• Moda
  • Sabato 24 settembre 2022

Alla moda interessano di nuovo gli Stati Uniti

Dopo anni in cui aveva perso rilevanza, la settimana della moda di New York ha segnalato che molti brand stanno tornando a puntare sul mercato americano

di Chiara Lanzavecchia

La modella Aeon Elliott durante uno shooting a Manhattan nel 2021 (AP Photo/Mark Lennihan)
La modella Aeon Elliott durante uno shooting a Manhattan nel 2021 (AP Photo/Mark Lennihan)
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Negli ultimi anni la settimana della moda di New York ha progressivamente perso designer e sfilate: se nel febbraio del 2019 i brand partecipanti superavano il centinaio, due anni dopo si erano ridotti a soli 39. Nei giorni scorsi a New York sono state presentate le collezioni Primavera/Estate 2023 e l’evento è tornato ad attrarre attenzioni dal pubblico internazionale, anche grazie al ritorno di aziende come Tommy Hilfiger e delle europee Fendi, Marni, Puma e COS.

Il ritrovato interesse della moda per gli Stati Uniti si deve al fatto che il dollaro è diventato più forte rispetto all’euro, alla passione per i beni di lusso da parte del pubblico americano e alla temporanea perdita di centralità della Cina, da anni uno dei mercati di riferimento dell’industria della moda.

Dopo vent’anni, a luglio del 2022 euro e dollaro sono tornati sostanzialmente alla pari: per ottenere un euro serviva un dollaro, e viceversa. L’euro, infatti, da inizio anno ha perso circa il 13 per cento del suo valore contro il dollaro, per una serie di motivi legati all’incertezza economica, alla crisi energetica e alle diverse politiche monetarie condotte in Unione Europea e negli Stati Uniti. Il dollaro, di contro, ha guadagnato specularmente il 13 per cento, dimostrando anche che l’economia americana sembra al momento più forte di quella europea.

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Un tasso di cambio più favorevole per il dollaro ha effetti positivi sulle esportazioni europee, in particolare per l’industria del lusso. Le aziende americane che producono in Europa sostengono i loro costi in termini di materiali, manovalanza, affitti e stipendi in euro, per poi rivendere negli Stati Uniti in dollari. Col risultato che i loro margini di profitto aumentano. In più anche le aziende europee traggono vantaggio dal fatto che le loro merci sono relativamente più convenienti per chi acquista in dollari: oggi un cliente negli Stati Uniti può comprare un bene di lusso del valore di 1.000 euro spendendo esattamente 1.000 dollari, mentre a inizio anno quello stesso prodotto gli sarebbe costato 1.150 dollari.

Gli Stati Uniti stanno comunque a loro volta attraversando la peggiore inflazione degli ultimi 40 anni e per le aziende rivolte a un pubblico di capacità di acquisto medio-bassa come Walmart, Gap e Target questi cambiamenti sono ragione di preoccupazione. I clienti con un patrimonio netto elevato, invece, continuano a spendere: lo riportano brand in crescita come lululemon, Nordstrom e Zegna.

Anche quando le grandi aziende multinazionali proprietarie dei più importanti brand di moda sembravano in difficoltà all’inizio del 2022, con perdite in borsa del 20% per LVMH e quasi del 30% per Richemont e Kering, le vendite negli Stati Uniti hanno sempre dato risultati positivi: per LVMH sono cresciute del 24% nell’ultimo anno, per Richemont di oltre il 10% e quelle di Kering sono quasi duplicate (rispetto al 2019) nella prima parte del 2022.

È chiaro che, nonostante tutto, i consumatori statunitensi sono molto interessati al lusso e propensi a spendere grandi cifre in questo settore. Lo hanno fatto durante l’estate quando, con il dollaro più forte, è stato più facile viaggiare verso l’Europa e continueranno a farlo (molto probabilmente sempre di più). È una previsione evidenziata dalle prossime aperture di negozi del lusso negli Stati Uniti, anche lontano dalle grandi metropoli: Kering pianifica di aprire lì più di trenta negozi nei prossimi due anni e LVMH, Chanel, Hermès e Prada hanno piani simili.

Il negozio di Prada sulla Fifth Avenue, a Manhattan, New York

Nel frattempo Richemont ha mostrato una crescita del 42% delle vendite in Europa nel trimestre aprile-giugno 2022, dovute agli acquisti dei turisti provenienti prevalentemente da Stati Uniti e Medio Oriente, mentre la Cina continua a rimanere fuori dal mercato del lusso legato al turismo: secondo Oxford Economics non tornerà alla normalità per quanto riguarda il turismo fino al 2026.

