarono la sfera d’influenza anche ai territori in cui erano stati inviati. Avvenne soprattutto in Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna.

Dragone fece arrivare in alcuni comuni della Bassa i suoi familiari e un gruppo dei suoi uomini più fidati, con le rispettive famiglie. Non solo, decine di giovani calabresi che si erano trasferiti in Emilia-Romagna si misero a disposizione del boss: in breve tempo nella zona della Bassa Reggiana venne creato un “locale”, cioè una filiale del clan ’ndranghetista che opera lontano dal luogo d’origine, in questo caso Cutro. 

Dopo l’arresto di Antonio Dragone al comando subentrò suo nipote Raffaele. Il gruppo era attivo soprattutto nel mercato degli stupefacenti e controllava Reggio Emilia e la sua provincia, Carpi e Mirandola nel modenese e aveva interessi anche nel piacentino. Oltre al mercato degli stupefacenti, il clan operava anche estorsioni e controllava numerosi appalti edili. Un pentito della ’ndrangheta, Francesco Fonti, disse che «tra il 1989 e il 1993 l’egemonia dei Dragone e dei loro luogotenenti, fratelli Lucente, era assoluta in Reggio Emilia». In altre zone dell’Emilia-Romagna comandavano famiglie diverse: a Modena e a Sassuolo i Falleti e i Fazzari, a Maranello e in alcune zone della Romagna i Formigine, a Nonantola gli Alvaro. La provincia di Parma era il territorio di Emilio Rossi, originario di Crotone. 

In quegli anni il killer più utilizzato dal clan Dragone in Emilia-Romagna era Paolo Bellini che, pentito, ha confessato 13 omicidi per conto della ’ndrangheta. Bellini, ex terrorista fascista del gruppo di Avanguardia nazionale, è stato condannato ad aprile all’ergastolo per concorso nella strage alla stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980. Antonio Dragone, dopo il soggiorno obbligato, andò a vivere per un certo periodo nell’albergo della famiglia Bellini, a Puianello, sempre nei pressi di Quattro Castella.

Tra i distributori di droga del clan Dragone c’era Nicolino Grande Aracri, detto “mano molle”, anche lui originario di Cutro, venuto in Emilia-Romagna al seguito di Antonio Dragone. Fu lui, negli anni Novanta, a decidere di mettersi in proprio, o meglio di scalzare l’egemonia dei Dragone. Un altro collaboratore di giustizia, Vittorino Foschi, raccontò che Nicolino Grande Aracri disse: «Loro si prendono i soldi e io no. A questo punto mi sono stancato; la famiglia me la alzo io, non do più conto ai Dragone».

Antonio Dragone venne ucciso nel 2004, a Crotone, appena uscito dal carcere. La guerra di ’ndrangheta, combattuta sia in Calabria sia in Emilia-Romagna, era già stata vinta dai Grande Aracri che consolidarono il loro potere. Nicolino Grande Aracri voleva creare nella regione un “crimine”, o “provincia”, cioè una struttura di governo che però, secondo le ferree regole della ’ndrangheta, deve poter contare su almeno 25 locali: il numero all’epoca non era sufficiente. 

I Grande Aracri agirono in maniera discreta, cercando sempre di mantenere un profilo basso, limitando il più possibile le azioni violente. Già nel 1993 il comandante della Guardia di Finanza di Bologna diceva alla commissione parlamentare antimafia: «gli appartenenti a queste organizzazioni si sono posti, rispetto all’ambiente, con molta delicatezza e grande tatto; in tal modo essi si sono inseriti gradualmente nell’ambiente. (…) hanno cominciato a comportarsi come dei tranquilli operatori economici della zona, seguendo una strategia di mimetizzazione e di grande tatto nell’aggredire l’ambiente».

Fu l’inchiesta Edilpiovra all’inizio degli anni Duemila a far emergere il potere dei Grande Aracri. L’indagine riguardò estorsioni a gestori di esercizi pubblici e privati e fatturazioni seriali per operazioni inesistenti nei confronti di imprenditori, soprattutto del settore edile, destinate a occultare il denaro che il gruppo chiedeva alle vittime, anche con la minaccia di ritorsioni e azioni incendiarie. Secondo le indagini dei carabinieri Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, sovrintendeva e dirigeva le attività del gruppo nel reggiano.

Francesco Grande Aracri, che aveva assunto il comando del clan dopo l’arresto del fratello Nicolino, che sconta l’ergastolo in regime di 41-bis, venne condannato al termine del processo Edilpiovra a tre anni e sei mesi per associazione di stampo mafioso. Per lui non cambiò nulla. Come ha detto ancora la pm del processo Grimilde: «Nella vita di Grande Aracri non c’è stato un prima e un dopo. Successivamente alle contestazioni a lui mosse in ‘Edilpiovra’, che si chiudono nel 2003, lui ha proseguito con le stesse condotte, senza fare alcun gesto di discontinuità».

