Ritratti senza volto

Sono quelli raccolti da Martina Bacigalupo a Gulu, nel nord dell’Uganda, dai quali mancano le fototessere di chi era in posa

Nel 2011 Martina Bacigalupo si trovava per lavoro a Gulu, nel nord dell’Uganda, quando in uno studio fotografico notò la stampa di un ritratto con un buco nel mezzo, al posto della testa. Quando incuriosita chiese informazioni, le venne spiegato che era un espediente pensato per gli abitanti della zona che non avevano soldi per comprare le quattro fototessere standard prodotte dalle fotocamere digitali: per abbassare i costi i fotografi scattavano dei ritratti a mezzo busto su pellicola da cui poi tagliavano la testa, e il resto lo buttavano via. Per oltre due anni Bacigalupo ha collezionato questi avanzi, da cui poi sono nati un libro, Gulu Real Art Studio, e diverse mostre: la più recente è visitabile fino al 2 ottobre a Cortona per il festival di fotografia Cortona On The Move.

Bacigalupo era stata in Uganda per la prima volta nel 2010, per un lavoro commissionato dalla ONG Human Rights Watch sulle donne con disabilità dopo decenni di guerra civile (il lavoro è poi diventato My name is Filda Adoch, vincitore dell’edizione del Canon Female Photojournalist Grant nel 2010). Il progetto si concentrava su una donna che Bacigalupo è tornata a fotografare in più occasioni, passando molto tempo con lei e la famiglia.

A progetto concluso Bacigalupo decise di regalare loro alcune delle immagini scattate e si fece portare a stamparle in uno studio fotografico di Gulu, dove notò sul bancone alcuni ritratti dal classico formato 10×15 con un buco in mezzo proprio dove avrebbe dovuto esserci il viso della persona fotografata. Quando chiese spiegazioni Obal Denis, un uomo che era presente, la invitò nel suo negozio, il Gulu Real Art Studio, nonché il più vecchio studio fotografico della città, e le mostrò altre immagini simili recuperate dalla spazzatura: Bacigalupo rimase colpita e gli chiese di conservarle.

Nei due anni successivi continuò a collezionarle con l’aiuto di Denis, approfondendo il progetto e iniziando ad intervistare alcune delle persone fotografate. Si rese conto di come il progetto parlasse in particolare di una fase della storia della popolazione acholi, gruppo etnico presente nel nord dell’Uganda, e di come si riprese in seguito al massacro del governo del presidente ugandese Yoweri Museveni avvenuto durante il conflitto contro l’Esercito di resistenza del Signore, durato tra metà anni Ottanta e inizio Duemila. Come ha spiegato al Post, per lei le foto parlavano di «come le persone fossero ancora lì nonostante quel gesto brutale del taglio della foto, come resistessero con nulla, con quella postura, quel vestito, la presenza del corpo. Come un rifiuto a farsi schiacciare completamente per dire “noi siamo qui”».

Le fototessere erano richieste ad esempio per aprire conti in banca, o per chiedere un rimborso al governo per le mucche che erano state rubate dai soldati durante la guerra. Ad altri ancora servivano per i documenti o l’iscrizione a scuola. Come Bacigalupo ha spiegato in un’intervista a Artribune, «alcuni camminavano per due giorni per andarsi a fare la foto e, piuttosto che pagare il servizio express che non potevano permettersi, aspettavano fuori dallo studio per un’intera giornata dormendo lì davanti». Per aprire un conto in una delle banche, la Barclays Bank, era anche richiesta una foto con una giacca blu e una cravatta che quasi nessuno aveva: nello studio di Obal Denis ce ne era a disposizione una taglia XXXL, che prestava ai clienti insieme a qualche cravatta di diversi colori da abbinare, motivo per cui la giacca blu ricorre in più foto.

Riprendendo un concetto espresso da Tina Campt nel suo libro Listening to images, di cui un capitolo è dedicato al lavoro di Bacigalupo, la fotografa descrive quella sensazione di presenza che aleggia nelle foto come «una specie di brusio costante a bassa frequenza». Secondo Bacigalupo le minoranze, a cui non viene riconosciuto uno spazio d’espressione nella società, organizzano una resistenza sottovoce: «Per poter ascoltare la loro storia dobbiamo affinare l’orecchio. I ritratti del Gulu Real Art Studio, eliminando il “suono” del viso, ci fanno sentire un’altra storia, quella di una resistenza profonda, che altrimenti avremmo mancato».

Martina Bacigalupo è nata a Genova nel 1978, ha vissuto per oltre 10 anni in Burundi dove lavorava come freelance e ora vive e lavora Parigi, dove oltre ad essere fotografa è photoeditor delle riviste 6 MOIS e XXI. Gulu Real Art Studio fa ora parte della Walther Collection, fondazione dedicata alla fotografia. Tra i suoi lavori più recenti c’è The revery project, dedicato alla rappresentazione dei migranti. Questo è il suo profilo Instagram.