Ci sono meno geni che in passato?

Quelli unanimemente considerati tali sono solitamente morti da un pezzo: qualcuno crede dipenda dai modelli di istruzione, secondo altri è solo una questione di prospettiva

genio
Una scena del film del 1984 “Amadeus”
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In una scena del film del 1979 Manhattan, diretto e interpretato da Woody Allen, il protagonista chiacchiera per strada con l’amante di un suo amico, una donna conosciuta pochi giorni prima, che continua a utilizzare la parola «genio» per descrivere le persone che frequenta. «Ma sai che conosci un sacco di geni? Frequenta qualche cretino ogni tanto, potrai imparare qualcosa», obietta lui, scherzando.

I criteri utilizzati per definire «geni» persone viventi dotate di particolare talento o ingegno, nelle conversazioni di tutti i giorni, sono spesso poco rigorosi e tendono a variare a seconda dei casi e dei contesti. C’è invece piena unanimità nell’attribuire questo sostantivo a un gruppo di individui abbastanza eccezionali nella storia delle arti e della scienza da essere ammirati e studiati per le loro scoperte, creazioni e ricerche: da Johann Sebastian Bach a Michelangelo, da Isaac Newton a William Shakespeare, da Aristotele a Louis Pasteur.

Nelle liste di geni della storia dell’umanità più condivise e meno controverse le persone ancora in vita o vissute in anni recenti sono di solito assenti. E questo sbilanciamento è spesso un argomento di discussione. C’è chi sostiene che sia il risultato ovvio del fatto che occorra tempo, prima che una persona possa unanimemente e a posteriori essere riconosciuta come un genio. E c’è chi invece lo considera una conferma all’ipotesi che non ci siano più tanti geni in circolazione, nonostante un accesso alle conoscenze più esteso e libero oggi che in passato.

È un dibattito ricorrente in molti ambiti, dalla musica alla scienza alla filosofia, e spesso declinato negli stessi termini. E diverse riflessioni presentano la carenza di geni come un dato ancora più sorprendente se si considerano l’aumento della popolazione mondiale istruita e lo sviluppo di tecnologie e strumenti disponibili per un numero sempre più ampio di persone. Secondo altri punti di vista, proprio queste condizioni – l’aumento delle persone impegnate nella ricerca e, in sostanza, una distribuzione delle conoscenze diversa da quella del passato – sarebbero invece una ragione della difficoltà a individuare singoli geni nei diversi ambiti del sapere.

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In un post pubblicato a marzo scorso tramite la piattaforma per newsletter Substack, lo scrittore e neuroscienziato statunitense Erik Hoel ha definito la mancanza di geni un tratto reale e «deprimente» dei nostri tempi. E ha sostenuto che la principale ragione sia il progressivo venir meno di un modello aristocratico di formazione e istruzione individuale molto diffuso tra le persone del passato che oggi definiamo geni. Nella discussione è poi intervenuto anche lo scienziato e blogger statunitense Scott Alexander, contestando l’ipotesi di Hoel sull’insegnamento aristocratico e, in parte, l’idea stessa che ci siano oggi meno geni che in passato.

Hoel ha prima di tutto ripreso una riflessione posta dal saggista e giornalista americano Tanner Greer, per fugare il dubbio che l’apparente mancanza di geni della nostra epoca sia soltanto una questione di prospettive temporali che ci impediscono di riconoscere geni tra le persone a noi contemporanee.

Citando Il tramonto dell’Occidente, la più importante opera del filosofo tedesco Oswald Spengler, pubblicata in due volumi tra il 1918 e il 1922, Greer fa notare che Spengler descriveva come figure di importanza storica per l’umanità – geni, insomma – scrittori e filosofi morti da pochi anni. «C’è qualcuno morto nell’ultimo decennio per il quale potresti fare questo tipo di affermazione?», si chiede retoricamente Greer. Autori come Lev Tolstoj, Henrik Ibsen, Friedrich Nietzsche, Fëdor Dostoevskij e Karl Marx, tutti citati da Spengler, erano morti da trent’anni o meno – Tolstoj da appena quattro anni – quando nel 1914 Spengler aveva cominciato a scrivere il libro. E tutti avevano già all’epoca, a giudicare da come Spengler e altri autori ne scrivevano, la reputazione per cui sono noti ancora oggi.

Se si considerasse la genialità una questione di genetica, ha scritto Hoel, il fatto che non ci siano più geni nonostante la crescita della popolazione mondiale sarebbe un fenomeno piuttosto anomalo e improbabile. Secondo lui potrebbe più probabilmente essere una questione di istruzione. Ma il dibattito su quali siano le scuole e le università migliori – quelle con più probabilità di diplomare e laureare dei geni, in questo discorso – è generalmente molto controverso, viziato da pregiudizi e privo di risposte esatte.