Nel 2013 a Francesco Grande Aracri furono applicate le misure di prevenzione patrimoniale: vennero sequestrate due aziende edili, la Grande Aracri e la Eurogrande, 16 conti correnti e depositi bancari, sei abitazioni, nove unità commerciali, terreni, automobili, mezzi di lavoro, proprietà del valore di circa 3 milioni di euro. Nel 2015 venne emesso a Mantova un altro provvedimento di sequestro preventivo dei beni per altri due milioni di euro per proprietà a Brescello ma anche a Cutro e a Suzzara, in provincia di Mantova.

Il motivo per cui la ’ndrangheta nella zona di Brescello ha potuto prosperare a lungo indisturbata lo ha spiegato Enzo Ciconte, tra i massimi esperti in Italia di grandi associazioni mafiose:

Chi ha delle mafie l’immagine di organizzazioni solo violente o assassine non riesce a comprendere come queste persone che si comportano in maniera così normale possano essere considerate mafiose. L’assenza dei reati tipicamente mafiosi, come l’omicidio, ha permesso agli ’ndranghetisti di costruirsi una rappresentazione lontana da quella a essi classicamente attribuita. 

Ha detto Beatrice Ronchi sempre nella sua requisitoria: «Non è oggetto del processo verificare se Brescello ha capito che non ci si difende dalla mafia negandola. Speriamo almeno che Grimilde abbia aiutato ad aprire qualche occhio in più».

– Leggi anche: Dov’è la ‘ndrangheta in Italia

Eppure c’era chi denunciava. Nel 2003 i proprietari del Caffè Don Camillo di Brescello chiusero il bar dichiarando di aver ricevuto una richiesta estorsiva. Il giorno dopo la chiusura, i gestori del bar affissero un cartello con la scritta: “Non essendo tutelati dalla legge si sospende l’attività per estorsioni e minacce mafiose”. L’allora sindaco Ermes Coffrini ordinò ai vigili urbani di coprire la scritta e diffuse un comunicato in cui si sottolineava che i problemi dei proprietari “non avevano a che vedere con le organizzazioni del crimine organizzato di cui non risulta il radicamento nel nostro territorio”.

Nel decreto con cui nel 2016 il comune di Brescello fu sciolto per infiltrazioni mafiose venne sottolineato il clima “superficiale, permeato da una forte fragilità culturale, rispetto alla criminalità organizzata e ai suoi più pericolosi esponenti”. Questo anche se le inchieste antimafia “avrebbero dovuto mettere in guardia componente politica e struttura comunale sul rischio incombente di una contaminazione insana del territorio”. Molti cittadini di Brescello hanno considerato ingiusto lo scioglimento del consiglio comunale sostenendo che Brescello avesse fatto da capro espiatorio e per coprire problemi di infiltrazione, ben più pesanti, a Reggio Emilia.

Quarantotto imputati nel processo Grimilde hanno scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato. Tra questi Salvatore Grande Aracri, figlio di Francesco, detto “u calamaru” per la sua capacità tentacolare di fare affari. Condannato in primo grado a 20 anni, in appello la sua pena è stata ridotta a 14 anni e quattro mesi. È stato invece assolto in questo processo Nicolino Grande Aracri, il boss in carcere, mentre un’altra figlia di Francesco, Rosita, è stata condannata a due anni e quattro mesi.

È stato condannato a 15 anni e quattro mesi il politico Giuseppe Caruso, personaggio chiave del processo. Ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, eletto con Fratelli d’Italia, è stato condannato perché, da dirigente dell’agenzia delle Dogane, era secondo i giudici il tramite tra i Grande Aracri e il mondo imprenditoriale, finanziario e politico della regione.

Un caso al centro del processo Grimilde e che spiega bene il modo di agire del clan è il cosiddetto affare Oppido. Si tratta di una truffa da due milioni e 248 mila euro attuata attraverso una falsa sentenza, in apparenza emessa dal tribunale di Napoli. La falsa sentenza attestava il diritto di risarcimento per l’esproprio di un terreno, poi risultato inesistente, a due uomini della ’ndrangheta, Domenico e Gaetano Oppido, di Cadelbosco, in provincia di Reggio Emilia. La falsa sentenza superò tutte le verifiche grazie a un funzionario compiacente del ministero delle Infrastrutture. I soldi furono erogati senza problemi anche con l’aiuto di un funzionario della filiale di Reggio Emilia della Banca di Cesena.

Nel processo Grimilde si è parlato anche di caporalato. Francesco e Salvatore Grande Aracri, secondo la sentenza del processo con rito abbreviato, avrebbero arruolato e inviato a Bruxelles operai per conto di una ditta albanese che cercava manovalanza a buon mercato. La ditta albanese pagava gli operai 14 euro all’ora ma ai lavoratori ne arrivavano solo tra gli otto e i dieci mentre gli altri soldi finivano alla cosca. L’accordo prevedeva dieci ore di lavoro al giorno, sabato e domenica compresi. Chi protestava veniva duramente picchiato dagli uomini dei Grande Aracri.

Nel processo con rito ordinario, la pubblico ministero Beatrice Ronchi ha chiesto 30 anni di carcere per il capo della famiglia, Francesco Grande Aracri, e 16 anni e sei mesi per un altro suo figlio, Paolo.