La nebbia mentale dopo il coronavirus

Una volta guarite, molte persone segnalano per mesi grandi difficoltà nel concentrarsi e nello svolgere semplici compiti, senza avere accesso a terapie efficaci

(Elaborazione grafica da un'immagine di Milad Fakurian | Unsplash)
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Dopo essersi ammalate di COVID-19, molte persone segnalano di avere difficoltà a concentrarsi e a ricordare alcune cose, una condizione di “nebbia mentale” (“brain fog”, in inglese) che dura per varie settimane e nei casi più difficili per mesi o anni, senza la possibilità di ricorre a terapie particolarmente efficaci per facilitare il recupero. La nebbia mentale è un problema di salute noto, spesso sottovalutato, che esisteva ben prima della pandemia da coronavirus, ma negli ultimi due anni e mezzo ha interessato una crescente quantità di persone, spingendo gruppi di ricerca a occuparsene e ad approfondire le loro conoscenze scientifiche.

Secondo vari esperti, la nebbia mentale (o “offuscamento della coscienza”) rientra nella lunga lista dei sintomi da “long COVID”, cioè gli strascichi che la malattia da coronavirus lascia in alcune persone dopo la guarigione, anche se non erano state particolarmente male. I sintomi segnalati dai pazienti variano moltissimo e vanno da una perenne sensazione di stanchezza a ricorrenti dolori articolari, passando per disturbi del gusto e dell’olfatto, mal di testa, problemi alla vista e sensazioni di intorpidimento agli arti.

I meccanismi che portano il coronavirus a sviluppare sintomi così persistenti non sono ancora completamente chiari: le ricerche sono in corso e tra i principali sospettati c’è la forte reazione immunitaria indotta dall’infezione virale, che porta il nostro sistema immunitario a reagire più del dovuto, danneggiando il nostro organismo. La nebbia mentale deriva probabilmente dai medesimi fenomeni, almeno secondo le ricerche svolte finora.

A prescindere dalla causa, chi soffre di offuscamento di coscienza ha solitamente problemi a concentrarsi e a svolgere numerose attività, comprese quelle più banali. I pazienti faticano a trovare le parole mentre pronunciano una frase, perdono pezzi delle conversazioni, dimenticano rapidamente le richieste che hanno ricevuto, non riescono a fare attenzione a ciò che stanno facendo e talvolta hanno la sensazione di essere assenti o disorientati. Alcuni paragonano la loro condizione a quella che si ha quando si è dormito poco per molti giorni, oppure alla stanchezza dovuta al jet-lag (lungo viaggio in aereo e cambiamento di fuso orario).

Definire con precisione i confini della nebbia mentale non è semplice e anche per questo mancano definizioni mediche precise. Prima della pandemia la condizione veniva riscontrata nelle persone con gravi disturbi del sonno, malattie neurologiche o in individui reduci da periodi di forte stress lavorativo o con sbalzi ormonali. Il problema veniva inoltre segnalato da pazienti che assumevano farmaci come gli antistaminici o i chemioterapici.

Negli anni della pandemia, i casi di nebbia mentale sono aumentati sensibilmente e sono stati segnalati dal 20-30 per cento delle persone che avevano avuto il coronavirus. Molte di loro hanno segnalato di averla avuta per qualche settimana riuscendo poi a recuperare, mentre altre hanno dovuto fare i conti per mesi con i disturbi e alcune non li hanno ancora superati.

Convivere con questa condizione non è semplice: alcune persone provano a condurre ugualmente la loro vita come facevano prima della malattia, mentre altre non riescono a lavorare e notano di non riuscire a trovare la concentrazione per farlo come avveniva prima che si ammalassero. Cercano aiuto da medici e specialisti, ma non sempre sono ascoltate come vorrebbero e non ottengono benefici dalle terapie consigliate, che passano per lo più per l’assunzione di integratori e farmaci da banco.