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Secondo Hoel il singolo fattore più importante per fare di una persona un genio riguarda sì l’istruzione, ma un metodo particolare e ben noto nella storia dell’educazione aristocratica: l’insegnamento personalizzato e individuale da parte di un precettore. Sebbene ritenuta da molti profondamente ingiusta perché associata alle persone con posizioni sociali e tenori di vita più elevati, questa metodologia didattica fu studiata e descritta come più efficace rispetto ai metodi convenzionali anche in diverse ricerche degli anni Settanta e Ottanta condotte dallo psicologo e pedagogista statunitense Benjamin Bloom.

L’educazione aristocratica ricevuta da molti geni del passato e a cui fa riferimento Hoel era peraltro molto più estesa e profonda di quanto lo fossero le forme di insegnamento individuale più recenti studiate da Bloom. I compiti del precettore nelle famiglie aristocratiche non si limitavano all’insegnamento delle materie di studio ma presupponevano una relazione continua tra il maestro e l’allievo, anche durante le ore di svago e anche durante i viaggi di formazione.

I precettori erano, in moltissimi casi, adulti che vivevano di quel lavoro ed erano esperti nel farlo. E anche quando non si occupavano direttamente dell’istruzione del bambino o dell’adolescente che era stato loro affidato cercavano di impegnarlo in conversazioni formative e stimolarlo alla ricerca di risposte alle proprie domande. «Appena cominci a cercare geni nella storia, i precettori spuntano come funghi», ha scritto Hoel, citando numerosi esempi di geni che ricevettero una formazione aristocratica di questo tipo.

Tra i suoi esempi c’è l’imperatore romano Marco Aurelio, che ebbe 17 precettori: un giurista, 8 filosofi, 4 grammatici e 4 oratori, tra i quali Marco Cornelio Frontone, la persona a cui Marco Aurelio si legò di più negli anni della formazione. C’è anche uno dei casi più citati in assoluto di formazione aristocratica, quella del filosofo e logico inglese Bertrand Russell, che fino ai 16 anni non frequentò alcuna scuola e la cui formazione fu interamente affidata dai suoi nonni a un gruppo di insegnanti privati, come peraltro raccontato nell’apprezzato graphic novel Logicomix.

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Anche nei casi in cui l’istruzione dei futuri geni non era interamente affidata a insegnanti privati a casa, fino alla seconda metà del XX secolo i precettori sono stati a lungo un’integrazione costante nei tradizionali percorsi di studi, prosegue Hoel. E fa l’esempio di Charles Darwin, il naturalista inglese che elaborò e definì la teoria dell’evoluzione, che frequentò la scuola di medicina all’Università di Edimburgo e intanto imparò privatamente e a pagamento la tassidermia da John Edmonstone, un ex schiavo nero che aveva accompagnato il naturalista britannico Charles Waterton nella foresta amazzonica.

La parte fondamentale di questo modello di formazione, sottolinea Hoel, era la personalizzazione: il fatto che un singolo maestro, al di là delle proprie capacità e competenze, si dedicasse e adattasse i propri metodi a una sola persona. E fu questo, secondo lui, un aspetto che permise a questo modello di risultare efficace anche in contesti non aristocratici, come nel caso del filosofo Karl Marx, che fu istruito da suo padre fino all’età di 12 anni prima di cominciare a frequentare le scuole. O come nel caso della filosofa Hannah Arendt, cresciuta in una famiglia ebrea della classe medio-alta, non aristocratica, e che fu istruita da diversi rabbini e insegnanti, oltre che da sua madre.

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L’ipotesi formulata da Hoel è stata successivamente ripresa e contestata da Scott Alexander, che la ritiene un argomento molto debole per spiegare l’attuale assenza di geni (ammesso che sia effettivamente così, e i criteri per stabilirlo sono proprio un pezzo della questione). Se ammettiamo che almeno una metà dei geni del passato abbia ricevuto un’istruzione aristocratica, ipotizza Alexander, con il venir meno di questo tipo di formazione aristocratica dovremmo aspettarci una cospicua riduzione dei geni in circolazione ma non una completa assenza, che è il punto di vista di Hoel e di molti altri.

I conti tornerebbero soltanto ammettendo che i geni del passato abbiano ricevuto tutti una formazione aristocratica, ma questo sarebbe falso, osserva Alexander facendo alcuni esempi. Isaac Newton non frequentò le scuole prima dei 12 anni, e non risulta che in precedenza abbia ricevuto gli insegnamenti di un precettore, anche perché la sua famiglia non era abbastanza facoltosa da poterselo permettere, pur essendo il padre adottivo di Newton un chierico benestante.

Louis Pasteur, considerato il fondatore della moderna microbiologia, era figlio di un conciatore e crebbe in una famiglia cattolica senza ricevere alcun insegnamento particolare prima di cominciare a frequentare la scuola elementare, a otto anni. E Wolfgang Amadeus Mozart fu istruito principalmente da suo padre, un ottimo violinista, e già a sei anni era considerato un bambino prodigio. Questo tipo di formazione musicale da parte di un genitore o un altro familiare, fa notare Alexander, è peraltro molto diffusa ancora oggi.

