Quanto vale l’evasione fiscale in Italia

Dopo anni di miglioramenti per la prima volta nel 2019 è scesa sotto i 100 miliardi di euro, ma sembra che le cose cambieranno già dalla prossima rilevazione

(Riccardo Antimiani/ANSA)
(Riccardo Antimiani/ANSA)
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Con la pubblicazione dell’aggiornamento della Nota di aggiornamento al DEF (NADEF) da parte del governo di Giorgia Meloni è stato reso pubblico anche il consueto rapporto annuale sull’economia sommersa e l’evasione fiscale, che mostra in dettaglio quanti sono i miliardi ancora sottratti illegalmente dalle casse dello stato in questo modo.

Come era stato già anticipato in un aggiornamento a inizio anno, nel 2019 per la prima volta l’evasione di imposte e contributi era scesa sotto la soglia dei 100 miliardi di euro annui. Negli anni sono stati introdotti vari strumenti innovativi per rendere l’evasione di fatto più difficile, con buoni risultati. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza fissa degli obiettivi ambiziosi di ulteriore miglioramento per i prossimi anni, ma le prime misure fiscali che sta valutando e preparando il governo rischiano di andare nella direzione opposta, come quella sul tetto all’uso del contante e sull’ampliamento della platea delle partite IVA in regime agevolato.

I numeri dell’evasione
L’evasione fiscale si misura tramite il cosiddetto tax gap, ossia la differenza tra quanto è dovuto e quanto realmente viene versato dai contribuenti. Gli ultimi dati disponibili, e illustrati dal rapporto allegato alla NADEF, fanno riferimento al 2019, quando il tax gap è stato pari a 99,2 miliardi di euro: 86,5 miliardi sono le imposte evase (come IRPEF, IVA, IRES e IRAP), mentre 12,7 miliardi i contributi non pagati (cioè tutti quei pagamenti che servono per finanziare le pensioni e le prestazioni assistenziali come la malattia, la maternità e così via).

Si tratta complessivamente di un 3 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Per la verità, il totale evaso è in riduzione da anni: rispetto al 2015 il gettito mancante totale nel 2019 si è ridotto di 6,9 miliardi di euro. E anche la propensione all’evasione, ossia la percentuale di imposte evase sul totale di quelle dovute, si è alquanto ridotta.

Questa riduzione generalizzata riguarda quasi tutte le imposte: si è ridotto il tax gap dell’IVA, dell’IRES e dell’IRAP. Si è poi ridotta eccezionalmente l’evasione del canone Rai dopo che nel 2016 il governo di Matteo Renzi lo inserì in bolletta: la propensione all’evasione scese istantaneamente dal 36 per cento del 2015 al 9,9 per cento.

Tuttavia l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, la cui riforma prevista dal governo di Mario Draghi era stata definitivamente abbandonata, è ancora piuttosto evasa, soprattutto quella che dovrebbe essere pagata da autonomi e imprese. È l’imposta più evasa in Italia, con un gettito mancante di 32,2 miliardi di euro nel 2019. Manca allo stato il 68,3 per cento dell’IRPEF dovuta dagli autonomi e dalle imprese, mentre solo il 2,8 per cento di quella dovuta per il lavoro dipendente irregolare.

Il tax gap IRPEF per la parte relativa ai redditi da lavoro autonomo e da impresa individuale continuerà ad aumentare: nel 2020 si prevede che abbia raggiunto il 68,7 per cento, contro il 65,1 per cento del 2015.

Il tax gap dell’IVA invece continua a diminuire da anni e se ne prevede la riduzione al 19,3 per cento nel 2020, 7 punti percentuali in meno rispetto al 2015. Nonostante questi buoni risultati, si tratta comunque di quasi un quinto dell’IVA che andrebbe incassata, un valore enorme. E all’interno dell’Unione europea l’Italia è il primo paese in termini assoluti per perdita di gettito, con 30 miliardi di euro di IVA evasa secondo i calcoli della Commissione europea, 7 in più della Germania, il secondo paese peggiore.

Secondo un’analisi di lavoce.info, un’elevata evasione dell’IVA non sembra essere influenzata da un’aliquota elevata: per esempio l’Ungheria, che ha l’aliquota IVA più alta in Europa (27 per cento, senza aliquote ridotte per beni di prima necessità), ha un tax gap dell’8,4 per cento, inferiore alla media europea.

Nel rapporto annuale della Commissione europea sull’evasione dell’IVA sono individuate una serie di variabili che possono influire sull’andamento del tax gap: legate alla gestione dell’amministrazione fiscale, alla congiuntura economica, alla struttura economica e istituzionale del paese e che riguardano transazioni che comportano un maggiore rischio di frode fiscale (per esempio le importazioni, che sono più facili da nascondere al fisco).

L’amministrazione fiscale sembra avere un ruolo importante nel determinare l’evasione complessiva. Maggiore è la sua efficienza, maggiore sarà la quota di IVA incassata dallo stato. Ma anche la digitalizzazione dei processi per la riscossione delle imposte sembra avere un forte ruolo nella riduzione dell’evasione dell’imposta.

Anche l’andamento dell’economia incide sul livello di evasione fiscale. Un aumento del PIL o dei consumi, per esempio, tende a ridurre il tax gap, mentre un’alta disoccupazione tende ad aumentarlo.

Ma ci sono anche alcune interessanti variabili strutturali. La dimensione delle imprese, per esempio, ha un forte impatto sul livello di evasione: maggiore è il numero di occupati per impresa, quindi più sono mediamente grandi le aziende, minore è la percentuale di evasione dell’IVA.

