Un mondo senza Twitter è possibile?

Non sembra una prospettiva plausibile nel breve periodo, ma l'acquisizione da parte di Musk ha innescato alcune riflessioni sullo spazio che occupa oggi nelle nostre vite

Twitter
La sede di Twitter a San Francisco, in California (Justin Sullivan/Getty Images)
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L’acquisizione di Twitter da parte dell’imprenditore miliardario statunitense Elon Musk e le sue prime contestate decisioni, riguardo ai licenziamenti di massa e ai piani di monetizzazione del traffico sulla piattaforma, hanno generato molte discussioni sulle possibili evoluzioni future del social network. Oltre alle previsioni più preoccupate e pessimiste sono circolate anche riflessioni più generiche e ampie, in parte diffuse già da tempo, su cosa sia diventato Twitter e quali siano i vantaggi e gli svantaggi che genera oggi all’interno del dibattito pubblico.

Alcune riflessioni si sono concentrate su un’ipotesi al momento abbastanza irrealistica, per quanto discussa, ma comunque utile per avere un’idea dell’estesa influenza esercitata da Twitter nel bene e nel male: cosa succederebbe se, per assurdo, fallisse e smettesse di esistere. E quanto l’eventuale assenza di uno strumento come Twitter, unico per molti aspetti, condizionerebbe prassi ormai consolidate nella politica, nei media e nella società.

Nelle ultime due settimane gli utenti di Twitter hanno dovuto chiedersi come sarebbe il mondo senza, ha scritto Vox, «dopo l’acquisto dell’azienda da parte dell’uomo più ricco del mondo: un evento che apparentemente nessuno voleva, men che meno lo stesso Musk».

Le riflessioni riguardano prima di tutto gli Stati Uniti, essendo Twitter una piattaforma utilizzata prevalentemente in quel contesto e molto meno in Europa e in Italia. Ma sono rilevanti, al di là delle statistiche sulla distribuzione geografica degli utenti, per le ripercussioni che molti dibattiti che si sviluppano su Twitter hanno poi su larga scala. E per l’influenza che questa piattaforma esercita di fatto anche in contesti geograficamente molto distanti, spesso raggiunti e condizionati da argomenti e storie che sono state pubblicate, discusse e rielaborate su Twitter negli Stati Uniti, prima di essere riprese da altri media nel mondo.

Da un lato esiste una consapevolezza di quanto Twitter, pur essendo molto meno popolare di altre piattaforme come Facebook, YouTube o TikTok, sia diventato fondamentale nell’ecosistema dei media. È infatti generalmente condivisa l’idea che, più di altri social network, Twitter abbia semplificato e accelerato la circolazione di informazioni, incrementato la quantità e disponibilità delle fonti e ridotto le attività di intermediazione: caratteristiche che, in determinati contesti politici, hanno peraltro favorito parziali processi di democratizzazione. E negli Stati Uniti, ha aggiunto Vox, Twitter ha contribuito spesso in modo determinante a molti successi progressisti, da “Black Lives Matter” a “MeToo”, espandendo la pluralità delle voci presenti nel dibattito e precedentemente non ascoltate.

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Dall’altro lato, è da molti considerato problematico il fatto che un social network frequentato da un’esigua minoranza della popolazione possa esercitare un’influenza così significativa sulla realtà. Senza considerare che soltanto un gruppo minoritario all’interno di quella minoranza è poi la parte concretamente influente: secondo dati diffusi dal Pew Research Center nel 2020 e confermati da ricerche più recenti, meno del 10 per cento dei circa 400 milioni di utenti mensili attivi è responsabile del 90 per cento dei tweet sulla piattaforma.

Alla capacità di Twitter di condizionare negativamente il dibattito pubblico è stata inoltre associata da molti, soprattutto negli ultimi anni, la diffusione di fenomeni complessi – e determinati da molteplici fattori – come la polarizzazione politica, la disinformazione, le teorie del complotto e l’accresciuta aggressività e violenza nelle discussioni e, spesso, nelle azioni promosse e incentivate da quelle discussioni.

