Giorgia Meloni è “la” o “il” presidente del Consiglio?

Lei preferisce l'articolo maschile: grammaticalmente è corretto il femminile, ma nessuno può imporre a chi parla l'uno o l'altro

Comunicato della presidenza del Consiglio dei ministri pubblicato sul sito del governo italiano il 25 ottobre 2022
Comunicato della presidenza del Consiglio dei ministri pubblicato sul sito del governo italiano il 25 ottobre 2022
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Nelle prime comunicazioni ufficiali del nuovo governo Giorgia Meloni è citata come il presidente del Consiglio, e non come la presidente del Consiglio, cosa che è stata interpretata come una sua preferenza per essere definita al maschile in riferimento al suo nuovo incarico.

Non è una grossa sorpresa, sia perché Meloni usava già l’articolo maschile nel definirsi presidente del suo partito Fratelli d’Italia, sia perché questo tipo di scelta è spesso comune tra le donne di orientamento politico di destra. Era rivendicata ad esempio da Maria Elisabetta Alberti Casellati di Forza Italia, ex presidente del Senato e prima donna a ricoprire questo ruolo. E in modo ancora più evidente il maschile è notoriamente preferito dalla direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, peraltro figlia di un membro di Forza Nuova, che ha più volte detto di voler essere definita «direttore d’orchestra». Al contrario, l’ex presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini chiedeva di essere definita con l’articolo «la».

Dal punto di vista grammaticale quella di Boldrini è la preferenza corretta, per quanto per anni (e per alcuni tuttora) l’utilizzo dell’articolo femminile associato alla parola «presidente» possa essere suonato strano per la scarsità di donne presidenti di qualcosa, e in particolare di importanti organi dello stato. Per questa stranezza negli anni Ottanta ai tempi di Nilde Iotti, prima donna presidente della Camera, e anche successivamente, era consuetudine dire «il presidente».

L’agenzia di stampa AdnKronos ha chiesto un parere sulla scelta di Meloni ad alcuni linguisti. Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, ha detto che chi usa i titoli al femminile «accetta un processo storico ormai ben avviato» osservando che chi preferisce i maschili, come Meloni, Casellati e Venezi, «ha comunque diritto di farlo» per mettere in luce «il valore ideologico delle opzioni linguistiche sul genere (le proprie, ma indirettamente anche quelle avverse)». Non si tratta insomma di una semplice questione grammaticale, c’entrano anche «determinate posizioni ideologiche».

Generalmente, le donne di orientamento politico progressista e femminista danno importanza all’uso dei femminili delle professioni e degli incarichi non solo per la sua correttezza formale, ma anche per dare importanza alla rappresentanza delle donne nella società. Le donne di destra invece preferiscono tendenzialmente il conservatorismo anche nell’uso della lingua, o rivendicano il maschile per prendere le distanze dalle prese di posizione di orientamento diverso dal loro. In ambiti non politici, molte donne preferiscono definirsi «avvocato» o «architetto» e via dicendo, perché percepiscono che ai femminili sia associato ancora un tono derisorio, o perché pensano che usandoli venga ribadita una assenza di differenze tra loro e i colleghi maschi.

Marazzini ha precisato che la formula «il presidente» per parlare di una donna non è «agrammaticale o antigrammaticale», ma «semplicemente di un uso tradizionale», «ben radicato nel passato della lingua». Il presidente della Crusca ha anche detto che bisogna «abituarsi a non avere paura di queste oscillazioni linguistiche» perché «la lingua non è un mai un monolite».

Valeria Della Valle, condirettrice del Dizionario della Lingua Italiana Treccani, ha sottolineato che la «risposta linguistica» è che Meloni debba essere chiamata «la presidente», ma ha anche detto che «mai una persona che fa il mio mestiere direbbe che va imposto un uso al posto di un altro». Né l’Accademia della Crusca, né l’Istituto Treccani, e nessun ente statale italiano, possono ovviamente imporre scelte di uso della lingua, né a chi svolge incarichi pubblici, né a nessun altro parlante. «In Italia, durante il fascismo, c’è stata una politica linguistica», ha ricordato Della Valle, «ora, invece, non siamo nel fascismo: se queste persone amano essere declinate al maschile è una loro scelta personale e ideologica che non corrisponde all’uso grammaticale».

Sui giornali si è comunque molto discusso di una nota dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti della RAI, che ha contestato il fatto che le direzioni dei telegiornali «stanno chiedendo alle colleghe e ai colleghi di usare il maschile per indicare il nuovo incarico di Giorgia Meloni, perché è lei a chiederlo». Il sindacato ha ricordato che «la policy di genere aziendale, recentemente approvata dal consiglio di amministrazione della Rai indica di usare il femminile lì dove esista».

Non ha tuttavia cercato di obbligare i giornalisti della radiotelevisione pubblica a usare l’articolo femminile – cosa che del resto non ha il potere di fare – come scritto in giro: ha al contrario detto che sulla base delle regole attuali dell’azienda non si potrebbero obbligare i giornalisti a usare il maschile, osservando che sarebbero «tenuti a declinare al femminile i nomi».

Nell’ambito giornalistico la questione è un po’ diversa rispetto al contesto generale di chi parla italiano, perché come avviene per tanti altri aspetti variabili della lingua una testata potrebbe chiedere ai propri redattori e collaboratori di seguire una linea editoriale omogenea, che comprensibilmente può essere adeguata a un orientamento politico.

Su questo tema si è espresso tra gli altri il giornalista Michele Serra nella sua rubrica su Repubblica di oggi, intitolata “Per la libertà di articolo”: «Avendo scritto spesso contro le costrizioni lessicali e grammaticali “di sinistra” mi sento a buon diritto autorizzato a dire malissimo di quelle “di destra”. Ognuno chiami dunque Giorgia Meloni come considera giusto, il presidente o la presidente. Io non ho mezzo dubbio, è la presidente del Consiglio, ma mi auguro che nessuno si prenda la briga di dare direttive nel merito».

Per quanto riguarda il sostantivo e non l’articolo, «presidente» è una parola epicena, cioè ambigenere, come «cantante» e altri sostantivi derivati da participi presenti o loro versioni latine, e per questo non richiede di essere declinata in modo diverso se si parla di una donna o di un uomo. In passato si usava talvolta l’espressione «presidentessa» per indicare la moglie di un presidente, oppure per parlare con sarcasmo di una presidente, spesso denigrandola per il suo sesso. «Presidentessa» insomma non ha mai avuto un’accezione neutra come quella che si è attestata per «studentessa», un altro sostantivo derivato da un participio e forzatamente declinato al femminile: per questo oggi le presidenti che ritengono sia un bene diffondere l’uso dei femminili delle professioni prestigiose, fino ad alcuni anni fa poco usati, usano «presidente».