Il Piemonte darà 400 mila euro alle associazioni antiabortiste

Per convincere le donne a non abortire attraverso un incentivo economico e promuovere nei luoghi della salute pubblica il «valore sociale della maternità»

Manifestazione del movimento femminista Non Una di Meno a Torino, 26 settembre 2022 (Marco Alpozzi/LaPresse)
Manifestazione del movimento femminista Non Una di Meno a Torino, 26 settembre 2022 (Marco Alpozzi/LaPresse)
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La quarta commissione della regione Piemonte ha approvato una delibera presentata dall’assessore regionale alle Politiche sociali, Maurizio Marrone, di Fratelli d’Italia, per istituire il «Fondo vita nascente». La delibera è stata sostenuta anche da Lega e Forza Italia e l’approvazione in giunta, secondo quanto scrivono i giornali, è prevista in settimana.

Il fondo stanzia, per il 2022-2023, 460 mila euro di cui 400 mila serviranno per finanziare organizzazioni e associazioni che promuovono il «valore sociale della maternità» e la «tutela della vita nascente». Concretamente, prevede di finanziare progetti per dare un sostegno economico, comunque limitato, alle donne affinché non abortiscano. Secondo i movimenti femministi tuttavia questa misura non ha come reale obiettivo quello di rimuovere gli ostacoli materiali alla “maternità per scelta”, ma di ostacolare l’interruzione volontaria di gravidanza consentendo alle organizzazioni antiabortiste di entrare attivamente negli ospedali e nei consultori pubblici.

Il Piemonte è una di quelle regioni che negli ultimi anni hanno portato avanti in modo concreto il programma politico dei movimenti e dei gruppi che si oppongono ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne. Nel 2020, ad esempio, su iniziativa di un consigliere di Fratelli d’Italia e con il sostegno del presidente Alberto Cirio di Forza Italia, la regione aveva diramato una circolare che non solo metteva in discussione le nuove e più semplici modalità di accesso alla pillola abortiva RU486 nei consultori decise dal ministero della Salute (le vietava), ma finanziava e rafforzava l’ingresso delle associazioni antiabortiste negli ospedali pubblici. Prevedeva infatti l’attivazione di sportelli informativi all’interno degli ospedali da parte di «idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato» per «aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

Manifestazione del movimento femminista Non Una di Meno a Torino, 28 settembre 2022 (Marco Alpozzi/LaPresse)

La delibera citava, a titolo esemplificativo, il Movimento per la vita, cioè il primo movimento antiabortista italiano che venne fondato subito dopo l’approvazione della 194, la legge che in Italia consente l’aborto, e i Centri di aiuto alla vita (CAV) a esso collegati. Queste e altre associazioni simili hanno dunque cominciato a inserirsi al momento dei colloqui per l’interruzione volontaria di gravidanza, quelli dopo i quali è rilasciato il certificato medico per recarsi in ospedale, tentando di dissuadere le donne in procinto di abortire esercitando su di loro una pressione emotiva.

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La delibera approvata il 10 ottobre va oltre e finanzia direttamente quelle stesse associazioni la cui iscrizione negli elenchi approvati dalle aziende sanitarie locali (ASL) era stata consentita sempre su iniziativa dell’assessore Marrone nel 2021. Marrone aveva ottenuto che tra i requisiti per entrare negli elenchi delle organizzazioni e associazioni che potevano operare nei servizi di tutela materno-infantile delle ASL, tra cui i consultori, fosse prevista «la presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento».

Queste associazioni, scrive Repubblica, «dovranno intercettare le donne in difficoltà, anche in consultori e strutture sanitarie e offrire loro un aiuto economico che le convinca a rinunciare all’aborto e a portare avanti la gravidanza». Si tratta di progetti già attivi ed esistenti, come ad esempio il Progetto Gemma, cioè «un servizio per l’adozione prenatale a distanza di madri in difficoltà, tentate di non accogliere il proprio bambino». Il progetto dice che «una mamma in attesa nasconde sempre nel suo grembo una gemma (un bambino) che non andrà perduta se qualcuno fornirà l’aiuto necessario».

Questi progetti, prima finanziati principalmente con donazioni private, saranno ora finanziati con soldi pubblici.

I fondi alle donne che decideranno di non abortire serviranno loro per pagare l’affitto, le bollette o le rate del mutuo, o per pagare le spese legate alla cura del bambino entro i primi 18 mesi di vita. Non è semplice fare una stima della cifra che potrà essere destinata a ogni donna, perché dipenderà dai progetti che verranno presentati.