Sono considerazioni che valgono in una certa misura anche per altri social network, peraltro molto più affollati. Ma nel caso di Twitter assumono particolare rilevanza: sia per l’approccio alla moderazione dei contenuti, per lungo tempo considerato più tollerante e permissivo che altrove; sia per l’utilizzo che di questa piattaforma fanno e hanno fatto diversi politici con un larghissimo seguito e in grado di ottenere estesi consensi. Su tutti, l’ex presidente americano Donald Trump, che prima di essere rimosso da Twitter aveva circa 88 milioni di follower.

Poche ore dopo l’acquisizione di Twitter da parte di Musk, ha fatto notare il giornalista conservatore ed ex collaboratore di George W. Bush David Frum, un estremista di destra che cercava la speaker della Camera Nancy Pelosi – che in quel momento si trovava a Washington DC – è entrato in casa di lei e ha aggredito il marito Paul Pelosi con un martello, procurandogli una frattura al cranio. Nei suoi post online, l’aggressore si dichiarava sostenitore di Trump e riprendeva varie teorie del complotto sulla politica americana, comprese quelle di QAnon.

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L’acquisizione di Twitter da parte di Musk, anche in ragione del suo dichiarato interesse per una maggiore tutela della libertà di espressione e per l’ipotesi di riammettere Trump, è stata accolta positivamente da molti utenti di destra che negli ultimi tempi avevano smesso di frequentare la piattaforma e cancellato la app dai loro smartphone. Già ad aprile scorso, dopo che Musk aveva reso pubbliche le sue intenzioni, il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis aveva ottenuto oltre 96 mila nuovi follower in un paio di giorni.

DeSantis è peraltro citato da Frum come uno degli esponenti repubblicani autorevoli che, a differenza dell’ex vicepresidente Mike Pence o del leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell, non hanno apertamente stigmatizzato l’aggressione al marito di Pelosi: sono rimasti in silenzio, o hanno sostenuto che Pelosi non sia del tutto innocente. Da tempo sono oggetto di preoccupazioni e critiche, in generale, le crescenti affinità tra le frange di estrema destra e gli esponenti autorevoli del partito Repubblicano, anche in relazione ai contenuti violenti e complottisti condivisi su Twitter.

Secondo un’analisi pubblicata da Bloomberg e dalla società di analisi del traffico sui social media Dataminr, durante la notte e il giorno successivi all’acquisizione di Twitter da parte di Musk la diffusione di un linguaggio d’odio, inclusi insulti razzisti e antisemiti, è cresciuta significativamente. L’utilizzo di un insulto razzista, presente mediamente meno di 12 volte ogni cinque minuti nelle ore prima dell’acquisizione, è cresciuto del 1.300 per cento: al suo apice, l’insulto era presente 170 volte ogni cinque minuti.

La libertà di espressione su Twitter è peraltro un aspetto problematico anche in altri contesti linguistici e geografici, come affermato dal ricercatore ruandese in diritto internazionale Felix Ndahinda, che insegna alla University of Rwanda a Kigali e lavora anche a Tilburg, nei Paesi Bassi, come consulente su questioni relative ai conflitti e alla pace nella regione dei Grandi Laghi africani.

Ndahinda, che ha seguito per anni la guerra armata nella Repubblica Democratica del Congo, sostiene che gran parte dell’incitamento all’odio diffuso sui social media nell’ambito di quella guerra passi inosservato nei sistemi che le piattaforme, incluso Twitter, utilizzano per individuare contenuti pericolosi. Perché le lingue con cui quell’odio viene espresso e condiviso non sono integrate nei sistemi di screening utilizzati dalle piattaforme: sistemi peraltro considerati spesso inefficienti o intempestivi già negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali.

