Cosa rese possibile la marcia su Roma

L'insurrezione fascista di 100 anni fa ebbe successo soprattutto perché Mussolini aveva preparato politicamente il terreno con anticipo

“Marcia su Roma”, Giacomo Balla, 1931-1932
“Marcia su Roma”, Giacomo Balla, 1931-1932
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La sera del 29 ottobre 1922 Benito Mussolini si trovava alla stazione di Milano per prendere un treno notturno verso Roma. Circondato da una piccola folla di squadristi in camicia nera, fu raggiunto da Edgar Mowrer, corrispondente in Italia per il Chicago Daily News, che gli chiese: «Signor Mussolini, mi dice cosa succede?». Poche ore prima Mussolini aveva ricevuto un telegramma in cui il re, Vittorio Emanuele III, gli comunicava la disponibilità ad affidargli un incarico di governo. Mussolini rispose: «Non lo sapete? Vado a Roma per instaurare il fascismo».

L’incarico del re fu l’ultimo passaggio che portò Mussolini al potere, e il primo che segnò l’inizio della dittatura fascista, la prima in Europa. Sarebbe durata oltre vent’anni, ma non accadde tutto all’improvviso. Prima di quel 29 ottobre c’era stata una lunga preparazione culminata con l’insurrezione nota come “marcia su Roma”, avvenuta tra il 27 e il 28 ottobre 1922, cento anni fa. Nei decenni successivi l’immaginario collettivo ha attribuito alla marcia un certo valore simbolico: l’evento che, in maniera repentina e con la minaccia della violenza, trasformò l’intero sistema politico italiano in senso autoritario.

La marcia ha avuto senza dubbio una sua importanza, ma da sola non basta a spiegare come sia avvenuta la presa del potere del 1922. Soprattutto perché, di per sé, le truppe fasciste provenienti da varie zone d’Italia non avevano la forza e la preparazione necessarie a occupare militarmente tutta la capitale, e Mussolini questo lo sapeva.

Sbarramenti a Roma, sotto Porta Maggiore: le truppe dell’esercito in città avrebbero potuto respingere gli squadristi con facilità, ma non si arrivò mai a uno scontro (Wikimedia Commons)

Benito Mussolini fondò i fasci di combattimento a Milano, nel 1919. Prima dell’inizio della Prima guerra mondiale era stato iscritto al Partito socialista, ma poi venne espulso in seguito alla sua campagna per l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale, in opposizione al partito che invece sosteneva la neutralità. Dopo la fine della guerra ci fu un periodo assai turbolento dal punto di vista sociale, a causa della grave crisi economica che colpiva in maniera particolare i lavoratori nelle fabbriche e nelle campagne, ma anche i reduci di guerra. Le rivendicazioni dei lavoratori del 1919 e del 1920, promosse e sostenute anche dal Partito socialista, passarono alla storia come il “Biennio rosso”, durante il quale una rivoluzione socialista sembrava imminente, con seria preoccupazione degli industriali e del governo liberale di Giovanni Giolitti.

In questo clima di instabilità politica Mussolini assunse sempre di più posizioni nazionaliste, creandosi un seguito di ex combattenti e mutilati di guerra che avrebbero costituito buona parte dei futuri squadristi. Prima della fondazione dei fasci Mussolini era isolato politicamente, tuttavia i conflitti sociali di quel periodo gli diedero modo di posizionarsi in modo tale da attirare i consensi dei reduci insoddisfatti e allo stesso tempo degli industriali timorosi della rivoluzione socialista.

Il movimento fascista dei primi anni Venti era fortemente anticlericale, repubblicano, proponeva riforme sociali radicali: era quindi molto diverso dal regime del decennio successivo, quello che firmò i Patti Lateranensi con la Chiesa. Soprattutto, quel movimento non era, o almeno inizialmente non voleva essere, un partito. I fasci, secondo l’idea di Mussolini, dovevano essere un «anti-partito», dovevano agire contro i partiti e fuori dal sistema politico. Un tratto ulteriore che li caratterizzava, inoltre, era il culto della morte, del militarismo e della violenza (atteggiamenti e tendenze riassumibili nella definizione di “arditismo”).

Questo fascismo diventò, in sostanza, il braccio operativo della reazione di industriali e proprietari terrieri, e in generale della borghesia contraria alle rivolte operaie, agli scioperi dei braccianti agricoli e alle occupazioni nelle fabbriche. Tra il 1920 e il 1921 i militanti fascisti si organizzarono militarmente in squadre armate, violente, che portarono avanti un’offensiva «anti-proletaria». L’obiettivo delle spedizioni erano le sedi del Partito socialista e dei sindacati, le cooperative dei lavoratori, le redazioni dei giornali di sinistra (tra cui l’Avanti!), le tipografie. E in generale tutti gli oppositori politici del fascismo.

Nonostante l’uso sistematico della violenza, i fasci di combattimento non restarono ai margini del sistema politico, anzi. Alcuni esponenti si presentarono alle elezioni del 1921 candidandosi nelle liste dei Blocchi nazionali di Giolitti, e 35 di loro vennero eletti alla Camera (su 535 seggi). Nel corso del 1922 poi il movimento fascista diventò sempre più radicato e forte: da aprile a maggio gli iscritti passarono da 220mila a 322mila. Ad agosto di quell’anno gli squadristi occuparono Palazzo Marino a Milano, la città che all’epoca costituiva il cuore politico del movimento. L’amministrazione comunale socialista fu spodestata con la forza.