La delibera prevede anche che il 10 per cento dello stanziamento servirà per la pubblicizzazione del fondo stesso. In questo modo, spiega Il Manifesto, le associazioni antiabortiste potranno utilizzare il logo istituzionale della Regione per le loro campagne.

La strategia del Piemonte era stata citata come esempio durante la campagna elettorale da Giorgia Meloni. Come Meloni – che ha detto di non voler abolire né modificare la legge 194, ma di volerla applicare pienamente e di volerla rafforzare nelle parti in cui la legge parla di «tutela sociale della maternità» – l’assessore Marrone ha spiegato che «il fondo nascente darà finalmente attuazione alla parte della legge che sancisce la tutela sociale della maternità e incarica le istituzioni di rimuovere, in collaborazione con le organizzazioni di volontariato, le cause economico-sociali che possono determinare la scelta di interrompere la gravidanza».

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Quando la 194 venne approvata, nel 1978, i movimenti femministi segnalarono da subito che il testo conteneva gli strumenti che l’avrebbero svuotato, primo fra tutti quello dell’obiezione di coscienza, ma non l’unico. A più di quarant’anni dalla sua approvazione, la legge ha mostrato non solo i moltissimi problemi legati alla sua mancata applicazione e per cui l’Italia è stata più volte richiamata dalle istituzioni europee, ma anche limiti che dipendono direttamente dalla sua formulazione.

La 194 non si basa sull’affermazione positiva del diritto all’aborto, ma regolamenta i casi in cui l’aborto non è considerato un reato. Parte dunque dal presupposto che la maternità possa non essere portata avanti per un’impossibilità: per la presenza di alcune circostanze sfavorevoli che la legge stessa chiede, innanzitutto, di superare. Per questo, dice, una delle funzioni fondamentali dei consultori e delle strutture sociosanitarie è proprio quella di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza». E nel farlo «possono avvalersi (…) della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

È a causa di questa impostazione che i gruppi antiabortisti, cioè dichiaratamente contro l’aborto, si sono potuti attivare negli ospedali o nei consultori pubblici: perché la 194 lo consente e lo promuove. E il loro ingresso, proprio come sta accadendo in Piemonte, è favorito, sostenuto e finanziato.

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I movimenti femministi ritengono che l’idea di convincere le donne a non abortire attraverso un sostegno economico equivalga a mettere in vendita le scelte sui loro corpi: «Non siamo merce di scambio barattabile con cifre irrisorie e pressioni sociali nei luoghi che dovrebbero essere laici e pubblici, quali quelli della salute», ha scritto ad esempio in queste ore Federica De Martino, una delle coordinatrici della rete femminista “IVG, ho abortito e sto benissimo”. Hanno anche chiarito come il vero obiettivo delle iniziative come quella approvata ora in Piemonte non sia quello di rimuovere gli ostacoli materiali alla “maternità per scelta” ma di ostacolare l’aborto.

Manifestazione del movimento femminista Non Una di Meno a Torino contro il convegno organizzato dall’assessore di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone e da esponenti di movimenti antiabortisti nei locali dell’oratorio San Filippo Neri, 26 settembre 2022 (Marco Alpozzi/LaPresse)

La rimozione degli ostacoli alla maternità, dicono i movimenti femministi come Non Una di Meno, va semmai fatta con interventi reali e strutturali: non attraverso bonus, incentivi o iniziative di movimenti antiabortisti che intervengono nelle decisioni delle donne. Ma attraverso una riforma del lavoro che combatta il precariato, attraverso l’eliminazione delle discriminazioni sul lavoro, il sostegno all’occupazione femminile, congedi ben remunerati e paritari, attraverso il sostegno alla parità di genere non solo nel mercato del lavoro ma anche in famiglia.

I dati mostrano che il tasso di fertilità è più alto dove sono maggiori il tasso di occupazione femminile e l’uguaglianza di genere. E sostengono infine che la prevenzione delle gravidanze indesiderate si faccia principalmente con l’educazione sessuale nelle scuole, insegnamento che in Italia non è obbligatorio, o con l’accesso gratuito ai contraccettivi.

Oggi in Italia tutta la contraccezione è a pagamento, nonostante la garanzia di una contraccezione gratuita e accessibile sia prevista dalla legge fin dagli anni Settanta. Proprio il Piemonte nel 2018, durante la presidenza di centrosinistra di Sergio Chiamparino, aveva approvato un provvedimento per rendere gratuita con alcune limitazioni la contraccezione per le donne sotto i 26 anni e per le donne in difficoltà economica. Di fatto, però, quel provvedimento non è mai stato finanziato.

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