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Le reazioni dei progressisti alle vicende di Twitter e Musk – i Democratici sono peraltro la parte più attiva sulla piattaforma – sono state prevalentemente negative. In molti hanno detto di voler lasciare Twitter ma non è detto che lo faranno, e un passaggio di massa ad altri social è considerato piuttosto improbabile: anche perché le piattaforme descritte in questi giorni come una possibile alternativa a Twitter – Mastodon, per esempio – sono meno intuitive e più farraginose.

Ci sono inoltre ragioni più sostanziali. In uno studio pubblicato nel 2020, due ricercatori in scienze dell’informazione alla University of Colorado Boulder, Casey Fiesler e Brianna Dym, si occuparono delle «migrazioni» di grandi comunità online negli anni Dieci del Duemila. E scrissero che, come nelle migrazioni fisiche, a motivare quelle online sono allo stesso tempo sia ragioni per lasciare una piattaforma che ragioni per iscriversi a un’altra. Un abbandono di Twitter di massa, ha detto Dym alla giornalista americana Kaitlyn Tiffany in un articolo sull’Atlantic, dovrebbe essere preceduto dall’introduzione di modifiche talmente significative da «erodere la fiducia nella piattaforma».

«In qualità di persona che ha trascorso diverse ore su Twitter quasi ogni giorno negli ultimi otto anni, trovo difficile immaginare di lasciarlo», ha scritto Tiffany: «A meno che non se ne vadano tutti gli altri, e restino soltanto le aziende e i fan di Musk».

L’introduzione di politiche molto orientate alla tutela della libertà di espressione e alla limitazione degli interventi di moderazione dei contenuti è considerata improbabile anche perché tendenzialmente controproducente, per un social network che ambisca a essere molto popolare e a trattenere e attirare inserzionisti anziché scoraggiarli. Alcuni degli utenti che nel tempo sono stati banditi da Twitter si sono spostati su piattaforme meno note e tendenzialmente meno regolate, ha detto alla rivista Nature il ricercatore statunitense Gianluca Stringhini, che si occupa di sicurezza informatica alla Boston University.

Le attività di quegli utenti sui social media, una volta che si sono trasferiti su altre piattaforme, tendono a diventare più tossiche e le loro idee più radicalizzate ideologicamente. «Vediamo una comunità che diventa più impegnata, più attiva, ma anche più piccola», ha detto Stringhini. E sono di solito quelle piattaforme il luogo in cui si sviluppano le false narrazioni.

Quando poi quelle narrazioni arrivano su piattaforme più grandi e più popolari, come Twitter, «vanno fuori controllo perché tutti le vedono, e i giornalisti se ne occupano», ha aggiunto. Le politiche di limitazione dell’incitamento all’odio e della disinformazione su determinati argomenti, come per esempio il coronavirus, diventano quindi fondamentali perché riducono le possibilità che alcuni tweet vengano amplificati e incontrino un pubblico più ampio.

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Nel suo articolo sull’Atlantic Frum ha raccontato di essere un utente di Twitter dal 2009 e ha elencato una serie di ragioni che hanno reso Twitter «uno degli strumenti più preziosi» per il suo lavoro. «Twitter è un canale cruciale di informazioni aggiornate, una fonte di breaking news, una rete sempre attiva su eventi che vanno oltre l’orizzonte», ha detto Frum, citando le proteste in Iran, le battaglie in Ucraina, il rallentamento dell’economia cinese e le crisi alimentari in Africa.

Uno dei contesti in cui sembra più difficile una sostituzione di Twitter con qualcos’altro insomma è quello dei media. Per i giornalisti, e indirettamente quindi anche per i lettori loro e dei giornali per cui lavorano, Twitter è da oltre dieci anni uno strumento fondamentale per informare, rimanere aggiornati e commentare riguardo alle notizie e ai loro sviluppi. L’efficacia della piattaforma per queste situazioni è legata alle sue funzionalità e caratteristiche, ma anche al fatto che ospita di fatto tutte le persone che in quei casi hanno qualcosa di importante o interessante da dire: poterle leggere tutte nello stesso posto, contemporaneamente, rende Twitter probabilmente insostituibile, almeno per il momento.