Per i medici è del resto difficile identificare non solo le cause della nebbia mentale, ma anche i trattamenti più adatti per aiutare i loro pazienti a recuperare. I test disponibili da tempo per valutare le condizioni mentali, e che richiedono di solito la risposta a quiz e domande, non sono adatti per le diagnosi di offuscamento della coscienza.

Tra i test più utilizzati per rilevare un eventuale deterioramento cognitivo lieve c’è il Montreal Cognitive Assessment, che consiste in una serie di prove sulla concentrazione, la memoria, il linguaggio, le capacità di calcolo e di orientamento. È un test utilizzato soprattutto per aiutare i neurologi nelle diagnosi di demenza senile, dunque è poco adatto per valutare problemi cognitivi nei soggetti più giovani. Difficilmente una persona di 55 anni non passa il test, anche se ha problemi di offuscamento della coscienza, portando l’esaminatore a non rilevare qualcosa di strano.

Nella maggior parte dei casi le valutazioni vengono inoltre svolte in mancanza di un confronto con le condizioni del paziente prima della malattia, rendendo più difficile l’identificazione di eventuali mancanze cognitive sviluppate a causa del coronavirus. Si può risultare nella norma nei test, ma con punteggi magari più bassi rispetto a quelli che si sarebbero ottenuti effettuando le stesse prove in precedenza, prima di essersi ammalati di COVID-19.

Mentre i test non danno sempre risultati affidabili, gli esami diagnostici possono offrire qualche elemento in più per valutare eventuali cambiamenti nella fisiologia del cervello e del resto del sistema nervoso centrale. Un gruppo di ricerca dell’Università di Oxford (Regno Unito) ha messo a confronto le risonanze magnetiche di alcuni volontari che avevano effettuato l’esame anni prima della pandemia, e che lo avevano poi ripetuto dopo avere avuto il coronavirus. La risonanza magnetica è un esame non invasivo, che consente di vedere i tessuti all’interno del corpo, compresi quelli che costituiscono il cervello.

Dal confronto è emerso che, anche in presenza di COVID-19 con sintomi lievi, si può verificare una riduzione nello spessore dei tessuti che formano il cervello. Nei casi più gravi, il fenomeno era comparabile a quello che solitamente si verifica in un periodo di dieci anni, a causa del naturale invecchiamento dell’organismo. Le riduzioni più significative erano emerse nelle aree del cervello coinvolte nella gestione dei ricordi e di alcune funzioni esecutive. Molti dei volontari analizzati con questa condizione manifestavano problemi cognitivi riconducibili alla nebbia mentale.

Invece di dedicarsi agli effetti, altri gruppi di ricerca si sono occupati dei fenomeni che causano il problema, trovando un legame tra la violenta risposta immunitaria che il nostro organismo può attivare in presenza del coronavirus e i problemi a livello cerebrale. Uno studio in particolare, pubblicato a luglio sulla rivista scientifica Cell, ha offerto nuovi importanti elementi per provare a spiegare il fenomeno.

La ricerca era stata svolta in condizioni sperimentali tra le università di Stanford e Yale negli Stati Uniti, utilizzando un laboratorio con livello di biosicurezza 3 (BSL-3), tale da rendere sicuri i test svolti con versioni del coronavirus attive e contagiose. Il gruppo di ricerca aveva infettato alcuni topi con il coronavirus, valutando poi la diffusione delle citochine nella circolazione sanguigna e nel fluido cerebrospinale (il liquido intorno al cervello) a una settimana e poi a sette settimane dall’infezione. Le citochine – insieme alle chemochine – sono le principali responsabili dell’avvio del processo infiammatorio che porta a un aumento della temperatura corporea al di sopra della norma, sulla quale sono spesso tarati virus e batteri per proliferare. Condizionano il processo infiammatorio e se abbondano possono portarlo fuori controllo, causando danni all’organismo.

