La fine delle “challenge” sui social

La spensieratezza con cui persone diversissime tra loro si riunivano per girare video virali, vista oggi, sembra di un altro pianeta

Daniel Ricciardo Ice Bucket Challenge
Il pilota australiano di Formula 1 Daniel Ricciardo mentre partecipa alla Ice Bucket Challenge a Spa-Francorchamps, in Belgio, il 21 agosto 2014 (Clive Mason/Getty Images)
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Le riflessioni sull’evoluzione dei social media nell’ultimo decennio si concentrano sulle trasformazioni relative sia agli aspetti più tecnici e strutturali delle piattaforme, cioè al modo in cui funzionano, sia alla composizione demografica dell’utenza. Sono in genere trasformazioni progressive o comunque i cui effetti non si manifestano immediatamente: è insomma molto difficile notare, prima che sia passato un certo lasso di tempo, cosa e quanto sia cambiato in ambienti virtuali frequentati ogni giorno da milioni di persone.

Uno degli aspetti che rendono oggi i social media molto diversi da ciò che erano negli anni passati, uno tra i tanti, è la progressiva scomparsa delle cosiddette “challenge”: azioni di gruppo o anche individuali oggetto di video che diventavano in breve tempo virali e finivano per essere replicate migliaia di volte coinvolgendo un numero elevatissimo di persone diverse tra loro, anche per stratificazione sociale e per provenienza.

A rivederli oggi, quei video non sono soltanto imbarazzanti per molti dei soggetti filmati. È che proprio «vengono da un altro mondo», ha sintetizzato l’Atlantic in un recente articolo in cui ha descritto la capacità di quelle iniziative di «unire Internet» e coinvolgere senza distinzioni persone giovani e sconosciute come anche persone dello sport, dello spettacolo e della politica. L’Atlantic collega la scomparsa delle challenge al venir meno di una certa predisposizione d’animo e spensieratezza sui social media, e al prevalere di sentimenti divisivi e atteggiamenti di ostilità e di isolamento.

Nell’estate del 2012, la canzone della cantautrice canadese Carly Rae Jepsen Call Me Maybe fu uno dei primi e più popolari casi di challenge che portò in pochi mesi milioni di persone a eseguire parodie, remix e cover varie di quella canzone e a condividerle sui social media. Dalla squadra di baseball di Harvard al popolare conduttore televisivo Jimmy Fallon, da una sconosciuta organizzazione di giovani Repubblicani di Chicago ai militari americani in servizio in Afghanistan.

Chiunque poteva cimentarsi nella “prova” oggetto delle challenge, e non c’era sostanzialmente modo di renderle qualcosa di meno divertente. Fu apprezzata persino quella di Donald Trump, in un video insieme a diverse concorrenti del concorso di bellezza Miss USA. L’idea dei social come un posto in cui prevalgono la polarizzazione e gli scontri tra gruppi di persone contrapposti, ricorda l’Atlantic, non era ancora diffusa o non lo era così largamente quanto lo è oggi. E le challenge erano una buona sintesi di tutto ciò che i social erano: un posto in cui incontrarsi, anziché scontrarsi, e in cui condividere momenti di spensieratezza con altre persone.

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Intese in questo senso, scrive l’Atlantic, è difficile immaginare che le challenge possano tornare a essere un fenomeno culturale. E non è detto che le ragioni siano soltanto riconducibili all’accresciuto livello di scontro politico. La scomparsa delle challenge potrebbe anche essere legata a una nuova, diversa autocoscienza della propria presenza online da parte delle persone, e dalla loro paura di apparire ingenue o cringe, espressione che negli anni Dieci del Duemila non era ancora diffusa nel senso prevalente che ha oggi.

Soltanto una circostanza eccezionale recente, la pandemia, riuscì in una fase iniziale a riunire moltissime persone online – persone comuni come anche cantanti e celebrità – e le portò a superare eventuali sensazioni di imbarazzo e disagio condividendo video di momenti trascorsi in casa. Peraltro tutti abbastanza simili e, il più delle volte, molto noiosi.

È vero, scrive l’Atlantic, che la challenge intesa come video di persone che filmano sé stesse mentre eseguono determinate azioni o cantano muovendo le labbra a tempo non è un formato scomparso da Internet e dai social, anzi. Ogni giorno migliaia di challenge di questo tipo emergono su piattaforme come TikTok e diventano “di tendenza”. Ma sono un’altra cosa: una forma di intrattenimento in cui le “performance” che finiscono nei video sono in genere più impegnative e sembrano frutto di una predisposizione meno scanzonata e più attenta al risultato finale e alla ricerca di popolarità. Non un vero fenomeno di massa.