In contrasto con altre opinioni che si concentrano sui limiti di scrittura tipici della piattaforma per dimostrare una superficialità dei contenuti in parte inevitabile, Frum sostiene invece di aver sviluppato proprio grazie a Twitter reti di contatti formate da esperti e specialisti facilmente raggiungibili. E di riuscire in questo modo a tenersi aggiornato e informato, anche approfonditamente, su questioni complesse e controverse.

Ma allo stesso tempo Twitter è da sempre associato, oltre che alla disinformazione, anche a rischi di conformismo e degenerazione della democrazia in oclocrazia, il predominio politico delle masse sulle leggi, aggiunge Frum. L’incitamento all’odio diffuso sulla piattaforma è causa di danni spesso irreversibili alle persone, che possono diventare oggetto di aggressioni – anche fisiche – da parte di altre persone le cui percezioni sono distorte dalla partecipazione a questi «rituali» di gruppo.

Questi rischi possono essere mitigati, secondo Frum, attraverso una gestione prudente e attenta del proprio account: a cominciare dalla scelta delle persone da seguire fino alla limitazione delle funzioni di messaggistica diretta, in modo che non possa essere utilizzata per minacce e molestie. Ma è comunque necessario un «sostegno istituzionale», e cioè un sistema di regole che limiti gli interessi delle forze antidemocratiche anziché servirli. Che «non è mai stato il punto forte di Twitter», conclude Frum, ma rischia di diventare con Musk un limite ancora più grave.

La capacità di Twitter di continuare a essere una fonte utile di informazioni dipenderà ovviamente da quante persone resteranno in futuro sulla piattaforma. Funzioni oggi molto preziose come il motore di ricerca interno, ha detto a Vox il podcaster e autore inglese Hussein Kesvani, lo sarebbero progressivamente sempre meno in caso di «esodo» di molte persone e quindi di riduzione dell’eterogeneità dell’utenza attiva. E uno degli aspetti più negativi in una prospettiva di questo tipo, ha aggiunto Kesvani, sarebbe il fatto «che potremmo non sapere mai cosa sia successo alle persone che seguivamo su Twitter, a meno che non si presentino su un’altra linea temporale».

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Di fatto attualmente Twitter è abitato e animato da alcune categorie piuttosto precise di persone, mentre è totalmente assente dalla vita di altri, che pure vengono a contatto con i suoi effetti e le sue propagazioni nel dibattito pubblico, proprio per l’influenza della piattaforma. Oltre ai giornalisti, Twitter è usato da opinionisti, attivisti e influencer di vario tipo, che però già da tempo si stanno spostando verso altre piattaforme, specialmente Instagram ma anche TikTok.

Un eventuale spostamento verso social network con altre caratteristiche potrebbe secondo molti avere effetti anche sul dibattito pubblico: di per sé Twitter favorisce infatti argomentazioni perentorie e scambi di opinioni sbrigativi, orientati spesso alla sopraffazione dialettica più che al confronto sincero. Formati che prediligano video parlati, e che quindi permettano discorsi più lunghi e impongano di pronunciare le cose che si vuole comunicare, incentivano conversazioni e discussioni di tipo diverso, anche se non necessariamente più costruttive. E, veicolando tratti prosodici non presenti nello scritto, riducono almeno teoricamente le possibilità di fraintendimenti ed equivoci. Non sarebbe comunque un medium per tutti, e chi non è a proprio agio a parlare davanti a una telecamera potrebbe non avere più modo di raggiungere efficacemente il suo pubblico.

Per quanto riguarda i brand, invece, probabilmente un’ipotetica scomparsa di Twitter non avrebbe vere conseguenze: continuerebbero a usare per i fini promozionali gli altri social. Diverso è il discorso per gli account istituzionali e di organizzazioni varie: il formato testuale e predisposto alla frequente condivisione di link di Twitter lo rende uno strumento particolarmente adatto alle comunicazioni ufficiali, che potrebbero faticare a trovare un altro spazio altrettanto funzionale.