I grandi marchi del lusso stanno chiaramente puntando su territori alternativi, mentre la strategia di contenimento del Covid della Cina rimane uno dei problemi più grandi per il mercato della moda dall’inizio della pandemia. La pubblicazione Jing Daily (specializzata nell’analisi del consumo di beni di lusso in Cina) descrive una situazione cinese in cui i brand di lusso stanno rivedendo le strategie di vendita. Gli affitti si sono alzati, l’economia è incerta, la strategia “Covid zero” porta a improvvisi lockdown in tutto il paese e l’entusiasmo dei consumatori è scemato.

È una situazione decisamente diversa da quella della primavera del 2020, quando i brand avevano beneficiato delle riaperture e del ritrovato interesse per l’acquisto di capi d’abbigliamento che, durante i lockdown, le persone non avevano modo di indossare. Jing Daily sostiene che nella situazione attuale «è altamente improbabile che assisteremo ad un esodo dei brand di moda dal mercato o un precipitoso calo nell’investimento dei brand in Cina nel breve termine — semplicemente perché questo mercato rimane troppo grande e importante. Ma è ugualmente improbabile che i brand aumentino il loro investimento nel prossimo futuro, con i gruppi del lusso cauti nel diventare troppo dipendenti da questo mercato».

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Dopo anni in cui la moda aveva puntato molto sul mercato cinese, i dati diffusi da due delle multinazionali leader del settore del lusso, LVMH e Richemont, spiegano abbastanza chiaramente il cambio di rotta verso gli Stati Uniti. I report parlano di una leggera ma costante discesa nelle vendite sul mercato asiatico e di una crescita su quello americano; Richemont ha chiuso il 2021 con un +90% di vendite negli Stati Uniti rispetto al 2020 e un +35% in Asia. Guardando ai mesi più recenti, le vendite trimestrali del gruppo fino al giugno del 2022 hanno avuto una crescita del 25% negli Stati Uniti contro un calo del 15% in Asia. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, le vendite in Cina e nelle regioni amministrative speciali di Macau e Hong Kong hanno avuto un calo del 37% legato alla strategia di contenimento della pandemia.

Questi dati non significano né che la Cina abbia smesso definitivamente di essere una significativa fonte di guadagno per il lusso, né che gli Stati Uniti lo siano diventati solo adesso. È però una condizione eccezionale in cui per gruppi come LVMH il contributo dell’Asia (escluso il Giappone) al guadagno totale del gruppo è sceso di due punti al 32%, mentre gli Stati Uniti sono cresciuti di due punti al 27%. Similmente per Richemont, nel trimestre chiuso a giugno 2022, gli Stati Uniti sono stati il singolo mercato più grande, rappresentando il 22% del totale del guadagno del gruppo.

Tutto questo ha contribuito a riportare l’interesse da parte di brand del lusso, consumatori e media verso la fashion week americana. E le ragioni stanno nel valore effettivo delle sfilate e nel guadagno che ne consegue. Da anni esiste nei media e tra gli addetti ai lavori della moda un’interpretazione secondo cui la settimana della moda americana sarebbe morta. Molti hanno dato la colpa al crescente coinvolgimento dei primi blogger e influencer, o ancora al fatto che il concetto stesso di sfilata sia abbastanza lontano dalle abitudini di acquisto dei consumatori sempre più immediate e digitalizzate, soprattutto negli Stati Uniti.

Lo stilista Tommy Hilfiger durante la sfilata dell’ultima New York fashion week (AP Photo/Jason DeCrow)

Quello che è sicuro è che negli anni i nomi promettenti della moda americana, come Altuzarra, Thom Browne, Rodarte e Proenza Schouler, hanno preferito sfilare a Parigi piuttosto che a New York, così come The Row e Tommy Hilfiger. Allo stesso tempo, la richiesta frenetica di grandi collezioni ai designer ha portato — in particolare a New York — a una stanchezza creativa e una conseguente povertà di brillantezza e di qualità delle collezioni, che sono state notate dal pubblico e dai media contribuendo a far perdere rilevanza all’evento.

Per questa stagione, però, la New York Fashion Week ha ospitato di nuovo oltre 100 brand, tra cui alcuni europei che hanno scelto di dedicarsi maggiormente al pubblico americano. Fendi ha scelto New York per celebrare i 25 anni della Baguette, la borsa più popolare e rappresentativa del brand, portando sulla passerella la top model anni ’90 Linda Evangelista, che non sfilava da 15 anni, e producendo un grande movimento mediatico intorno all’evento. Il marchio milanese Marni ha scelto di avvicinarsi alla sua clientela americana sfilando a New York, così come Puma e Cos. Bottega Veneta ha collaborato con la libreria Strand di Manhattan per una borsa tote in pelle. Tommy Hilfiger è tornato negli Stati Uniti per una collezione tributo al Factory di Andy Warhol. Ma le sfilate che hanno generato onesto interesse da parte degli appassionati sono state quelle della già acclamata Maryam Nassir Zadeh, Khaite, Peter Do, Collina Strada, Eckhaus Latta e Proenza Schouler, riaccendendo anche un po’ di entusiasmo autentico per la moda americana.

 

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