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  • Sabato 23 aprile 2022

I talk show italiani fanno informazione?

È una questione che pongono diverse persone che ne criticano le scelte e rifiutano di parteciparvi come ospiti

(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
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Nelle ultime settimane i talk show italiani sono stati molto criticati per il modo in cui hanno seguito le vicende della guerra in Ucraina, ospitando in molti casi posizioni e versioni dei fatti controverse, quando non del tutto screditate e dimostrate come false.

Le risposte più frequenti a queste critiche da parte di chi progetta e conduce i talk show alludono generalmente alla necessità di garantire una pluralità di opinioni nel dibattito, e di “dare l’opportunità di esprimerle ed eventualmente confutarle”: secondo molti però in questo atteggiamento ci sarebbe il tentativo di costruire appositamente uno sterile contraddittorio teatrale utile alla polemica e all’audience, ma a costo di dare spazio a falsità su argomenti per i quali la verità è già stata ampiamente accertata.

«Il dibattito è normale, è normale non essere d’accordo. Il problema è quando il livello di conoscenza dell’argomento da parte di alcuni ospiti non è sufficiente a instaurarne uno», dice Olga Tokariuk, giornalista ucraina che ha collaborato a lungo con i media italiani e che ultimamente ha rifiutato molti inviti nelle trasmissioni televisive. Secondo Tokariuk, nei dibattiti televisivi italiani spesso «i fatti e le bugie sono sullo stesso piano» e i conduttori «non dovrebbero dare il microfono a tutti, ma moderare e distinguere».

La direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di Roma Nathalie Tocci, che invece in questo periodo sta partecipando a diverse trasmissioni, ha scritto sulla Stampa che il dibattito pubblico italiano sulla guerra «tiene certamente alto il nome della diversità di opinione, ma non di una diversità che emana da competenze diverse tutte attinenti al tema in discussione». L’impressione di Tocci è che si cerchino «opinioni divergenti e basta».

Esperti ed esperte come Tokariuk e Tocci, che nell’ultimo periodo si sono trovati a decidere se partecipare o meno a un talk show, hanno dovuto di volta in volta fare i conti con un dilemma che esiste da tempo, e che la guerra ha messo in risalto: la loro presenza è utile a smentire le eventuali falsificazioni di altri ospiti, o piuttosto le legittima e contribuisce solo all’effetto circense ricercato dagli autori dei programmi?

Queste discussioni si inseriscono in un più ampio dibattito su come debbano essere considerati i contenuti dei talk show: se la loro priorità sia quella dell’informazione e di un servizio pubblico o se siano piuttosto da considerarsi come spettacolo e intrattenimento al pari di altri programmi fatti di contenuti artificiosi. È una questione rilevante, perché la televisione è vista ogni giorno da milioni di persone, e il modo in cui queste ne percepiscono i contenuti influenza le loro opinioni e la loro conoscenza dell’attualità.

In una recente intervista a Fanpage Corrado Formigli, conduttore su La7 del programma Piazzapulita, ha risposto a una domanda sulla necessità di avere come ospite un opinionista che negli ultimi tempi ha fornito ricostruzioni distorte e problematiche sulla guerra in Ucraina: «I critici facciano pace con questa cosa, i talk show devono garantire una pluralità e farlo in modo vivace. Il genere, fino a prova contraria, si compone di due parole: talk e show».

“Talk show” è un modo un po’ generico con cui si definiscono i programmi televisivi che si basano su interviste fatte da un conduttore a uno o più ospiti, o su conversazioni tra gli stessi ospiti moderate da un conduttore. Di solito si parla di temi di interesse e attualità. È un tipo di programma che esiste un po’ in tutto il mondo, ma realizzato in modi spesso differenti: in Italia si è imposto un formato che nella maggior parte dei casi prevede un confronto tra ospiti con posizioni politiche o ideologiche anche molto diverse, e che a volte porta a sovrapposizioni caotiche di voci e a liti più o meno accese.