È in questo periodo che emerse l’idea di una marcia su Roma, per accelerare la presa del potere del movimento a livello nazionale. Ma mentre la violenza nelle città continuava, soprattutto nelle province del Centro-Nord, Mussolini iniziò a fare discorsi più moderati, per mostrarsi più istituzionale e preparare la via politica alla presa del potere, da affiancare a quella insurrezionale. Da una parte Mussolini apriva un dialogo con alcuni ex presidenti del Consiglio – Francesco Saverio Nitti, Antonio Salandra, Giolitti – per trovare un accordo su un’eventuale partecipazione dei fascisti al governo, dall’altra incitava pubblicamente i militanti a fare la rivoluzione contro lo stato liberale.

Anche il segretario dei fasci di combattimento, Michele Bianchi, aveva aperto un canale di comunicazione istituzionale a Roma: era in trattativa con il presidente del Consiglio in carica, Luigi Facta, per fargli credere che i fascisti fossero disponibili ad entrare in un nuovo governo presieduto da Facta stesso.

Come ha raccontato lo storico Emilio Gentile nel podcast 1922, la via insurrezionale e quella istituzionale non erano alternative, bensì complementari. Ammansire le istituzioni e gli esponenti del regime liberale era una condizione necessaria a far sì che la presa del potere non incontrasse ostacoli, né da parte del sistema politico né da parte della monarchia. Proprio questo tratto costituirebbe, secondo Gentile, l’originalità della marcia su Roma, che non fu solo una “marcia” quanto piuttosto un «complesso di azioni per la conquista del potere svolte in gran parte delle città del Nord e del Centro». Il riferimento è alle occupazioni in varie città di luoghi pubblici come le prefetture, gli uffici postali e le stazioni.

La marcia vera e propria, invece, alla fine fu una mobilitazione di circa 16mila uomini con scarsi armamenti, provenienti per la gran parte dalla Toscana. Erano equipaggiati male – mancavano tende e il cibo era sufficiente per appena tre giorni – e inoltre il 29 ottobre, nel luogo di concentramento principale dei combattenti a nord di Roma, cominciò a piovere. Gli squadristi furono radunati lì ad attendere, un po’ contrariati perché da giorni veniva detto loro che stavano andando incontro a un’impresa eroica, assaltare la capitale. L’assalto però non ci fu mai.

La mattina del 28 ottobre il ministero dell’Interno diffuse un telegramma in cui dava notizia che il governo presieduto da Facta aveva approvato lo stato d’assedio su tutto il territorio nazionale, per la prima volta nella storia dell’Italia unita. Nonostante questo, però, le molte prefetture d’Italia che avrebbero dovuto intervenire per fermare le occupazioni fasciste nelle città non lo fecero, giustificandosi in vari modi. E per di più, poche ore dopo, la decisione venne invertita per volere del re, che non ratificò lo stato d’assedio, anzi, ne ordinò la revoca.

Questo punto è uno dei più controversi di tutta la questione, nel senso che la storiografia non ha mai chiarito davvero il motivo della decisione di Vittorio Emanuele III. Si è ipotizzato che abbia scelto la via secondo lui più pacifica, ossia lasciar fare i fascisti; oppure che fosse a conoscenza di ampie connivenze con il fascismo all’interno dell’esercito regio, che quindi non avrebbe risposto agli ordini di andare contro gli squadristi; o ancora che sia stato convinto da ambienti massonici vicini alla monarchia. Del resto, pochi giorni prima della marcia, Mussolini si era incontrato con Raoul Palermi, capo della Gran Loggia d’Italia, per parlare proprio dell’appoggio della massoneria all’iniziativa fascista.

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Quale che fosse l’orientamento di Vittorio Emanuele III, dopo la revoca dello stato d’assedio c’era ben poco a ostacolare l’ascesa al potere di Mussolini. Il 29 ricevette ufficialmente l’incarico nonostante l’esigua rappresentanza parlamentare. Il 30 arrivò a Roma, entrando nella città insieme alle truppe squadriste e a quelle dell’esercito, che ormai non opponevano più resistenza.

Colonna fascista in marcia fuori Roma (Wikimedia Commons)

Nonostante la vittoria, gli squadristi si sentirono in qualche modo privati della loro impresa e quindi non restarono pacifici. Anche se non avevano più da combattere contro lo Stato, se la presero con le sacche di resistenza antifascista, che a Roma c’erano ed erano anche assai agguerrite, più di quelle delle altre città. In particolare gli abitanti di San Lorenzo, della via Trionfale, di Borgo Pio e della Nomentana risposero agli attacchi, cercando di respingere l’occupazione.

«L’attacco squadrista a Roma è pesantissimo» racconta Giulia Albanese nel suo libro La marcia su Roma. «Violenze nei quartieri popolari, olio di ricino agli avversari, case di deputati antifascisti distrutte, bastonature e poi incendi e distruzioni di sedi di partito, di giornali, di case del popolo. I fascisti decidono di attaccare tutti i potenziali oppositori: ma Roma è una delle poche città d’Italia dove l’opposizione antifascista non cede il campo senza combattere». Alla fine gli scontri provocarono la morte di 22 persone in pochi giorni.

Tre settimane dopo la marcia, il 16 novembre, Mussolini andò in parlamento e pronunciò il suo discorso forse più celebre, il primo da presidente del Consiglio. Disse: «Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». L’accentramento del potere nella sola figura del capo del governo fu progressivo ma costante. Nel giro di tre anni l’Italia si trasformò in una dittatura, pur mantenendo intatta l’architettura istituzionale: la costituzione non fu quasi mai modificata e la monarchia rimase in vigore durante tutto il ventennio.

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