Più spesso, su TikTok diventano virali singole gag o battute da rifare con interpretazioni personali, oppure audio presi da film o programmi o sintetizzatori vocali su cui filmare scene divertenti. Succede meno che vengano replicate vere e proprie “sfide”, e quando succede – una recente per esempio consiste nel riempire fino all’orlo d’acqua un bicchiere a turno, aspettando che qualcuno lo faccia straripare – il risultato è meno improvvisato e amatoriale di quelle in voga anni fa su Facebook, anche per le avanzate funzionalità per montare e arricchire i video offerte da TikTok.

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«Non è una vera challenge finché non la provano anche i tuoi zii, la conoscono anche i bambini e non è ridicolo proporla ai colleghi di lavoro», osserva l’Atlantic. Una challenge «deve essere divertente, deve essere facile e deve diventare una cosa inevitabile», e alla fine «le persone devono esserne stufe, perché è così che va il mondo». Su TikTok, per come funziona l’algoritmo, nella maggior parte dei casi i contenuti che diventano virali e poi replicati sono più che altro quelli scelti dai cosiddetti “creator”, cioè chi realizza con costanza video e ha un pubblico considerevole. È venuto meno insomma quel meccanismo per cui le “challenge” venivano eseguite da presidenti con milioni di follower e da perfetti sconosciuti seguiti solo da parenti e amici, negli stessi giorni e per periodi di tempo molto circoscritti.

Sarebbe stato praticamente impossibile, per esempio, accedere a Facebook nel 2014 senza imbattersi in video di gente che si tirava addosso secchiate di acqua ghiacciata: la “Ice Bucket Challenge”. In quel caso, la challenge aveva peraltro un’ulteriore motivazione di beneficenza: raccogliere fondi per la ALS Association, un’organizzazione statunitense non profit impegnata nella ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica.

I video erano in larghissima parte condivisi su Facebook, all’epoca considerata dalla maggior parte delle persone la piattaforma ideale per i contenuti virali. E c’era un motivo, ricorda l’Atlantic: Facebook era all’epoca una «piattaforma intergenerazionale», frequentata da persone giovani ma anche dai loro genitori e nonni. Come dimostrò, un paio di anni dopo, anche la straordinaria popolarità della “mannequin challenge”, video buffi di persone riprese mentre rimanevano completamente immobili. Ossia una challenge che non richiedeva strumenti né abilità particolari, e a cui avrebbero facilmente potuto partecipare anche i parenti più anziani rendendo tutto ancora più divertente.

Una scuola in Canada coinvolse complessivamente circa 1.500 persone, riprese in un lungo piano sequenza attraverso i corridoi e le varie aule e strutture della scuola. Parteciparono alla mannequin challenge anche operai in azienda e personale dipendente e frequentatori della New York Public Library, gente in aereo e astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale. E infine, con scarsa fortuna, anche lo staff della candidata democratica alle elezioni presidenziali del 2016 Hillary Clinton.

Quello fu, secondo l’Atlantic, l’ultimo grande fenomeno di Internet legato alla «cultura delle challenge». Da quel momento in poi, coinciso con l’elezione di Donald Trump, da un luogo di incontro per persone che si conoscevano nella vita reale i social media diventarono un luogo in cui le persone si allontanavano le une dalle altre. Un posto in cui «essere seri anche quando si scherza», in cui «tutto è diventato noioso».

Non che non ci fossero negli anni delle challenge già diverse preoccupazioni riguardo alle minacce, agli insulti e alle discriminazioni diffuse su Internet, in un dibattito sull’hate speech presente già allora. Ma questo non impediva alle persone di utilizzare ancora i social come una sorta di piazza o di luogo di ritrovo con amici e parenti, scrive l’Atlantic, che attribuisce l’inversione di questa tendenza anche alla diminuzione delle iscrizioni su Facebook e alla concorrenza di piattaforme più popolari tra i giovani, come TikTok. Piattaforme in cui le “challenge” sono diventate qualcosa di «troppo riservato e confuso per diffondersi in modo più ampio», e in cui i contenuti che arrivano a essere virali sono piuttosto quelli che generano più panico del necessario sui giornali e tra i genitori.