Queste trasmissioni vengono spesso comprese nel genere radio-televisivo chiamato infotainment, che nacque più o meno negli anni Ottanta dalla convinzione che fosse necessario inserire i contenuti informativi in un contesto di intrattenimento, per venire incontro alla limitata attenzione di una parte del pubblico. I risultati di questa operazione sono molto variabili e possono porre problemi etici sul lavoro giornalistico, quando c’è un eccessivo sbilanciamento sul lato dell’intrattenimento.

Oprah Winfrey e David Letterman, conduttori di due dei più noti talk show statunitensi di sempre. Entrambi non vanno più in onda da alcuni anni (AP Photo/Michael Conroy)

Secondo diversi autori di talk show italiani sentiti dal Post, non c’è una correlazione diretta tra la spettacolarizzazione dei contenuti (scontri tra gli ospiti, prese di posizione impopolari, eccetera) e un aumento degli ascolti del programma: sul lungo periodo non sarebbe una strategia vincente a mantenere il pubblico fedele, anche se alcune singole puntate potrebbero beneficiarne in termini di ascolti. Ci sono però ospiti capaci più di altri di attirare l’audience – il seguito dei telespettatori – e per questo molto contesi.

Un autore di un importante talk show italiano, che ha lavorato a lungo in diversi altri talk show, ha detto al Post che nella costruzione dei programmi si pensa spesso «all’ospite prestigioso», ma non è facile convincerlo a partecipare, visto che in una qualsiasi giornata ci sono sempre «altri tre o quattro programmi concorrenti che fanno il tuo stesso lavoro». Da qui nasce la necessità di pagare alcuni ospiti ricorrenti, in modo da assicurarsi la loro presenza: quando si rivelano questi meccanismi generalmente si creano sempre grandi polemiche, ma non tutti i talk show lo fanno e non tutti gli ospiti accettano o chiedono compensi. Da una parte quello degli ospiti televisivi è una forma di lavoro che discende dalle loro capacità e competenze, e che genera profitti per le reti televisive, e quindi è meritevole di essere retribuito; dall’altra la credibilità delle tesi espresse viene messa in dubbio, se si considera che l’ospite è pagato da un programma per dire cose che concorrano ai suoi obiettivi di audience.

Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, gli ascolti dei talk show italiani sono molto aumentati, ma anche quelli di telegiornali e programmi di informazione in generale, che sono assai meno legati agli ospiti e all’intrattenimento. Secondo un’indagine condotta per Tv Sorrisi e canzoni dallo Studio Frasi (che si occupa di analisi sui contenuti e sul pubblico dei media), nei primi 15 giorni di guerra gli ascolti dei programmi di informazione e dei talk show sono aumentati del 7,8 per cento. Alcune reti hanno modificato il proprio palinsesto per occuparsi maggiormente di quello che sta succedendo in Ucraina.

In Italia i programmi che si possono comprendere nella generica categoria dei talk show sono molti. Considerando solo la fascia serale e preserale (dalle 20 in poi, più o meno), nei primi sette canali della tv generalista – i tre della RAI, i tre di Mediaset e La7 – si alternano una ventina di talk show diversi in una settimana, alcuni dei quali vanno in onda quasi ogni giorno. Ce ne sono poi molti altri che vengono trasmessi alla mattina o al pomeriggio, e altri ancora su canali che raggiungono un pubblico minore. La prima conseguenza evidente è che servono ogni giorno moltissimi ospiti.

In un contesto che richiede la maggior chiarezza e serietà possibile come quello della guerra in Ucraina, il formato dei talk show italiani nell’ultimo periodo ha portato più persone del solito a declinare inviti a parteciparvi, e sono ormai diversi i nomi che quando emergono nelle riunioni degli autori televisivi vengono accolti con un “non va in tv”. Tokariuk sta svolgendo dall’Ucraina un lavoro prezioso nella diffusione di notizie verificate sulla guerra, anche nei dibattiti televisivi di molte tv internazionali. In Italia però preferisce non partecipare, perché «i dibattiti sono molto emotivi, si dà priorità allo scandalo, e lo scambio non è basato sui fatti ma sulle opinioni». Qualche settimana fa un’altra giornalista ucraina, Iryna Matviyishyn, si è detta stupita di essere dovuta intervenire in una trasmissione italiana per chiarire che le argomentazioni di un’altra ospite fossero una «reiterazione della propaganda di Putin» e che non avessero alcun fondamento.