Le analisi sui topi avevano fatto rilevare alti livelli di citochine nel fluido cerebrospinale, che avevano contribuito a fare aumentare l’attività delle cellule della microglia, che hanno tra le loro funzioni quella di identificare neuroni danneggiati o agenti esterni che potrebbero danneggiare il sistema nervoso centrale. Questa iperattività indotta dall’alto stato infiammatorio comprometteva l’equilibrio del cervello (omeostasi cerebrale), rendendolo meno efficiente. Il gruppo di ricerca aveva per esempio notato una perdita delle guaine che rivestono i neuroni, essenziali per fare in modo che gli impulsi elettrici tra queste cellule non si disperdano.

Lo studio aveva riguardato i topi e non gli esseri umani, ma era stato comunque svolto creando un modello, cioè avendo cura di produrre condizioni tali da essere paragonabili a quelle del nostro organismo. Alti livelli di infiammazione sono spesso presenti nei pazienti con long COVID e meccanismi simili osservati nella sperimentazione erano stati inoltre identificati in passato in alcuni pazienti sottoposti a chemioterapia.

Il nostro cervello è ben protetto e raramente gli agenti infettivi riescono a intrufolarsi al suo interno. Questa circostanza rafforza le ipotesi su un ruolo indiretto del coronavirus nel causare problemi cerebrali, che possono poi sfociare nella nebbia mentale.

Ai fenomeni descritti dallo studio statunitense se ne aggiungono probabilmente altri legati per esempio ai danni causati dal coronavirus, sempre in maniera indiretta, alle pareti dei vasi sanguigni e che possono portare alla formazione di piccoli grumi di sangue. Questi possono intasare i vasi, riducendo l’afflusso di ossigeno ad aree del cervello, senza necessariamente causare la morte dei neuroni, ma rallentandone il funzionamento.

Queste ipotesi sono molto discusse nella comunità scientifica e le ricerche sono ancora in corso, di conseguenza potrebbero emergere nuovi elementi in contraddizione con le analisi svolte finora. Non sembrano comunque esserci molti dubbi sul fatto che la nebbia mentale sia causato da più fattori, alcuni dei quali già noti e osservati con altre malattie virali, verso le quali abbiamo però sviluppato maggiori capacità immunitarie nel corso del tempo.

Benché negli ultimi decenni ci siano stati grandi progressi in campo neurologico, il funzionamento delle cellule che costituiscono il nostro sistema nervoso e il modo in cui interagiscono e mutano nel corso del tempo ci sono ancora parzialmente ignoti. Da questo derivano le difficoltà nel dare la giusta dimensione al problema della nebbia mentale, così come a diversi altri disturbi che esistevano prima della pandemia. Non è nemmeno chiaro quanto siano reversibili i danni causati da un’infezione da coronavirus, né quanto tempo sia necessario per un eventuale recupero.

In assenza di terapie specifiche, i neurologi consigliano ai propri pazienti di provare a dormire di più, evitare stili di vita poco salutari, mangiare cibi più sani e sperimentare tecniche di rilassamento e meditazione. Alle persone che mostrano di averne poca viene prescritta l’assunzione di vitamina B, importante per i processi nervosi, o viene raccomandata l’assunzione di medicinali specifici per tenere sotto controllo le infiammazioni.

Alcuni pazienti recuperano relativamente in fretta, sentendosi via via meno affaticati e più presenti mentre fanno le cose, per altri il recupero è molto lento e nei casi più gravi la nebbia mentale persiste a più di due anni dall’episodio di COVID-19. Temendo il giudizio degli altri o per questioni lavorative, c’è chi preferisce far finta di nulla e prosegue con le normali attività, seppure facendo più fatica e stancandosi molto velocemente. In questi casi la mancanza di riposo può peggiorare la situazione, ostacolando il recupero.

Secondo alcuni gruppi di ricerca, le prove scientifiche raccolte finora sulle cause e i meccanismi che portano all’offuscamento della coscienza indicano che questa condizione potrebbe essere reversibile, anche a distanza di molto tempo dall’infezione virale. Gli studi e le sperimentazioni erano del resto in corso prima della pandemia, per esempio per utilizzare alcuni farmaci nei pazienti con disturbi cognitivi legati alle terapie con alcuni chemioterapici. Le ricerche sono però ancora in corso e gli esiti delle sperimentazioni incerti.