La prima crisi energetica del dopoguerra

Nel 1973 l'aumento del prezzo del petrolio portò alla “austerity” e richiese un cambiamento nelle abitudini degli italiani

Bologna, 2 dicembre 1973 (ANSA-ARCHIVIO/TO)
Bologna, 2 dicembre 1973 (ANSA-ARCHIVIO/TO)

Il timore di futuri problemi nell’approvvigionamento di gas dalla Russia e delle conseguenze che questo potrebbe avere sulla vita di ciascuno ha ricordato a molti, in particolare a chi ha più di sessant’anni, l’inverno del 1973-1974 quando l’Italia, ma anche gli altri paesi europei e gli Stati Uniti, dovettero affrontare una crisi energetica che segnò la definitiva conclusione degli anni del cosiddetto “boom economico”. In quel periodo, chiamato spesso austerity, agli italiani furono imposte misure drastiche che avevano lo scopo di contenere i consumi energetici, seppure per un numero limitato di mesi.

Fu un cambio di abitudini inaspettato e per molti traumatico. Dopo i periodi di incremento continuo del Prodotto interno lordo degli anni del cosiddetto “miracolo economico” del secondo dopoguerra, quando l’Italia e altri paesi europei avevano vissuto un’impetuosa crescita, ci si trovò di fronte a una crisi che ruppe l’illusione di uno sviluppo costante e ininterrotto. Il boom economico aveva prodotto la creazione di nuovi posti di lavoro, il calo della disoccupazione, gli aumenti dei redditi e dei consumi. Migliorò il tenore di vita degli italiani e questo fu accompagnato anche da una crescita demografica (le generazioni più numerose in Italia furono quelle dal 1961 al 1967).

I combustibili fossili, disponibili a prezzi moderati e in quantità che allora sembravano infinite, erano sempre più essenziali per far funzionare le industrie e i trasporti. All’inizio degli anni Sessanta le auto circolanti in Italia erano 1,6 milioni, a fine decennio erano diventate 9 milioni. Le auto prodotte nel paese passarono nel decennio da 600mila a 1,7 milioni. Fiat 600, 500 e 124 (l’auto italiana più venduta nel mondo) aumentarono enormemente le vendite.

La crisi energetica del 1973 segnò per molti il ritorno a una realtà più difficile e morigerata. A pagarne le conseguenze per prima fu proprio l’industria dell’auto: si passò da 1,449 milioni di immatricolazioni nel 1973 a 1,281 milioni nel 1974 e a 1,051 nel 1975.

In quegli anni il mercato petrolifero era controllato da quelle che Enrico Mattei, presidente dell’Eni, chiamava le “sette sorelle”: Mobil, Chevron, Gulf, Texaco, Shell, Exxon e British Petroleum, che monopolizzavano il ciclo di estrazione e produzione. La situazione iniziò a cambiare quando gli Stati Uniti dichiararono che la domanda di energia era così cresciuta da superare le risorse disponibili. Allo stesso tempo i paesi mediorientali che ospitavano immensi giacimenti iniziarono a rivendicare maggiori proventi dal sistema delle concessioni, retaggio dei periodi coloniali.

Nel 1960 era stata fondata l’Opec, Organizzazione paesi esportatori di petrolio. All’inizio c’erano Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Venezuela, poi si aggiunsero altre nazioni (ora i paesi sono 13). Lo scopo era la costituzione di un cartello che gestisse e regolasse sia la quantità di petrolio prodotto, sia i prezzi. Dopo aver ottenuto un aumento delle royalties, i paesi produttori iniziarono però ad avanzare la richiesta di partecipazione alle società concessionarie per il totale controllo delle risorse.

La disputa tra le sette sorelle e i paesi produttori andò avanti a lungo, poi nel 1973 ci fu l’evento scatenante della crisi. Il 6 ottobre 1973, giorno della festività ebraica dello Yom Kippur, Israele fu attaccato dall’esercito egiziano attraverso la penisola del Sinai, e dall’esercito siriano dalle alture del Golan. L’obiettivo era quello di cacciare l’esercito israeliano dai territori che aveva conquistato durante la Guerra dei sei giorni nel 1967.

Contemporaneamente all’inizio delle ostilità, i paesi dell’Opec, in sostegno a Siria ed Egitto, decisero un forte aumento del prezzo del petrolio a livello globale e la diminuzione del 25% delle esportazioni, oltre a un embargo nei confronti dei paesi maggiormente filoisraeliani. La guerra durò 19 giorni e non ebbe esiti risolutivi dal punto di vista militare. Ebbe però enormi conseguenze economiche: di colpo il prezzo del petrolio quadruplicò. I paesi occidentali subirono duramente il contraccolpo, e in tutta Europa vennero stabilite misure d’emergenza. L’Italia decise gli interventi per ultima tra i paesi del continente.

Il 22 novembre 1973 il consiglio dei Ministri presieduto da Mariano Rumor, che guidava un governo composto da Democrazia Cristiana, Partito repubblicano, Partito socialdemocratico e Partito socialista, decise una serie di misure con effetto immediato. Il primo provvedimento fu il divieto di circolazione di mezzi motorizzati su tutte le strade pubbliche, urbane ed extra­urbane, in tutti i giorni festivi (domeniche o infrasettimanali). Anche i natanti a motore dovevano restare fermi.

