Abbiamo davvero bisogno di giornalisti in mezzo agli uragani?

I servizi al centro della tempesta sono un genere televisivo negli Stati Uniti, ma in molti ne mettono in discussione l'utilità

Il giornalista televisivo americano Jim Cantore in uno dei suoi servizi in condizioni atmosferiche estreme (Mary Schwalm/AP Images for The Weather Channel)
Il giornalista televisivo americano Jim Cantore in uno dei suoi servizi in condizioni atmosferiche estreme (Mary Schwalm/AP Images for The Weather Channel)
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La copertura mediatica dell’uragano Ian in Florida ha riproposto esempi di un genere piuttosto diffuso nelle televisioni statunitensi, quello del giornalista alle prese con la furia degli eventi atmosferici. Il racconto di uragani, tifoni e altri fenomeni meteorologici estremi ha una lunga tradizione nella tv americana e spesso fa ricorso, oltre che alle parole, al corpo del reporter, mandato in diretta sotto piogge battenti, a lottare contro raffiche di vento superiori ai 100 chilometri all’ora, esposto a possibili mareggiate.

Negli ultimi giorni uno dei video più visti sui siti di news e sui social è quello di Jim Cantore, un veterano di questo genere di reporting, alle prese con l’uragano Ian a Punta Gorda, in Florida, mercoledì, per il canale tematico The Weather Channel. Cantore fatica a restare in piedi, viene colpito da un ramo strappato a un albero dal vento e testimonia così, prima di mettersi al riparo, la pericolosità delle condizioni atmosferiche.

Servizi televisivi simili ripropongono spesso un dibattito su opportunità e pericolosità di questo genere di racconto: i critici li ritengono un’inutile spettacolarizzazione e ricerca di sensazionalismo, chi li difende sottolinea come mostrare in modo diretto e chiaro gli effetti di vento, pioggia e fenomeni simili sia il modo migliore per mettere i telespettatori al corrente dei rischi.

I servizi in diretta nei quali gli inviati parlano in piedi di fronte alla telecamera nel mezzo della notizia che si vuole raccontare sono molto comuni nel giornalismo americano e mondiale, ma la partecipazione diretta del giornalista all’evento è una peculiarità del giornalismo “meteorologico” e non ha corrispettivi in altri campi. Come fa notare il Washington Post, «i giornalisti di guerra di solito non si mettono al centro dei combattimenti, chi racconta un’azione di polizia non sta in piedi nel mezzo di una sparatoria, gli incendi vengono raccontati a debita distanza».

Il racconto degli eventi atmosferici fa eccezione, soprattutto in America e talvolta nel Regno Unito, dove però gli eventi potenzialmente catastrofici (e quindi in un certo senso spettacolari) sono minori. In Italia probabilmente per gli stessi motivi, ossia la minore frequenza di questi episodi e la loro imprevedibilità, non si è sviluppata una tradizione per questo genere di giornalismo.

Negli Stati Uniti l’iniziatore viene individuato in Dan Rather, allora giornalista per la televisione locale KHOU a Houston e in seguito, anche grazie alla fama così ottenuta, presentatore della CBS. Rather nel 1961 mise in onda le prime immagini radar di un uragano, in quel caso Carla, e ne testimoniò in diretta gli effetti. Da allora la relativa frequenza e la sempre maggiore prevedibilità degli uragani, il cui arrivo è annunciato con qualche giorno di anticipo, ha creato un vero e proprio genere.

Il 2 maggio del 1982 iniziò le trasmissioni The Weather Channel, canale tematico su tempo e clima che trasmette 24 ore su 24, a testimonianza di un interesse crescente, recepito anche dai canali all news, che hanno inserti meteorologici sempre più ricchi e frequenti anche in assenza di eventi straordinari.

Quando invece il fenomeno da raccontare è estremo tutte le reti televisive si muovono in massa. «Questo è il nostro Superbowl» disse Chad Myers in occasione dell’uragano Sandy del 2012, nel dare conto dell’impiego di 100 dipendenti, fra giornalisti e troupe, inviati nelle zone colpite.

Ma se la cronaca dell’attesa dell’arrivo del ciclone, con le necessarie precauzioni da prendere, e delle conseguenze dello stesso sono ormai un “format” non problematico, la narrazione in diretta degli eventi atmosferici crea quasi sempre polemiche. Soprattutto in tempi recenti,  la ricerca da parte delle televisioni di immagini che possano diventare virali sui social media spinge reti e singoli giornalisti a cercare racconti sempre più estremi e in prima persona.

Il racconto crea innanzitutto un paradosso, con il giornalista che spesso invita gli spettatori a non uscire di casa mentre si mette in pericolo al centro della tempesta. Le immagini possono poi passare messaggi sbagliati, perché un diverso posizionamento, anche a poche centinaia di metri di distanza, può portare a effetti molto diversi (raramente i giornalisti sono nel centro effettivo del ciclone). Altri metodi di narrazione darebbero informazioni più complete, anche da studio, mentre le telecamere fisse e i droni resistenti a venti e pioggia forniscono la stessa rappresentazione degli eventi senza mettere in pericolo giornalisti e operatori.

In molti ritengono che questo genere di giornalismo sia solo un modo per assecondare desideri voyeuristici del pubblico (paragonabili alla curiosità morbosa di osservare gli incidenti automobilistici) o per fare sfoggio di inutile coraggio e machismo da parte dei reporter.

Alcuni dei professionisti che da anni lavorano per raccontare il clima la pensano però diversamente. Mark Strassmann, un corrispondente di CBS che racconta gli uragani da quasi 30 anni, ha detto al New York Times: «La televisione è dimostrazione visiva: devi provare alla gente che quello che vedono è reale e li riguarda. E se mi vedono lì fuori sballottato di qua e di là si convinceranno che non devono fare lo stesso». Secondo molti essere al centro degli eventi è il modo più diretto e immediato per far capire l’entità dei fenomeni. In più, si sottolinea, i giornalisti non si buttano semplicemente in mezzo alla tempesta, ma si preparano: nella gran parte dei casi vengono studiati vie di fuga e luoghi protetti in cui rifugiarsi (anche Cantore nel video ne raggiunge uno nel giro di una decina di passi). Il contatto continuo con la redazione informata sui movimenti del ciclone garantisce che i rischi vengano ridotti al minimo.

A dimostrazione del generale rispetto delle condizioni di sicurezza, nonostante immagini che possono sembrare drammatiche, viene evidenziato che i casi di incidenti sono pochissimi. L’elenco dei giornalisti morti raccontando eventi atmosferici è molto limitato (a differenza di ciò che avviene in guerra). L’incidente più recente è del 2018: il giornalista televisivo Mike McCormick e il fotografo Aaron Smeltzer morirono su una strada del North Carolina. La loro auto fu colpita da un albero divelto dalla tempesta subtropicale Alberto.

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