Il rapporto mostra anche altri risultati più intuitivi: una maggiore quota di transazioni compiute in maniera elettronica causa una riduzione dell’evasione, mentre ne provoca un aumento una maggiore dimensione dell’economia sommersa, che comprende tutte le attività economiche che si sottraggono a qualsiasi rilevazione statistica, tra cui le attività criminali, il lavoro nero e via così.

L’Italia tende a collocarsi sui livelli più bassi in quasi tutte le variabili che inducono una riduzione dell’evasione.

La lotta all’evasione nei prossimi anni
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha posto obiettivi ambiziosi di riduzione dell’evasione fiscale. La propensione all’evasione deve ridursi del 5 per cento entro il 2023 e del 15 per cento entro il 2024 rispetto al livello del 2019. Il che vuol dire che nel giro di due anni lo stato dovrà fare in modo che le tasse evase si riducano di 12 miliardi e che la propensione all’evasione arrivi al 15,8 per cento, rispetto al 18,5 per cento del 2019, come ha ricordato in un articolo su lavoce.info Alessandro Santoro, presidente della commissione di esperti che ogni anno redige il rapporto sull’evasione fiscale.

Si tratta di una riduzione alquanto ambiziosa, soprattutto se si tiene conto che tra il 2014 e il 2019 la sola evasione fiscale (il valore che non tiene conto di quella contributiva, ossia dei contributi evasi e non pagati) si è ridotta proprio di quasi 12 miliardi. Nei prossimi due anni si dovrà ottenere lo stesso risultato che è stato ottenuto in cinque.

Senza considerare che in questo periodo sono stati introdotti due strumenti su larga scala e che hanno funzionato molto bene per ridurre l’evasione dell’IVA, come lo split payment (un complicato meccanismo che, in poche parole, fa pagare direttamente l’IVA allo stato quando gli acquisti riguardano la pubblica amministrazione) e la fatturazione elettronica. Ma più si riduce il tax gap più è difficile ridurlo ulteriormente, perché si tratta di passare a strumenti più sofisticati, ma che daranno risultati solo marginalmente migliori.

Diverse dalla riduzione del tax gap, che implica operazioni e strategie preventive che riducano strutturalmente le imposte evase, sono le operazioni di accertamento e controlli sui redditi condotte dall’Agenzia delle Entrate. Il recupero annuale in questo caso è più sostanzioso, ma imprevedibile essendo condotto a posteriori.

– Leggi anche: Non si può finanziare tutto con la lotta all’evasione fiscale

Le idee del governo Meloni sul fisco
Al di là degli obiettivi posti dal PNRR, bisognerà poi valutare i risultati delle decisioni del governo di Giorgia Meloni in materia fiscale. In particolare, ce ne sono due in fase di valutazione che potranno avere un impatto sui numeri dell’evasione: il primo riguarda l’aumento del tetto all’uso del denaro contante e il secondo l’aumento della soglia di reddito per il trattamento fiscale di favore per le partite IVA, una sorta di flat tax.

In linea di principio entrambi non rientrano tra gli strumenti classici della lotta all’evasione fiscale.

Partiamo dal contante. Il governo dovrebbe introdurre già nella prossima legge di bilancio l’aumento del tetto all’uso del contante a 5 mila euro, modificando così la misura che a inizio 2023 avrebbe dovuto portarlo a mille euro dagli attuali 2 mila. Benché i membri della maggioranza sostengano che l’aumento del tetto all’uso del denaro contante non abbia alcun legame con l’aumento dell’evasione fiscale (e in parte hanno ragione nel dire che non è stato scientificamente dimostrato), si può dire però con certezza che la misura non va nella direzione di contrastarla, perché di fatto rende la legge più permissiva verso le transazioni non tracciabili, quelle che cioè possono avvenire all’oscuro del fisco.

Sono invece proprio le transazioni tracciabili e i pagamenti elettronici che rendono la lotta all’evasione più facile ed efficace.

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La stessa cosa vale per la cosiddetta flat tax per le partite IVA: al momento un’aliquota del 15 per cento è riservata solo ai redditi dei lavoratori autonomi fino a 65 mila euro, ma il governo pensa di ampliare la platea portando il limite a 85 mila euro (anche se alcuni esponenti della maggioranza continuano a parlare di 100 mila euro). La soglia dipenderà anche da quante risorse riuscirà a trovare per questa misura nella prossima legge di bilancio.

Santoro, sempre nel suo articolo su lavoce.info, fa notare che l’IRPEF più evasa è proprio quella degli autonomi e delle piccole imprese, che spesso sottodichiarano i loro redditi per rientrare nel regime con la tassazione agevolata. Lo dice lo stesso rapporto sull’evasione allegato alla NADEF: «L’introduzione di una flat tax sino a una certa soglia può generare comportamenti anomali in corrispondenza della soglia medesima».

L’analisi statistica riportata nella relazione sembra confermare per il 2019, quando fu introdotta la flat tax per gli autonomi con un reddito sotto 65 mila euro, un effetto di “autoselezione” dei contribuenti con ricavi e compensi al di sotto della soglia massima al fine di beneficiare dell’agevolazione prevista dal regime forfettario: questo «può dipendere da una riduzione dell’attività produttiva» o «da una tendenza a sottodichiarare i ricavi pur di non superare la soglia dei 65 mila euro».

Secondo alcuni studi dell’Agenzia delle Entrate, alzare la soglia per questo trattamento rischierebbe di ampliare così la platea di potenziali evasori, che ometterebbero qualche fattura per rientrare all’interno della misura.

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