La prima “domenica a piedi” fu il 2 dicembre. Il divieto valeva per tutti, anche per i rappresentanti delle istituzioni e per il presidente della Repubblica Giovanni Leone che infatti, qualche giorno dopo, per andare dal Quirinale a piazza di Spagna per rendere omaggio all’Immacolata Concezione fece rispolverare una vecchia carrozza a cavalli. Erano esentati automezzi di vigili del fuoco, corpi di polizia, medici, furgoni postali, mezzi per la distribuzione dei quotidiani, ministri del culto all’interno dei comuni di residenza, auto del corpo diplomatico. Per gli spostamenti gli italiani potevano utilizzare treni, aerei, navi, taxi e gli automezzi delle linee pubbliche o con licenza di servizio da noleggio. Le multe per chi trasgrediva andavano da 100mila lire a un milione.

Il risultato fu che quella prima domenica le zone centrali della città si riempirono di persone a cavallo, in carrozza, ovviamente in bicicletta, con i pattini o con qualsiasi stravagante mezzo a pedali. C’erano carri trainati da buoi, muli, asini. I servizi del telegiornale (ce n’era uno solo allora, sulla prima rete Rai) si aprivano con la voce di Lucio Battisti che cantava “Confusione” («Tu lo chiami solo un vecchio sporco imbroglio ma è uno sbaglio, è petrolio»), in seguito sostituita da quella di Tony Santagata che cantava «austerity austerity, se non vuoi andare a piedi compra l’asino».

Quella domenica allo stadio di San Siro di Milano si giocò il derby Inter-Milan, vinto dall’Inter 2-1 con gol di Boninsegna e Facchetti. Le immagini televisive mostrarono una enorme fila di persone in bicicletta, a cavallo, a bordo di carretti stipati che andavano verso lo stadio.

(ARCHIVIO/ANSA/mp)

Le domeniche a piedi furono la misura più celebre dell’austerity, la più folkloristica. Venne presa bene dagli italiani: si trattava di una novità per molti addirittura divertente. Quella domenica, e poi quelle successive, furono in pochi a restare a casa.

Le restrizioni furono però molte altre: vennero stabiliti limiti di velocità su strade e autostrade: 50 km/h nei centri abitati, 100 km/h sulle strade extraurbane e 120 km/h sulle autostrade. I distributori di benzina dovevano chiudere dalle 12 del sabato a tutta la domenica. Il costo della benzina salì a 190 lire al litro, quello della super a 200; il gasolio per autotrazione, usato dagli autobus pubblici e dai camion, fu fissato a 113 lire al litro, mentre quello per riscaldamento, uso agricolo e marittimo aumentò di 18 lire al chilo, rag­giun­gendo la quota di vendita base di 50 lire al chilo. L’olio combustibile usato da industrie e centrali elettriche raggiunse 20 lire al chilo.

Era il periodo prima di Natale, così venne decisa una drastica riduzione delle illuminazioni decorative (praticamente non ce ne furono). Non potevano essere accese insegne dei negozi o quelle nelle vetrine. A Milano anche le famose insegne pubblicitarie al neon di piazza Duomo vennero spente per la prima volta. I negozi dovevano chiudere entro le 19, gli uffici pubblici alle 17.30. Bar e ristoranti non potevano restare aperti oltre la mezzanotte, per teatri e cinema la chiusura scattava alle 22.45: fu abolito l’ultimo spettacolo. Dalle 22.30 in poi in giro non c’era più quasi nessuno.

Anche i programmi televisivi terminavano rigorosamente alle 22.45. In quasi tutte le case a quell’ora si spegnevano le luci. Il telegiornale, che fino al 2 dicembre 1973 era andato in onda alle 20.30, fu spostato alle 20, e in quell’orario è rimasto fino a oggi su Rai 1. L’illuminazione stradale fu ridotta del 40%: in pratica rimaneva acceso un lampione su due. Tra le 21 e le 7 l’Enel ridusse la tensione erogata del 7%. Il governo fissò il limite della temperatura consigliata a 20 gradi, al massimo 21.

L’embargo dei paesi dell’Opec terminò nella primavera del 1974, e la crisi energetica si allentò. Per un certo periodo ci furono le domeniche a targhe alterne: circolavano un giorno le targhe pari e il fine settimana successivo quelle dispari. Non si invertì però la crisi economica. Nel 1974 l’inflazione salì al 19,1%, nel 1975 ci fu la prima recessione dal dopoguerra con una perdita di Pil del 3,8%. L’Italia era uscita definitivamente dal periodo associato in seguito al “miracolo economico”. Ancora non si parlava di energie alternative e di rinnovabili ma, se ancora non era sviluppata una consapevolezza ecologica, in molti avevano iniziato a rendersi conto di quanto fosse precario un sistema che si basava sulla dipendenza dall’energia che giungeva in Italia da aree del mondo politicamente instabili.