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  • Giovedì 3 novembre 2022

Netanyahu non se n’è mai andato

Come il più longevo primo ministro della storia di Israele ha ottenuto il suo sesto mandato da capo del governo, senza mai defilarsi dalla politica nazionale

(Amir Levy/Getty Images)
(Amir Levy/Getty Images)

Grazie alla vittoria della coalizione di destra alle elezioni parlamentari in Israele, che si sono tenute martedì, Benjamin Netanyahu inizierà tra pochi giorni il suo sesto mandato da primo ministro.

Netanyahu è già il primo ministro rimasto in carica per più anni nella storia di Israele, e la vittoria allungherà ancora il suo primato. Il suo dominio sulla politica israeliana è talmente incontrastato che anche nell’anno e mezzo appena trascorso all’opposizione gran parte del dibattito pubblico girava intorno a lui, ai suoi processi per corruzione, all’eredità dei suoi anni da capo del governo, e alle critiche che muoveva all’esecutivo in carica, formato da forze diversissime, che secondo una descrizione efficace del Washington Post «non erano d’accordo praticamente su nulla, tranne che sulla necessità di tenere fuori Netanyahu».

Netanyahu oggi ha 73 anni, ha sempre più problemi fisici e rimane sotto processo per tre intricatissimi casi di corruzione e frode che dovrebbero concludersi in via definitiva fra almeno tre anni: a meno di sorprese saranno gli ultimi anni in cui potrà incidere sulla politica israeliana.

Il suo consenso personale però non sembra dare segni di cedimento. Esiste un pezzo consistente dell’opinione pubblica israeliana, circa un terzo dell’elettorato, che ormai da anni vota per lui e per il suo partito, il Likud, il quale ottiene la maggioranza relativa dei seggi in parlamento da sette elezioni consecutive. Tutto questo nonostante negli anni Netanyahu abbia diffuso moltissime notizie false, soprattutto sui palestinesi o gli israeliani di origine araba, incoraggiato la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania, stretto amicizia con alcuni dei leader più controversi al mondo fra cui Donald Trump, Vladimir Putin e il saudita Mohammad bin Salman, e gestito in maniera molto controversa la pandemia da coronavirus (in vari momenti del picco della pandemia Israele è stato il paese col numero di casi più alto al mondo in rapporto alla popolazione).

Diversi commentatori ritengono che il motivo del suo successo sia soprattutto la sua insistenza sulla sicurezza interna di Israele.

Uno dei corrispondenti di BBC News da Gerusalemme, Raffi Berg, ha spiegato che «il successo di Netanyahu deve molto alla sua immagine di persona più adatta a proteggere il paese dalle forze ostili nel resto del Medio Oriente». L’elettorato israeliano presta grandissima attenzione al tema della sicurezza almeno dalla fine della Seconda intifada, cioè la seconda rivolta popolare palestinese, che si concluse nel 2005.

Prima di allora gli attentati terroristici contro i civili israeliani erano quasi all’ordine del giorno: in quegli anni morirono più di 700 civili, più del doppio dei soldati israeliani impegnati nei combattimenti (durante il conflitto morirono anche quasi 5mila palestinesi fra miliziani e civili). Le bombe e gli attentati suicidi diventarono talmente frequenti che il governo israeliano costruì attorno a Gerusalemme e agli insediamenti israeliani della sua periferia un muro in piedi ancora oggi.

Una sezione del muro nei pressi di Betlemme, in Cisgiordania (AP Photo/Mahmoud Illean)

«In estrema sintesi, nel decennio precedente al 2009, quando Netanyahu ottenne il potere, la paura della morte ci accompagnava ogni volta che uscivamo di casa», ha raccontato qualche tempo fa il commentatore israeliano Matti Friedman sul New York Times: «C’era la possibilità che i tuoi figli saltassero in aria sull’autobus di ritorno da scuola. Nei dieci anni successivi non è più successo. Accanto a questo fatto, ogni altro fattore scompare».

Insistere così tanto sul tema della sicurezza, con lo stanziamento di somme enormi per le forze di sicurezza e un controllo molto più severo e violento nei confronti dei palestinesi, ha permesso anche a Netanyahu di descrivere l’opposizione di sinistra e tutti quelli che lo criticavano come persone poco interessate alla salute degli israeliani, troppo legate ai palestinesi e alle ong straniere, dotate di scarso pragmatismo ed esperienza di governo, e così via.

La Seconda intifada e il fallimento dell’ultimo concreto negoziato per una soluzione a due stati con i palestinesi – cioè la creazione di uno stato palestinese confinante con quello israeliano, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza – ebbero conseguenze pesantissime per il Partito Laburista, che fino ad allora aveva dominato la politica israeliana e che storicamente si era posizionato come “il partito della pace”. Da allora i Laburisti non sono più riusciti a trovare il loro posto nel dibattito politico israeliano, dominato da Netanyahu e dalla sua attenzione maniacale per la sicurezza interna, a costo di sacrificare una pace più duratura coi palestinesi.

– Leggi anche: La storia dell’Operazione Salomone

Alle elezioni di martedì il Partito Laburista è riuscito a malapena a superare la soglia di sbarramento del 3,25 per cento, mentre il partito di sinistra radicale Meretz è arrivato appena sotto. Già da diversi anni l’opposizione a Netanyahu è guidata da partiti centristi, le cui soluzioni non sono poi così diverse da quelle proposte dal Likud su vari temi, ma i cui leader spesso hanno meno spessore ed esperienza politica di Netanyahu.

Anche durante l’ultima campagna elettorale, Netanyahu ha insistito molto sul fatto che l’unica persona in grado di guidare efficacemente il governo, a suo dire, sarebbe lui: e che nell’anno e mezzo in cui al governo si sono trovati gli altri c’è stata una serie di attentati nel territorio israeliano con una frequenza che non si vedeva da anni.

Ci sono altri elementi che i commentatori citano per spiegare la longevità della carriera politica di Netanyahu, fra cui il particolare sistema elettorale israeliano – che favorisce la formazione di coalizioni molto ampie, ma guidate da un unico leader – e una efficiente gestione economica. Dal 2009 a oggi il PIL israeliano è più che raddoppiato, e nonostante grosse sacche di disuguaglianze il tasso di disoccupazione è ai minimi storici, intorno al 3 per cento.

Ma il fattore principale rimane la sua attenzione alla sicurezza e il progressivo scivolamento in secondo piano, nel dibattito israeliano, di tutte le altre questioni. Alcuni commentatori sono convinti che Netanyahu abbia spostato così a destra l’elettorato israeliano che la principale minaccia del prossimo governo non sarà l’opposizione, frammentata e confusa, ma gli alleati sempre più estremisti della coalizione di destra.

Anshel Pfeffer, editorialista di Haaretz e biografo non ufficiale di Netanyahu, ipotizza che i «mostri» creati da Netanyahu, cioè i partitini di estrema destra come Potere Ebraico legittimati da un’alleanza col Likud e da un elettorato sempre più conservatore, in un futuro non troppo distante potranno mettere a rischio la tenuta della coalizione sottraendone la guida dal controllo di Netanyahu, ritenendolo fin troppo moderato per i propri gusti.