Alcuni giorni fa Vittorio Emanuele Parsi, professore di relazioni internazionali all’università Cattolica di Milano, ha interrotto il collegamento con un programma televisivo a cui stava partecipando, dopo che gli era stato chiesto di commentare le opinioni di altri ospiti. «Volevo evitare di fare da cassa di risonanza per tesi strampalate», dice. «Il problema principale di alcuni talk show, anche se non tutti – continua Parsi –, è che l’oggetto della discussione diventano le tesi delle persone che sono lì a discutere», mentre si perde di vista quello che sta succedendo realmente.

Sul tema della predominanza delle opinioni sui fatti nei media italiani è intervenuto criticamente qualche giorno fa il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, sul Corriere della Sera: «Non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: tu la pensi così, ma io la penso al contrario e pari siamo. Non ci sono santi, dogmi, decreti, ricerche di laboratorio, tabelle statistiche; vale e resta dominante il primato dell’opinione personale».

L’affollamento di opinioni di cui parla De Rita, che non riguarda solo la televisione e i talk show ma i media in generale, si è mostrato più chiaramente come un problema con la pandemia, quando il contesto medico-scientifico ha reso evidente che le posizioni di un esperto e quelle di un qualunque altro opinionista non hanno la stessa autorevolezza.

Chi lavora nei talk show racconta di aver avuto un periodo iniziale di spaesamento, nell’individuare ospiti utili a parlare di quello che stava succedendo: nelle redazioni erano noti i nomi di pochissimi esperti di virologia, e comunque non era chiaro se fossero disponibili a parlare in televisione. Dopo un certo lavoro di ricerca e convincimento, e dopo le prime comparse nelle trasmissioni, in breve tempo si è affermato un gruppo di virologi assidui dei talk show, ognuno dei quali si è poi legato più specificamente ad alcune trasmissioni.

Molte persone si sono lamentate dell’eccessiva esposizione mediatica dei virologi, accusati in alcuni casi di essersi fatti trascinare in tempi e modi televisivi che alla lunga hanno danneggiato la loro credibilità professionale. Tra chi ha deciso di rifiutare sistematicamente partecipazioni nei talk show c’è Andrea Gori, direttore del reparto Malattie infettive al Policlinico di Milano. Ancora oggi gli capita di declinare molti inviti e di essere occasionalmente accusato di venire meno a un suo dovere divulgativo. «Io al massimo ho il dovere di informare, di dare dati e informazioni precise», dice Gori. «Lì si danno opinioni, io non sono uno showman: i medici devono essere molto ligi al dato scientifico, che non è un’opinione».

Secondo Gori c’è un equivoco nel considerare i talk show come luoghi in cui si fa informazione, e questo causerebbe una serie di problemi nel modo in cui il pubblico percepisce le cose che vengono dette: «All’inizio ho partecipato a interviste all’interno dei telegiornali, perché ritenevo opportuno fornire informazioni per il mio ruolo istituzionale e tecnico. Quello è il luogo in cui si danno le informazioni, i talk show fanno un’altra cosa».

Anche il chimico e divulgatore scientifico Dario Bressanini ha espresso una posizione simile, raccontando su Twitter un invito in una trasmissione ricevuto qualche mese fa: «L’errore, di noi pubblico, è considerare i talk show come informazione. Non lo sono. Sono intrattenimento travestito da informazione». E ancora: «Presentare informazioni false sapendo che sono false non è essere pluralisti».

Vittorio Emanuele Parsi ritiene che sia comunque importante per un professore come lui non sottrarsi al dibattito pubblico, quando riguarda argomenti di cui è esperto: «La domanda che ci si può fare è se i talk siano il luogo del dibattito pubblico. Certamente si prestano a maggiori rischi di banalizzazione e spettacolarizzazione, ma alcuni riescono ancora a fare informazione in modo serio».