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Come osservato da Alexander in successive conversazioni con Hoel, estendere la tipicità della formazione aristocratica a qualsiasi caso di figli istruiti in casa dai propri genitori – come Charles Dickens o Thomas Edison, per esempio – renderebbe la teoria di Hoel molto più debole perché a quel punto dovrebbe includere milioni di persone. E rischierebbe peraltro di sottintendere che istruire i propri figli in casa sia meglio che mandarli a scuola.

La questione dell’apparente mancanza di geni riguarda evidentemente molti altri aspetti, più importanti rispetto al singolo fattore individuato da Hoel nella fine dell’istruzione aristocratica o, in generale, di quella individuale. È una questione resa ulteriormente scivolosa dalla mancanza di strumenti che permettano di misurare questo fenomeno con precisione e dal fatto che le qualità attribuite al genio e il modo stesso in cui utilizziamo questa categoria sembrano cambiare nel tempo.

L’autore della newsletter Strange Loop Canon, l’investitore e blogger Rohit Krishna, ha condotto un’analisi su una lista di 500 geni di tutti i tempi scoprendo che in ogni epoca un certo tipo di genio tende a prevalere sugli altri tipi. In epoca premoderna prevalgono perlopiù filosofi e condottieri militari, mentre nel Medioevo comincia a crescere la concentrazione di scienziati.

Durante l’Illuminismo e in epoca moderna cominciano a emergere geni in ogni ambito, e dal XIX secolo in poi diventa sempre più frequente associare la parola «genio» anche a inventori e imprenditori, da Thomas Edison a Henry Ford. I geni imprenditori sono oggi più numerosi che in quasi tutte le epoche precedenti, secondo l’analisi di Krishna: da Steve Jobs a Elon Musk a Bill Gates. La nostra idea di cosa sia il genio sembra in generale condizionata da fenomeni culturali e sociali più ampi e complessi, che di volta in volta ridefiniscono il significato di questa parola e modificano le sensibilità delle persone rispetto alla genialità.

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Esiste inoltre una questione di stadi del progresso scientifico e di distribuzione delle conoscenze, secondo Alexander. Le buone idee, quelle per cui una persona potrebbe oggi sperare di finire in una lista di geni, sono in generale molto più difficili da trovare che in passato. Se nel 300 a.C. «potevi uscire per strada e gridare “eureka!” e dichiararti un genio» dopo esserti accorto che il livello dell’acqua nella tua vasca aumentava se ti immergevi nella vasca, oggi «avresti bisogno di una dimostrazione matematica di 400 pagine sulla varietà topologica 8-dimensionale per ottenere quel tipo di credito», scrive Alexander.

In un contesto scientifico e culturale come quello attuale, in cui la crescita del numero di ricercatori e ricercatrici ha portato inevitabilmente a progressi più distribuiti, è poi «improbabile che una persona si imbatta in una teoria geniale e bell’e fatta prima che altre persone abbiano sbocconcellato frammenti di quella stessa idea». E la diversa distribuzione attuale del progresso scientifico finisce per riflettersi anche nel modo in cui tendiamo a celebrare le scoperte, facendo più attenzione all’impegno collettivo a monte che non allo sforzo individuale di un singolo genio.

Secondo Alexander, questa tendenza rientra in parte in un fenomeno più ampio da lui definito «sindrome del papavero alto», un’espressione tratta a sua volta dalla locuzione «alti papaveri», utilizzata per indicare le persone che occupano posizioni di potere e su cui si concentrano le attenzioni e spesso le critiche degli altri. Se celebrare i geni e i loro successi era una volta considerato la norma, oggi è più comune che in passato l’attitudine a insistere su quanto quei successi dipendano da altre persone (collaboratori, assistenti di laboratorio, personale di supporto) e sminuire in una certa misura la portata dei risultati individuali.

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E c’è infine una questione di prospettive temporali e di proporzione tra geni e non geni in specifici ambiti emergenti del sapere. Per esempio, molte persone considerano l’informatico canadese di origini britanniche Geoffrey Hinton un genio nel campo della ricerca sull’intelligenza artificiale, un argomento su cui Alexander si dichiara ferrato e che a suo dire «è assolutamente pieno di geni». Oltre a Hinton, del quale secondo Alexander gli informatici potrebbero parlare in futuro come i biologi parlano oggi di Darwin, ci sono altri «geni» come il filosofo svedese Nick Bostrom e altre persone considerate dagli esperti in materia nettamente superiori agli altri in termini di genialità.

Una delle ragioni dell’apparente abbondanza di geni nel campo dell’intelligenza artificiale, conclude Alexander, è il fatto che sia un ambito relativamente nuovo e piccolo, in cui «le buone idee non sono difficili da trovare». O meglio: lo sono per una grandissima parte della popolazione, ma non lo sono abbastanza da impedire alle «persone più intelligenti del mondo» di sviluppare paradigmi e aprire prospettive completamente nuove. Ed è invece molto difficile che qualcosa di simile possa avvenire, per esempio, nel campo della fisica, «che è così piena delle persone più intelligenti del mondo che nessuna si accorge dell’altra».